Dalle ceneri della rivolta una “dittatura democratica”?
“ Nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell’abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri … Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso […] Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all’altro può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla […] Se un potere dispotico si insediasse nei paesi democratici, esso avrebbe certamente caratteristiche diverse che nel passato; sarebbe più esteso ma più sopportabile, e degraderebbe gli uomini senza tormentarli.”
Alexis Charles Henri Clérel de Tocqueville, uno dei più grandi pensatori liberal-democratici dell’Ottocento, che guardava con simpatia alle correnti liberali e costituzionali dell’epoca, con il suo “De la démocratie en Amerique” del 1840, toccava uno dei tasti più dolenti delle nuove democrazie.
Mentre continua la cosiddetta Primavera Araba, che spesso vede l’opinione pubblica divisa in favore dei governi o dei ribelli, nessuno si cura più di quello che accade laddove la rivolta ha portato alla fine di un governo o di una dittatura.
È questo il caso di Paesi come l’Egitto o la Libia. Sembra quasi che la “notiziabilità” di un evento politico ed economico esista soltanto nel momento in cui è in grado di suscitare emozioni e dividere l’opinione pubblica in tifoserie da stadio.
Finito l’evento emotivo, termina anche la sua “notiziabilità”.
“Urgente Sabha Sebha autobomba vicino alla sede della sicurezza nazionale… È una Peugeot parcheggiata… Avrebbe dovuto essere controllata, ma non è stato fatto…”
“Urgente: dominare la situazione e risolvere la questione amichevolmente senza spargimento di sangue.”
“Urgente: uomini armati occupino la radio e impongano il controllo sulla regione e i negoziati tribali per risolvere il problema al fine di evitare spargimenti di sangue e per consolidare la linea nazionale.”
Questi sono soltanto tre messaggi di ieri, sufficienti a rendere l’idea di come la questione libica del dopo Gheddafi non sia ancora risolta.
Una questione che – scomparsa dalle prime pagine dei giornali occidentali – sembra dover riguardare solo il popolo libico. Dei pro-Gheddafi e dei pro-ribelli italiani, non c’è più traccia. Scomparsi dai media, dai blog, dai social. Di Libia, così come di altre realtà, torneranno a parlare e scrivere solo quando la “notiziabilità emotiva” di un evento come una rivolta o una strage darà loro un palcoscenico mediatico dal quale affacciarsi alla ricerca di facili allori. Quegli allori salottieri, così diversi da quelli intrisi dal sangue di quanti a volte proprio malgrado se li sono conquistati tra lo scoppio di granate, il sibilare dei proiettili, le urla e il rantolo dei feriti; ma così simili a quelli di chi, lontano dalla rivolta, oggi siede al potere.
È questo il caso di Mustafa Abushagour , vice Primo Ministro libico. Chi è? Dov’era durante la rivolta? Come e perché è arrivato al potere?
Di lui si sa che appartiene ai Fratelli Musulmani d’Egitto, che è uno dei fedelissimi del Leader Supremo egiziano, che è un accademico, che ha trascorso negli Emirati Arabi Uniti tutto il periodo della primavera araba libica.
Sconosciuto al suo stesso popolo, fino a quando, rientrato nel suo paese dopo la rivolta, non partecipa ad un programma televisivo del quale si ricordano solo le lodi tessute ad uno dei primi capocorrente della nuova classe politica. Dalle lodi ad Abdulrahim, iniziò la scalata ai vertici del nuovo governo. Ma può cominciare così la conquista della poltrona di numero due del governo da parte di un anonimo analista accademico (corso di politica ed economia)?
Forse per capire le ragioni di tanto “spessore politico”, è necessario dare un’occhiata a coloro i quali non hanno visibilità mediatica. Partiamo da Osama Abushagour, figlio del n°2 libico.
Il suo nome compare nei rapporti che molte aziende straniere hanno con i ministeri libici del dopo rivolta. In particolare nel campo delle telecomunicazioni. Il giovane Abushagour si ritrova ben presto ad interessarsi della “”Libyana free 099”, azienda che opera nel settore delle telecomunicazioni. Prima dell’arrivo in azienda del delfino del vice premier, la stessa assicurava le chiamate interne brevi gratuite, mentre i servizi di comunicazione internazionale non facevano mai segnalare problemi di sovraffollamento di rete. Inspiegabilmente, il numero degli utenti dei servizi di comunicazione internazionale di tipo commerciale (famigerati servizi come quelli delle hot line?). Chi è causa dei suoi mali pianga sé stesso, e se un privato ama spendere così il proprio denaro, saranno pure fatti suoi. Intanto i profitti aziendali dell’ultimo anno della Libiana – ovvero da quando se ne occupa il buon Osama – crescono nella misura di oltre 60 milioni di dinari (un dinaro, corrisponde alla data odierna a 0,63 euro), nel solo settore delle comunicazioni internazionali.
Ma se il privato può fare pure quel che vuole, così non è, o almeno non dovrebbe essere, per il pubblico. Si scopre dunque che buona parte dei grossi profitti aziendali arrivano grazie alle comunicazioni internazionali effettuate dagli enti pubblici e pagate dunque da ignari cittadini.
Sarà che la nuova Libia ha incrementato i rapporti commerciali con l’estero…
Il via al “progetto telecomunicazioni”, è stato dato dalla prima importante conferenza post- rivoluzione a Tripoli: l’innovativo evento TEDx Tripoli del 13 febbraio 2012.
Una conferenza globale che ha visto la partecipazione di numerosi imprenditori e politici provenienti da più parti del mondo, per discute di trasformazione economica, in particolare nei mercati emergenti dell’Africa e dell’Asia
Una “trasformazione” che passerebbe attraverso il progetto della “Banda larga per tutti”. Alla conferenza, ha preso parte il Primo Ministro libico, la cui presenza, per circa due ore, avrebbe avuto solo lo scopo di legittimare l’evento stesso e la famiglia Abushagour. Secondo fonti libiche, i costi per ospitare la conferenza globale, sarebbero stati elevatissimi. Chi se ne è fatto carico, lasciando fare ad Abushagour la parte del leone? Perché? Alla prima domanda non è difficile rispondere, visto che a partecipare erano multinazionali straniere con grandi interessi sul futuro della Libia (ovvero dei loro affari in Libia).
Dagli affari nel settore dell’energia, che vedevano un asse solido in Putin, Berlusconi e Gheddafi, si è ben presto passati alla comunicazione, nella quale non poteva certo mancare la Telecom, che – secondo quanto vorrebbe un sempre più insistente tam tam – avrebbe pagato ingenti somme per contribuire alla conferenza globale sulla telecomunicazione, a beneficio di Mustafa Abushagour.
Purtroppo la storia – compreso quella giudiziaria -, ci narra di analoghe vicende i cui contorni erano tutt’altro che chiari e che speriamo non debbano più ripetersi.
Intanto, un sempre più attento popolo libico guarda con sospetto agli affari e alla politica di Abushagour. Non sono pochi i libici che auspicano un interessamento da parte della Commissione e della conferenza nazionale, affinchè si apra un’inchiesta sui presunti abusi commessi da Mustafa Abushagour e dal figlio.
“Ci si avvia al corrotto governo governato dalla famiglia e guidato da avidità e cupidigia? E si ripeterà lo scenario dei figli del tiranno?” si chiedono in tanti.
Quello che ci chiediamo invece noi, è:
1) Dov’è quella stampa complottista, tanto pronta a sorreggere un dittatore, quanto a girarsi dall’altra parte, quando invece dovrebbe svolgere il ruolo di controllore della democrazia?
2) I “paci-finti” – come qualcuno inizia a chiamarli -,anziché far udire la loro voce per denunciare le malefatte internazionali e il pericolo dell’istaurazione di un regime “dittatoriale democratico” (quale quello descritto da Alexis de Tocqueville, o, peggio, quali quelli recentemente abbattuti), aspetteranno ancora una volta che la sofferenza di un popolo si trasformi in tragedia, per poi schierarsi pro o contro?
Gian J. Morici