– Me la spieghi quella valigia? –
– Quella? E’ la valigia di quest’estate. –
– Di quest’estate? Monica è estate. E mi hai detto che non sai se andrai fuori, se farai qualcosa, che devi lavorare. E sei quella della valigia tre giorni per pensarla e tre secondi per farla. I tre secondi esatti prima di partire. Non vai in nessun posto e hai preparato la valigia? –
– Non ho detto questo. Ok ho detto questo, ho detto di quest’estate, ma tu sai che per me è estate quando parto, quando vado al mare, quando mi ci trasferisco, mi stabilisco lì, mi inchiodo lì, in quel maledetto posto da una vita, allora è estate. Quindi. Quindi quella è la valigia dell’estate scorsa. –
– Tu sei matta. E ci ridi anche. –
– Beh ridi anche tu adesso. Meglio che piangere no? –
Chiara mi guardava perplessa. No, perplessa non è la parola giusta; e i suoi occhi azzurri, profondi, così profondi e cupi e pieni da non sembrare azzurri, perplessi non li ho visti mai. Indagatori sì, quello magari, accesi adesso di una luce vaga di ironia, mista a pena forse, a tristezza, ad ansia pure, per me. Per me che invece le parole, i gesti, dicono, le dicono, che c’è di strano? e gli occhi no però, gli occhi rifuggono il suo sguardo, guardano altrove.
– Senti perché non la mettiamo via? Ti do una mano io. Dieci minuti e mettiamo tutto a posto. O pensi di portartela così com’è se parti, quando e se parti, senza guardarci neanche dentro? Magari qualche cosa manca, l’hai tirata fuori perché ti serviva ed ora non lo sai che cosa c’è e cosa no. O c’è qualcosa che non vuoi più usare. Anche per cambiare. –
– Ma dai, è un secolo che sta così, sai che mi cambia. La svuoterò prima o poi. Certo che non la porto via così, ci ho tolto un po’ di tutto, a caso poi, magari bestemmiando che quello che cercavo erano ore che non lo trovavo. E’ roba che mi serve adesso, con questo caldo poi, man mano la sto usando. Dagli qualche altro giorno e sarà vuota. E poi, ripeto, la vuoterei comunque prima di riempirla.
Ti pare che son mesi che non ci vediamo e già sei qui e io non sono pronta, magari non lo sarò mai, nel senso che è già tardi e non andiamo in nessun posto, e ci mettiamo a fare una cosa che da un anno non ho fatto? –
– Perché? –
– Perché cosa? –
– Perché non l’hai fatto. –
– Boh! Lo sai, una volta una cosa, una volta un’altra, per le mie cose io non ho mai tempo, non l’ho fatto, ma lo farò. Prima o poi. –
– Monica. Ci vogliono dieci minuti. Ora ce li hai. –
– Ok mi rompo va bene? Non mi va, non ne ho voglia, non ne vedo la necessità, non ne capisco il senso, ti basta? –
– Vuoi scendere? –
– … –
– …? –
– Non lo so. –
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Ottanta metri, sette ostacoli, settantasei centimetri per ostacolo; dodici metri di stacco all’uscita dai blocchi – i blocchi? Quali blocchi? A noi cadette non spettano i blocchi, si finge, si finge di averli, il che significa anche avere meno spinta, hai voglia a dire che a uscirci dai blocchi non è facile, che anzi, finché impari, con le chiodate poi, sì le scarpette, neanche quelle ci spettano, e anche quelle, sul tartan, ne fanno di differenza, e sì che anche quelle, finché impari, finché ti abitui, intanto però non le hai, e la differenza la senti, specie quando lo sai, che le hai provate, per cominciare a imparare, che due anni passano veloci, la senti, e non le hai – dodici metri, e dodici all’uscita dall’ultimo ostacolo fino al traguardo; otto metri, la distanza tra ogni ostacolo.
Una garetta.
Una garetta anche senza i blocchi e le chiodate, anche così, ottanta metri sono niente, sei allenata. Settantasei centimetri, settantasei centimetri per te che hai tredici anni e hai gambe lunghe quasi un metro, una sciocchezza.
E invece no.
Tre passi. Tre soli passi in otto metri. Quella è la musica giusta da suonare. Certo ne puoi suonare un’altra. Puoi farne cinque. O quattro, e alternare gamba sullo stacco. Che questo no, non è proprio semplice per esempio, ma se sei lunga cinque passi non ci stanno in otto metri, non di corsa. Il punto è che la musica giusta comunque non è quella, il tempo giusto non è quello.
Tutto ha una musica, un tempo, un ritmo.
Se lo prendi funziona, altrimenti qualcosa stona.
Il tempo degli ostacoli, che tu sia lunga un metro o due non conta, è un quattro quarti: preciso, costante, immutabile, ineluttabile.
Hop due tre quattro, hop due tre quattro, hop.
Otto metri.
Due per passo, due sull’ostacolo.
Che non si salta, nonostante l’hop, si “passa”. Buttandolo giù se serve, non importa. Certo, senza restarci dentro. O sopra. Mi è successo una volta. Sull’ultimo ostacolo. La prima volta che ho sentito il tempo dentro, e quattro passi non c’entravano, col tempo. E per entrarci io nel tempo mi sono strappata, proprio quando finalmente funzionava. Succede.
Cerco sempre il tempo, il ritmo intendo.
Quando cammino, mentre cucino, mentre rifaccio i letti, mentre mi lavo.
Non lo so se c’entrano gli ostacoli, non credo, magari allora è stata una scoperta che poi ho dimenticato, o forse no. E’ passato così tanto tempo.
Conto.
Sembra sia una cosa che fanno i pazzi.
Io non lo so che cosa contano i pazzi, io conto il tempo, il battere, il levare, le note lunghe, quelle brevi, le pause. Ascolto il mio tempo. Lo compongo. Cerco di non stonare, di rispettarlo, mentre prende forma, e di chiuderlo, di chiudere la partitura, quando è finita, in modo regolare. Irregolare anche, certo, succede, ma comunque provo a chiuderlo, a definirlo, devo farlo, finché ci sono.
E intanto passa, il tempo.
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– Hai ancora il metronomo? –
– Il metronomo? –
– Ma sì, non dirmi che non ti ricordi! Roberto ce ne regalò uno a testa quando finimmo il primo ciclo di lezioni di solfeggio. –
– Ritmico, solfeggio ritmico. Primo ed unico ciclo, banda di scapestrati e disorganizzati. Per fare una lezione a settimana quattro teste da accordare sembrava dovesse riunirsi il Consiglio di Stato. –
– Vero, e finivamo per farle in orari assurdi, in piena notte. Tu studi ancora? –
– No, è tanto che non studio. E poi non ballo più, quindi. –
– Vuoi dirmi che non conti più? –
– … –
– Lo fai o non lo fai? –
– Perché mi chiedi questo? Cosa c’entra adesso? –
– E’ una partitura no? La valigia intendo. –
– Si. –
– Perché non la vuoi chiudere? –
– E’ un pas de deux.* E non l’ho scritto io. Alcune opere restano così, incompiute. –
Ci sono valigie che è difficile, troppo difficile mettere via. E quando lo fai, se lo fai, sai non troverai mai il modo giusto, il ritmo giusto, il tempo giusto per farlo. La nota giusta, per chiudere la partitura. Qualsiasi cosa tu farai stonerà. E la promessa di un capolavoro non sarà che carta straccia, da strappare, da bruciare e farne cenere; a sporcare il vento.
Così non conti. E il tempo non passa.
*Nel balletto, Passo a due