Questo racconto è stato concepito come un omaggio a Osvaldo Soriano e alle sue storie sul calcio
Durante gli anni terribili della seconda guerra mondiale, poche cose riuscirono a continuare come prima. Una di queste fu il calcio, che scrisse pagine oscure ma altrettanto epiche di quelle vissute e narrate dai protagonisti dei giorni nostri. Una di queste storie fu l’epilogo del “Campionato del Centro Sud” che si svolse nel mezzogiorno occupato dall’esercito americano di liberazione negli ultimi mesi di guerra. Giuseppe “Pinuzzo” Santoro fu uno dei protagonisti di quella vicenda, e quella che segue è l’intervista che gli feci per la Gazzetta qualche anno fa presso la casa di riposo vicino Cefalù dove ormai risiedeva, quando era già ultraottantenne e malato, ma con una memoria di ferro. Non troverete la figurina di Pinuzzo Santoro in nessun album Panini, ma vi assicuro che vale la pena ascoltare la sua storia.
Noi volevamo solo giocare a pallone. A noi ragazzi palermitani nati negli anni venti, non ce ne futtia niente dei fascisti, dei comunisti, dei tedeschi, della mafia. Noialtri non tenevamo niente, abitavamo in casette povere, avevamo ancora gli animali da cortile dentro casa, la bicicletta ce l’avevano pochi privilegiati, e ci spostavamo sugli autobus, senza pagare il biglietto. I nostri genitori faticavano come matti per mettere insieme almeno un pasto decente al giorno, e noi stavamo soli tutto il giorno. Qualcuno andava a scuola, la maggior parte si presentava solo quando i fascisti ci costringevano a fare delle adunate dimostrative per qualche gerarca che veniva da Roma, o per una ripresa dell’Istituto Luce. Io non ero diverso dagli altri, stavo col pallone tra i piedi tutto il giorno, ma io ero bravo. Minchia, se ero bravo. A 15 anni quelli del Palermo mi volevano già in prima squadra, ma mio padre disse di no. Non gli chiesi il motivo, perché all’epoca non si contestavano le decisioni dei genitori. Poi scoppiò la guerra, e in ogni caso la questione del Palermo si risolse da sola. Mio padre era un ragazzo del ’99, ma scampò alla prima guerra mondiale. Non alla seconda. Io ero il più grande di tre fratelli, il secondo aveva 5 anni meno di me, e sono l’unico che si ricorda bene il giorno in cui partì per il fronte. Mia madre piangeva su una sedia, e i miei fratelli con lei, attaccati alla sua gonna.
Mio padre era in piedi davanti a me. Era bellissimo. Alto, per l’epoca, i capelli di un colore nero che non ho mai più visto, e i denti bianchissimi. Mi guardò negli occhi e mi disse: – Tu non piangi? – con un mezzo sorriso beffardo. – Nonzignore – gli risposi – l’ommini non chiangono – ma dentro stavo morendo. – Bravo picciotto – mi sorrise – però non è che mi vuoi meno bene di quelli che piangono, vero? – – No papà, vi voglio bene – Mi strinse la mano, poi mi abbracciò. Aveva fumato una sigaretta, e quell’odore di tabacco ce l’ho ancora qua, non mi si toglie di dosso, campassi altri cento anni e facessi altre centomila docce. Non mi disse altro, non ce n’era bisogno. Morì in Grecia, pochi mesi dopo. Mio padre non era un eroe, era solo un brav’uomo che cercava di campare la famiglia. Quando partì, io e i miei fratelli smettemmo di andare a scuola e ci occupammo del negozietto di frutta e verdura, che negli anni della guerra diventò uno dei punti di smercio di tutta una serie di traffici, gestiti dal mandamento locale. In questo modo andammo avanti abbastanza bene. Io continuavo a giocare a pallone, ed ero bravo, ma mi stavo perdendo l’occasione di diventare un calciatore. Poi, la guerra per noi finì, sbarcarono gli americani, e il pallone ridiventò una possibilità. Dopo un po’, gli americani si annoiarono: erano soldati, abituati a combattere tutti i giorni, ad ammazzare e a farsi ammazzare, e amministrare non era il loro mestiere; e così cominciarono a guardarsi intorno per organizzare qualcosa per passare il tempo. Un giorno, i soldati radunarono tutti i ragazzi della mia età, sui vent’anni o giù di lì, in un campetto di terra che era vicino al porto. Insieme a noi c’era anche Don Tano e un paio di luogotenenti. Don Tano era il boss riconosciuto della vecchia mafia contadina, e per un patto non scritto – ma non per questo meno forte – con gli americani, tutto quello che non era strettamente legato alle operazioni di guerra passava per l’approvazione di Don Tano. In cambio lui provvedeva ad alcuni servizi essenziali, come ad esempio fornire manodopera, stanare i gerarchi che si erano nascosti, tenere a bada la popolazione, e rifornire i soldati di belle picciotte. Mentre noi ragazzi ci chiedevamo il perché di quella convocazione, arrivò una jeep militare. Scese un colonnello alto, robusto, con un sorriso a 32 denti, un attendente, e un traduttore. Il traduttore era un puppo di Carini che perseguitato dai fascisti si era rifugiato nell’entroterra, ed era poi rientrato dopo l’arrivo dei militari; in tre mesi si era imparato alla perfezione l’inglese, pur di stare vicino a quei pezzi d’ommini. Il Colonnello parlò, il traduttore tradusse, e noi tutti aspettammo Don Tano. Lui fece un gesto con la testa come a dire “Non capisco”, poi guardò i due picciotti che lo avevano accompagnato, e anche loro gli rimandarono uno sguardo interrogativo. Don Tano ci pensò un attimo, e poi ci disse al Colonnello: – Ma cu’ minchia è stu baisbol? A noialtri ci interessa solamente giocari a u pallone – Il sorriso del Colonnello si spense, e fu così che ricominciò la mia carriera di calciatore. A malincuore, gli americani organizzarono un campionato che chiamarono pomposamente “Campionato di Calcio Italiano del Centro Sud”. A dire il vero, dato che i trasporti erano ancora complicati, noi siciliani giocammo tutte le partite contro squadre siciliane, e da Napoli in giù, seppure con un po’ di fatica, riuscirono a fare anche delle trasferte in altre regioni. In quei giorni a Palermo si stava meglio che in altre parti dell’isola. C’erano gli americani, c’erano i soldi, da mangiare, la mafia, insomma i meglio picciotti di tutta la Sicilia venivano da noi, e la nostra squadra si potè scegliere i migliori. Io ero il regista, il fantasista, quello che oggi chiamereste voi pennivendoli “il numero 10″, anche se allora i numeri non c’erano. Il portiere era un colosso di Messina, alto due metri e che pesava 150 chili. Impossibile passare, occupava tutta la porta. Come centravanti avevamo un piccoletto di Mazara, che aveva fatto il pescatore, ma che era più bravo a tirare nelle reti che tirare le reti. Insomma, era una specie di nazionale della Sicilia intera.Ci allenava Pippo Maselli, detto “gambadilegno” per via di un’amputazione subita durante la Grande Guerra. Gambadilegno poteva palleggiare con l’unica gamba vera, appoggiandosi su quella di legno, più di quanto molti di noi riuscissero a fare con tutte e due le gambe sane. Ai suoi tempi era un buon mediano, con i piedi buoni, ora di piede buono ce ne aveva uno solo, ma lo usava spesso per prenderci a calci nel culo. Vincemmo a mani basse tutte le partite, mentre nel continente era battaglia all’ultimo sangue tra Napoli e Bari. Alla fine la spuntò il Bari, grazie ad un rigore dubbio concesso con generosità all’ultimo incontro contro la Reggina. A noi non ci fece piacere, e capirai perché: la finale – era già deciso – si sarebbe tenuta a Bari, perché lo stadio era l’unico agibile tra quelli attivi prima della guerra. E la presenza di oltre 20.000 spettatori nelle partite in casa, non fu ininfluente ai fini dei tanti punti accumulati dal Bari. Il Napoli forse avrebbe vinto comunque, nonostante gli spettatori, ma al Colonnello era andata di traverso la decisione di Don Tano, e quindi parlò con l’arbitro prima della partita decisiva, e fece in modo che la finale si giocasse a Bari. Contro il Bari. Davanti a 20.000 baresi, dopo un viaggio che per noi si annunciava massacrante. Minchia, ci avevano preparato un bello scherzetto.
Come detto, noi vincemmo tutte le partite del nostro girone siciliano, e di fatto facemmo tanti begli allenamenti senza faticare gran che. Dato l’impegno ridotto, ne approfittammo per qualche ficcatina qua e là.Da mio padre avevo ereditato l’altezza, il bell’aspetto e i capelli, che però non erano neri come i suoi, ma insomma, anche io me la cavavo. Arrivò il giorno della partenza, e per garantire un viaggio il più possibile sicuro, il Colonnello ci fece trasferire a Bari con un’unità di appoggio della marina; purtroppo, l’unità aveva il compito di portare dei documenti in alcune sedi strategiche della quinta flotta, e così il viaggio da Palermo a Bari durò una settimana, stipati in cuccette militari che avrebbero dovuto contenere la metà delle persone, e senza uno straccio di una fimmina. Minchia, che stronzo ‘sto Colonnello. Arrivammo a Bari che non ci reggevamo in piedi, la notte prima dell’incontro, e ci alloggiarono in una caserma requisita dagli americani, mentre i nostri avversari dormivano nei loro letti, festeggiando anticipatamente la vittoria con le loro mogli e fidanzate. Gambadilegno si assicurò che andassimo tutti a dormire, e ci convocò la mattina dopo per una seduta di allenamento. Ma la seduta non si fece mai. Metà di noi non riuscì a svegliarsi in tempo, gli altri erano in piedi per puro miracolo, e alla fine Gambadilegno si limitò a farci un predicozzo, tenendo un discorso che voleva essere simile a quello di Napoleone ai suoi veterani (“lo stato vi ha chiesto tanto…” etc. etc.) ma che nessuno ascoltò veramente. Finito il discorsetto, più o meno tutti andammo a dormire, svegliandoci solo un paio d’ore prima della partita. Salimmo sui mezzi militari che ci portarono allo stadio. Eravamo in condizioni pietose, e vedevamo migliaia di persone arrivare con ogni mezzo per assistere alla Finale. Eravamo fottuti. Eravamo carne da macello. Sportivamente, s’intende. Ma sempre manzi da macello eravamo. Nessuno ci ricevette allo stadio, né ci indicò dove potevamo cambiarci; così, mentre ci guardavamo intorno smarriti, vedemmo l’arrivo del Bari, in mezzo ad una folla osannante. Minchia, tenevano pure le divise nuove, rosso fiammante. Noi avevamo delle maglie rosa stinte, appartenute ad un Palermo di 20 anni prima. Ma quanto era stronzo, ‘sto Colonnello. Solo in quel momento capimmo che cosa ci aspettava: la disfatta, i cristiani al colosseo contro i leoni, Curiazi contro Orazi. E non potevamo farci niente. Loro erano freschi, allenati, in carne, e poi, sapevano anche giocare a pallone. Noi non avevamo fatto incontri veri da 5 anni, non eravamo veramente allenati, e guardando loro scoprimmo che a Palermo non si mangiava poi così tanto. La squadra del Bari sfilò davanti a noi, con dei sorrisi trionfanti, si diresse verso gli spogliatoi, e noi seguimmo.Per ultimo c’era l’allenatore. Era un boemo, di nome Cestic, o Kestic, che poi anni dopo mi dissero parente di Vickpalek e di Zeman. Insomma, uno dei tanti boemi che ogni tanto viene da noi per spiegarci che non abbiamo capito una minchia di pallone. Devi sapere che negli anni 30 la scuola cecoslovacca era una delle più importanti, e questo boemo aveva vinto – pare – dieci scudetti nazionali. Poi quando i nazisti smembrarono il paese, lui scappò prima in Francia, poi in Spagna, e alla fine, non si sa come, si trovò in Puglia al seguito degli americani. Certe voci dicevano che a suo tempo fosse un importante agente dei servizi cecoslovacchi, e che aveva aiutato gli americani con informazioni riservate. Altri dicevano che fosse di origine ebrea, e che avesse comprato la sua libertà con oro sonante. A noi sinceramente, di come il boemo fosse arrivato ad allenare il Bari ci importava meno di niente. Guardammo istintivamente Gambadilegno, e il confronto fu impietoso, ma eravamo affezionati al vecchio ubriacone, e non dicemmo niente. Poi, fu un attimo, come un fulmine. Dietro al boemo comparse…non lo so…una dea…una madonna, la stella cometa, iddio sceso in terra. Una fimmina come non l’avevo mai vista, e come non la vidi mai più. Era alta forse poco meno di un metro e ottanta, una gonna al ginocchio che aderiva su un culo rotondo come i melloni di Pachino, una camicetta che voleva scoppiare, tanto generose erano le minne, e un viso angelico con i capelli biondissimi e due occhi azzurri che mi ricordarono il mare di Favignana. Tutti quanti, anche Gambadilegno, rimasero a bocca aperta, mentre lei seguiva il boemo. Scoprimmo subito che era la moglie dell’allenatore del Bari, anche lei boema, lo aveva incontrato e sposato in Spagna, e poi seguito sempre. Lui la portava – pare – a tutte le partite, e la guardava sempre, e non gli importava che tutti gli ommini intorno la guardassero pure loro, anzi, un po’ ci godeva. Gli dedicava le partite, e lei ricambiava. Chissà quanto ricambiava. Ora, non ci crederai, e anche io stento a crederci dopo tutti questi anni, ma ti assicuro che la memoria mi funziona ancora bene. Non posso dire altrettanto della minchia, ma la memoria è quella di una volta: mentre entravano negli spogliatoi, lei si girò e mi fece un sorriso. Non lo so se se ne accorse qualcun altro, perché io persi conoscenza. Non letteralmente, va’! Semplicemente, non capii più niente e pensavo solo a chilla fimmina, e ai denti bianchi che teneva, e ai capelli, e a tutto il resto. Mi dovettero trascinare negli spogliatoi, ma non mi importava più niente della partita. Avrei dato tutte le coppe e gli scudetti del mondo per un’ora con quell’angelo benedetto. Quando entrammo in campo, il nostro destino era segnato.Oltre a tutta la situazione, la mia squadra aveva un altro problema: il regista, cioè io, non ci stava con la testa. Guardai verso la tribuna e la vidi lì, ma non mi guardò. Invece, aveva occhi solo per il marito, il maledetto boemo che iddio aveva privilegiato, permettendogli di dormire accanto a quell’essere perfetto. Quando l’arbitrò fischiò l’inizio, i 20.000 spettatori ruggirono all’unisono, e il Bari si riversò in massa verso la nostra metà campo. Io non capivo niente, nei primi 10 minuti non presi una palla, poi la prima la sbagliai. Il Bari nella prima mezz’ora praticamente stazionò fisso nella nostra area di rigore. Segnarono un gol su calcio d’angolo, un altro su punizione, presero due traverse e un palo, e solo il coraggio e la stazza del messinese, ci salvarono da un passivo peggiore. Gambadilegno urlava continuamente, a tutti, ma soprattutto a me. Io avevo tentato un paio di passaggi, ma non ero riuscito a dare una palla decente al Mazarese che mi fece capire chiaramente un paio di volte di andare a farmi fottere. Dopo il secondo gol, mentre tornavamo a centro campo con la palla, guardai gli spalti. Il pubblico era in delirio. Bandiere biancorosse dappertutto, neanche una rosanero. I giocatori del Bari si davano delle maschie manate sulle spalle. Il boemo stazionava davanti la panchina con le mani sui fianchi, come faceva il duce buonanima. Fu allora che guardando in tribuna, vidi che l’angelo, la dea, la madonna, mi stava guardando. Era un po’ che mi guardava, evidentemente. Quando si accorse che anche io la guardavo, fece un lieve, impercettibile sorriso, tirando su un angolo della bocca più dell’altro, come a dire: “Peccato, potevi anche interessarmi, ma non amo i perdenti” Poi si girò verso il boemo, e gli fece un sorriso da infarto. Fu in quel momento, in quel preciso momento, che mi salì una raggia dal ventre, salì su per lo stomaco e mi arrivò nel cuore, e me lo strinse fino a farmi male. Diventai tutto rosso, poi presi il pallone e guardai i miei compagni, poi Gambadilegno. Non ci fu bisogno di dire niente. Quando la partita riprese, fu un’altra storia. IO ero un’altra storia, un’altra persona. Il primo gol lo segnai dopo uno scambio con il mediano, che vista la mia rabbia, per la prima volta ebbe il coraggio di spingersi fuori dalla nostra metà campo. Mi diede un pallone appena fuori l’area del Bari, e tirai una botta con tutta la forza dei vent’anni, con tutta la rabbia di uomo che vuole disperatamente la sua donna. Il portiere avversario non fece neanche in tempo a vederla partire, figuriamoci a pararla. Lo stadio ammutolì, mentre i miei compagni mi saltavano addosso per festeggiarmi. Io non esultai, non dissi niente, tornai verso il centro del campo guardando lei, che mi fissava incuriosita, come se volesse vedere se questo piccolo insetto avrebbe avuto la forza di diventare uomo. Il boemo non la guardò, stava dando istruzioni in un italiano incerto ai suoi giocatori, che avevano accusato il colpo, ma non sembravano preoccupati. Il secondo gol lo segnò il piccoletto di Mazara. Me ne andai sulla sinistra con un contropiede micidiale, seminai 2 difensori, poi, mentre il portiere e altri due difensori convergevano su di me per abbattermi in un modo o nell’altro, con l’esterno del piede destro servii un pallone d’oro al Mazarese, che dovette solo accompagnarlo in porta. Ora lo stadio ululava, il boemo imprecava, i giocatori del Bari avevano paura, i miei compagni sembravano impazziti, ma io guardavo solo lei, che ora era stupita, e sembrava ammirata, e mi battè leggermente le mani in segno di apprezzamento. Il Colonnello americano schiumava di rabbia a bordo campo, mentre i suoi marines apparentemente se la stavano godendo un mondo. Non eravamo più stanchi adesso, eravamo delle tigri, dei leoni, e i baresi avevano le gambe molli. Mancavano 5 minuti alla fine del primo tempo, e cercarono chiaramente di temporeggiare, per rientrare negli spogliatoi e sperare di riprendersi. Ma io ero di diverso parere. Mi smarcai con una finta sulla sinistra, poi tornai verso il centro dell’area, appena fuori la lunetta. Chiesi la palla al Mazarese, che me la appoggiò di piatto, fintai di rientrare sulla sinistra, e mi girai di scatto sulla destra entrando in area, e mentre il portiere avversario mi veniva incontro per fermarmi in qualche modo, colpii la palla da sotto in su, delicatamente. Il tempo si fermò, poi riprese a scorrere, ma piano. Potrei descriverti quei pochi secondi, istante per istante. Potrei raccontarti dello sguardo disperato del portiere che vede il pallone passargli sopra la testa, in mezzo alle braccia protese verso il cielo. Potrei parlarti del difensore che si fermò sbuffando a guardare il pallone che gonfiava la rete. Potrei dirti mille altre cose, ma ti dirò solo che finalmente urlai di gioia, ed esultai correndo verso di lei, evitando tutti i compagni, facendo cadere a terra il povero Gambadilegno che voleva abbracciarmi, e quando arrivai sotto la tribuna lei era già in piedi, sorrideva, e mi mandava baci con le mani. Il boemo era intento ad urlare ai suoi, e non si avvide della scena, ma non sarebbe cambiato niente. Lei era mia, ora, mia e basta. E’ l’ultima immagine che ho di lei. Il pubblico inferocito cominciò a scavalcare le transenne e cercò di venirci a linciare. Noi fummo presi dai soldati americani e trascinati via di peso, mentre si sentivano spari e sirene. Io non volevo andare via, volevo andare da lei, ma fui tramortito da un pugno, o da un bastone, non lo so, fatto sta che quando mi svegliai eravamo già sulla nave che ci avrebbe riportato a Palermo. Seppi dopo qualche tempo che il boemo fu costretto a lasciare Bari, anche se tecnicamente il Campionato non fu assegnato, quindi non poteva averlo perso, ma si sa, i tifosi italiani sono fatti così. Lui e la moglie, la donna della mia vita, andarono nella Francia liberata, dove lui allenò con alterne fortune qualche squadra di categoria inferiore. Lei morì pochi mesi dopo, per una gravidanza difficoltosa. Quanto a me, la storia la sai già: giocai nel Palermo qualche anno, poi mi ruppi un ginocchio, e la mia carriera finì lì. Mi consolai facendo il mestiere di mio padre, e mettendo al mondo quattro figlie, tutte fimmine. Dopo il matrimonio, fui sempre fedele a mia moglie, ma segretamente, durante molte notti insonni, la tradii con una fimmina alta, bionda, con gli occhi azzurri come il mare di Sicilia, e che mi aveva mandato un bacio tanto tempo prima.
ohi questo è un racconto proprio bello