Non me ne fregava niente della sfida, della competizione, degli esiti, della vittoria. Era la prima volta che salivamo su un palco, con un pubblico vero, diverso da quello delle sale prove, delle feste tra amici. Mi andava bene quel che era stato, aver partecipato, esserci stato, aver sentito il calore del pubblico, l’affetto degli amici, la gioia negli occhi dei miei compagni nell’essere lì. E’ quel che ho pensato quando ci avete richiamato per contenderci il ripescaggio e l’ho detto: “Non ha molto senso, non cambia il giudizio, per noi va bene così.” E invece voi: “ Ma no, avete delle chances, avete rispettato le regole, avete molto seguito; con i voti in sala siete matematicamente voi i ripescati, vi basta davvero poco, dovete giocarvela.”
Ce la siamo giocata. Rispettando le regole e senza protestare. C’era da farlo, protestare intendo, visto che partivamo svantaggiati da una votazione che si era aperta giorni prima. E questo non rispettava le regole. C’era da farlo anche prima. Davanti a quelli che le regole non le avevano rispettate, ma avevano passato il turno lo stesso. Davanti al vostro stesso stravolgerle le regole, ammettendo in finale più gruppi di quelli che era previsto passassero da regolamento. Ma credevamo di giocare e di farlo tra amici. Tra amici va bene più o meno tutto, si passa su tutto, quasi. Almeno quando si gioca. Così ho detto: “Va bene giochiamocela. Mal che vada saliamo di nuovo sul palco.” Avrei dedicato lo spettacolo all’autore dei nostri pezzi col quale avevamo discusso. Mi sarebbe bastato esibirmi d’apertura, fuori gara anche, fosse stata anche questa la posta di questa nuova “battaglia tra i poveri”, tra gli eliminati, da combattersi con voti da casa, pilotati stavolta, per nulla legati al saper fare, che sicuramente ci interessava di più, strani quindi, ma ok, va bene, anche questo fa parte del gioco, forse. Strana anche la promessa a dire il vero. “Siete matematicamente voi i ripescati.” Insomma se siamo noi che senso ha questo gioco? Ma va bene, va bene. Alla fine ci stai, ti fidi. E ce la siamo giocata. Un giorno speso a chiamare, a chiedere, a provare anche, perché guardate ragazzi che passiamo noi, e a telefonare, spronare, incitare, fanculo lo studio, fanculo se è sabato, ce la facciamo. Invece no. Invece no che in realtà avremo dovuto capirlo e non crederci. Invece no che era deciso da prima e vi serviva soltanto far girare il nome della scuola, della sala, del locale, della gara, della serata. Vi serviva solo un tramite, un po’ di rumore. E noi eravamo quelli giusti. Quelli che avevano rispettato le regole. Quelli che non avrebbero fatto storie, E quelli che avevano più seguito, e più ingenuità soprattutto, e più energie. Sapete che c’è? Potevate chiedermelo e basta. Di farvi pubblicità, di creare interesse, movimento, attesa. Di portare gente. E’ il primo lavoro che facciamo noi ragazzetti, quelli di noi un po’ più svegli che nei locali e a divertirsi vogliono andarci senza pagare il biglietto. E lo avrei fatto. Per niente stavolta, o per gli altri gruppi che erano in gara e che sono passati. Per quelli che lo meritavano e quelli che lo meritavano meno. Tutti lo meritavano più di noi comunque, che non avevamo peraltro ambizioni. Invece no. Avete dovuto ingannarmi. Se c’è una cosa che non sopporto è questa, essere ingannato. Specie quando non serve, quando non è necessario. E non me lo aspettavo da voi. Non me lo aspettavo da ragazzi come me. Non me lo aspettavo in quest’ambiente che vedevo simile al mio. Fatto ancora di passione, di amicizia, di condivisione, di lealtà. Non sono uno che se la prende facilmente, ma mi rendo conto adesso di come la gente preferisca ingannare il prossimo, con vane quanto inutili promesse, piuttosto che chiedere apertamente una mano, pur di raggiungere i propri obiettivi, per soddisfare i propri interessi. Progettavamo un percorso con voi. Invece la strada si ferma qui. Con amarezza. Divertitevi.
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Mi stai guardando adesso.
Non c’è bisogno che io ti guardi per saperlo, per sapere che il tuo sguardo mi segue, mi indaga, che scruta i miei occhi, i miei movimenti, in cerca di segnali del mio stato d’animo. Hai sempre avuto uno sguardo pesante, più pesante delle parole che ti ricaccio in gola, ogni volta che vuoi spiegarmi, che vuoi consolarmi, che vuoi insegnarmi qualcosa, la vita.
Hai letto il messaggio che ho mandato agli organizzatori della competizione.
Non mi hai spiato, l’ho scritto dalla tua posta che era lì aperta, di getto, di istinto, senza neanche rendermi conto che non era la mia.
Che poi era la tua perché anche tu hai speso il tuo sabato a combattere per noi, per me, coinvolgendo i tuoi amici, i tuoi conoscenti, persino i nemici magari.
Magari ci credevi anche tu.
O forse no.
Forse da adulta sapevi già che il mondo reale è diverso da quello in cui noi sogniamo di vivere.
O forse no.
Forse no perché a volte, quando ti guardo negli occhi e li vedo, succede spesso, velati di lacrime per le delusioni che la vita insiste ad infliggerti, penso che tu sia la prima che il mondo reale non riesce ad accettarlo.
Forse ci credevi come me perché in fondo sembrava un gioco tra ragazzi. Che dovrebbero condividere regole e sogni.
O forse ci credevi semplicemente perché da madre sognavi con me. Anzi per me, visto che io non avevo ancora neanche iniziato a crederci.
Magari quel messaggio ha fatto male più a te, leggerlo, che a me, scriverlo.
Così come ti fa male, in qualche modo lo sento, non vedermi reagire, vedermi sereno. Assuefatto.
Che per te equivale più o meno a sconfitto, nei sogni, nella volontà, nella speranza, nella illusione.
O forse hai paura.
Hai paura di quello che le cose che hai letto significano.
In fondo me lo sto chiedendo anche io, cosa significano.
Mi sto chiedendo se aprire gli occhi significa smettere di sognare ed arrendersi alla realtà o significa piuttosto iniziare a combattere.
Forse lo sai. Sai anche questo.
Sono le armi che ti preoccupano.
Le armi che si usano nella realtà. Che sono molto diverse da quelle dei sogni. Molto diverse da quelle che tu vuoi che io usi, da quelle che mi hai insegnato ad usare, da quelle che tu usi, con le quali finisci per tornare sconfitta.
Hai paura di quello che questa mia calma – apparente?- significhi. Che sono cresciuto. Più di quanto sei cresciuta tu. O contro. Che forse tu ci credi davvero ancora in quello che dici e che fai, nonostante tutto.
Forse mi dispiace. Deluderti intendo. O disilluderti. Anche io, come il resto del mondo.
Forse posso evitare di continuare ad essere come te.
Non si diventa grandi quando si imparano le regole e si impara a rispettarle.
Si diventa grandi quando si impara a barare.
E’ questa la verità. Voi adulti lo sapete, anche tu, anche tu che non vuoi che io bari, che non bari, che non sai barare, che non hai imparato, che non sei cresciuta, diventata grande. Lo sapete ma non ce lo insegnate. E questo è disonesto. Dovevi insegnarmelo, anche se non tu non lo fai.
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Spacca tutto. Arrabbiati, urla, piangi. Dì anche mollo tutto. E’ la reazione peggiore, quella che odio di più, quella che ho odiato di più in te in altre occasioni, ma è una reazione. Infantile. Infantile contro la quale io inveirò, combatterò, ti spronerò a reagire, sperando di vincere, di convincerti. A ricominciare a sognare. Ma fallo, fa’ qualcosa.
Invece stai lì. Sereno, come se nulla fosse accaduto.
Ti organizzi la giornata, i compiti, le prove, l’uscita, chiacchieri, telefoni, guardi la tv. Un giorno qualunque.
Sfuggi al mio sguardo.
Questo non puoi negarlo. Hai alzato gli occhi a cercare i miei, i miei occhi a scrutarti, lo sai che lo faccio, che lo sto facendo, e li ho visti, si sono incontrati, quindi lo sai, lo sai che lo so, lo sai che ti guardo.
Forse dovrei smetterla. Forse dovrei essere contenta della tua non-reazione. Che è una reazione invece ed è una reazione forte, da adulto. Né rabbia, né urla, né pianti. Né rinuncia soprattutto, anzi. Forse dovrei esserne fiera, sei grande, sei cresciuto.
Ma ho letto il messaggio.
Non intendevo spiarti.
Certo ti guardo, di indago, cerco di capire, di sentire, ma non voglio spiarti.
Ho sempre cercato anche di non indirizzarti. Di aiutarti a conoscerti ad ascoltarti sì, questo sì, spiegarti anche, il mondo, la vita, le regole, dovevo farlo, sono tua madre, ma indirizzarti no, quello no, che i sogni, gli amori, le passioni, sbagliati o giusti che siano, eterni o di un attimo, folli e impossibili, irrealizzabili o perseguibili, sono solo nostri, come nostre soltanto son le battaglie, le cadute, le sconfitte, le delusioni. Chi ci ama può medicarci. Asciugarci le lacrime, carezzarci i capelli, farci coraggio, starci vicino. Prendersi il dolore anche, condividerlo. Toglierlo mai però. Anche i dolori sono nostri e basta.
Non ti ho spiato.
Lo hai scritto dalla mia posta.
Non te ne sei accorto credo.
La foga. Credo sia stata la foga. Che poi vuol dire che un momento di rabbia l’hai avuto. Ma ho letto il messaggio.
Era una rabbia da adulto.
Una rabbia amara.
Una rabbia che non avrei voluto vedere.
La conosco.
Tu credi che io non la conosca.
Forse.
Forse per quello che vedi di me, forse per quello che io ti dico, forse per quello che sono.
Per le delusioni. Per le ferite che nuove ogni giorno compaiono sulla mia pelle ancora senza difese.
Per le volte che hai pensato di dovermi difendere.
Tu a me.
Avrei dovuto capirlo da questo che tu saresti cresciuto.
Più di me intendo.
Che avresti scoperto i giochi presto.
Non volevo nasconderteli.
Non volevo lasciarti indifeso. O bambino.
Né volevo proteggerti. Non l’ho mai fatto e lo sai. Me ne hai anche accusato a volte, me lo hai rinfacciato.
Volevo solo che restassi pulito. Vorrei che restassi pulito.
Che fa male. Fa male.
E forse non ho il diritto di dire che fa meno male che sporcarsi, infangarsi, far male agli altri, per farsi valere, per vincere, per non rinunciare. Che poi io non ho mai rinunciato. Anche se così sembra. O è così?
Non ne ho il diritto perché non lo so.
Non lo so perché non lo accetto, non ci riesco.
Non riesco ad accettare che per vincere devi mentire, ingannare, imbrogliare, corrompere.
Che le armi del mondo son queste. E l’ipocrisia. E strade parallele fatte di sogni svenduti al miglior offerente. Che solo il potere genera potere e solo chi ha potere può realizzare i suoi sogni. Preferisco perdere e rialzarmi io, guardarmi allo specchio e riconoscermi, nelle mie lacrime anche, spesso, nel sangue forse, restare io. Ma forse sono io che sbaglio ed è ora che cresca e che impari, magari da te, se tu sei cresciuto. Se quel freddo negli occhi significa che sei cresciuto e sei pronto a ferire senza farti ferire, a combattere e a fare male per vincere, a farti male. Di un male che fa meno male forse, che alla fine sei tu quello che vince.
Sono andata a riordinare la tua stanza quando sei uscito.
Sulla mensola affianco al letto ci sono i tappi di sughero delle bottiglie delle feste di compleanno di quasi tutti i tuoi amici. I più cari di sicuro.
Ne mancano diversi.
Quelli delle feste a cui non sei andato. Delle amicizie finite. Quelle che pensavi sarebbero state per sempre.
E’ stato uno dei dolori che ho diviso con te.
Mi odiavi.
Odiavi che ti dicessi che è normale, che succede, che si cresce.
Forse mi odiavi perché nel dirtelo sentivi ancora la mia di delusione.
Di infinito amore e dedizione e cura regalato, sprecato, ingannato, incompreso. Come il tuo.
O mi odiavi perché mi vedevi regalarne ancora, crederci ancora. E ti riconoscevi in me, mentre già ti prepararvi a regalarti ad altri.
Le nostre mitiche imprese.
Idioti senza misure.
Uguali.
A volte a guardarti in affanno per inventarti il regalo perfetto, la giornata perfetta, la “presenza” perfetta, mi si è stretto il cuore nel rivedermi. Bambina, ragazza, donna. Immutata. Mi si è stretto il cuore al pensiero che fossi come me e che, come me, ti ci sarebbe voluta una vita per trovare qualcuno disposto a farlo per te, qualcuno disposto a non prendere e basta, qualcuno che non ti avrebbe ferito senza neanche capirlo, che ti feriva.
Non te l’ho detto.
Come non ti ho detto delle regole.
Non ti ho detto che per vincere bisogna imparare a barare.
Che si cresce imparando a barare.
Avrei dovuto dirtelo, forse. O forse avrei dovuto dirti che non è vero.
Che si cresce scegliendo.
Di imparare a barare o di restare bambini. Puliti.
Perdere fa male, ma non è così male.
Resta bambino. Sogna. Fino a farti (e rifarti) male.