Avveniva di notte. Come facevo a distinguere la notte? La lunga notte. Lo sapevo. Tutti ad un certo punto andavano a dormire. Allora avveniva. Sfilavano a due a due, verso il camino e rubavano dei piccoli ciocchi di legno. Le donne erano rotonde e allegre, e i loro copricapi rossi, così come quelli degli uomini dalle lunghe barbe. A volte cantavano, a volte sussurravano, per non svegliarmi. Così ci abituammo. Guardavo il loro passaggio stesa nel mio lettino, e loro guardavano me e mi sorridevano, mentre raggranellavano le cose più piccole sparse per la mia stanza, cose di nessun conto, e le portavano nella loro casetta, in un punto nei boschi, dove sicuramente un giorno mi avrebbero portata, nel grande Circolo Polare Artico.
Ora io conoscevo i boschi, andavamo a raccoglierci di tutto, allo stesso modo dei piccoli esseri che si approvvigionavano nella mia stanza. A volte portavano via anche dei giochi. Lasciavo fare, non ero molto legata ai giochi, tranne ad un orso che mi tenevo ben stretta e che non lasciavo mai.
Dunque al mattino, si fa per dire, era il mondo buio più o meno come lo avevamo lasciato nei nostri sogni, andavamo nel bosco con delle lanterne, e i cani, e le slitte. Seguivo i grandi legata ad una corda assicurata alla cintura di mio padre. Non volevano perdermi, volevano sapere tutto di me, mi scrutavano, mi interrogavano, mi posavano la mano sulla fronte per accertarsi che io stessi bene, tra di loro dicevano di amarmi, e mi conducevano come una cosa, preziosa, e inanimata.
Il bosco era ancora silenzioso, furtivo. Nell’ora fredda non c’era vento, non c’erano stelle, e la loro assenza dichiarava il giorno, ma non c’era il sole, a volte, a volte, il cielo era inondato da lampi colorati, da giri sinuosi di verde, maestoso era tutto, pauroso, incredibile: così nel buio assoluto, i miei occhi diventavano ora verdi ora rosa, ora gialli, riflettendo l’aurora incantata nel cielo.
La prima volta mi accorsi di avere vicino a me una delle creature. Ero seduta nella neve, e la creatura mi teneva la mano. Così ebbi meno paura dell’aurora boreale, della mia prima aurora.
Loro sussurravano,intorno a noi, ed io li sentivo, mi davano un appuntamento, dicevano alla prossima aurora, mi ringraziavano dei doni che non avevo loro negato, mi promettevano che saremmo stati così sempre, mi avrebbero tenuto la mano, e la creatura premeva il mio mignolo, e squittiva di dolcezza. Allora io sorrisi al vento solare, all’immenso cielo polare dove fluttuavano i colori come sete. Tornammo con la slitta. I cani erano nervosi, perché sentivano la musica, come la sentivo io. Nessun altro poteva. I cani ed io. Le creature suonavano, arrivava la musica ad onde verso di noi, penetrava sotto il pelo della neve, e i cani correvano, incalzati e gioiosi. Lontano udimmo i lupi. Poi mi dissero che sarebbe stata la notte più fredda del polo, e mia madre, mentre rimboccava il mio piumino, mi raccontò una strana storia, e mi accorsi che era molto emozionata, e una lacrima le scintillò negli occhi e rimase incastrata come una gemma tra le ciglia. Così passò il tempo, la mattina in cui trovai i giochi nuovi, il giorno che andai a scuola, pochi infagottati bambini nel villaggio in cima al polo. Le creature non vennero più, e la storia che mia madre mi aveva raccontata era la storia del Natale, che mi raccontò ogni anno, nella notte più fredda del polo. L’aurora boreale non si sarebbe ripresentata che dopo undici anni, e non sarei mancata all’appuntamento. E poi anche io cominciai a cantare, la stessa canzone che avevano cantata le creature. Tutti si meravigliavano che la sapessi a memoria, che la conoscessi ancor prima che qualcuno la cantasse per me. Allora mia madre mi venne in aiuto, disse che quando ero nella sua pancia la intonava spesso, disse che l’avevo imparata così, e tutti mi trovarono ancora più preziosa. E così protetta arrivai a compiere i miei quindici anni. La notte di Natale, undici anni dopo la mia prima aurora boreale. Mia madre preparava una festa speciale, mio padre provvedeva alla slitta. I cani ebbero una razione speciale, e sotto il cuscino trovai un dono. Un piccolo libro. Lo aprii sicura di trovarvi qualcosa che già sapevo. Ed infatti vi ritrovai i miei amici, i volti delle creature, che tutti consideravano fantastiche e suggestive. Ero turbata. Per anni le avevo attese, avevo cercato tante volte di andare nei boschi, ma non mi avevano mai permesso di andarci sola. Ero così cambiata, loro non mi avrebbero riconosciuta. Stavo dritta davanti allo specchio con una espressione stupita, imbambolata, ma ero appena uscita dall’infanzia, e il mio viso era rotondo, le guance rosse e gli occhi blu. Come avrebbero mai potuta riconoscermi? Così presi il mio orso. Quello che conoscevano anche loro. Lo misi nel mio zaino, e uscii nella notte polare. Snuf, il capo branco, mi seguì. Sapevamo la strada per i boschi e ci andammo. Sentivo il suo respiro e mi tenevo stretta alla sua pelliccia. Snuf sorrideva, si! sorrideva. Mano a mano che ci avvicinavamo ai boschi noi sentivamo il richiamo della musica degli elfi. Era un coro gradevole. Ci attraversarono la strada un branco di renne. E dopo il loro passaggio silenzioso nella neve, la vedemmo. Snuf uggiolò. Lei era piccolissima, con un cappello rosso, e lunghe trecce bionde. Snuf mi fece capire che era la regina. Io le mostrai l’orso, e lei rise. Poi raccolse un po’ di neve tra le mani, ne fece una palla e me la lanciò. Allora io e Snuf cominciammo rincorrerla. Era notte, sempre notte, eppure lei sembrava una piccola lucciola cristallina, a volte una freccia luminosa, altre spariva nel folto della foresta, e apparivano altre piccole luci, che unendosi alla sua formavano una scia che Snuf ed io seguivamo affascinati, eccitati. Poi tutto il popolo degli elfi si riunì al limite della foresta. Così noi ci fermammo: era iniziata l’aurora boreale. A differenza della volta precedente, l’aurora aveva una voce, un linguaggio, mostrava delle immagini che da piccola non avevo potuto vedere o riconoscere. C’erano una donna e una bambina, c’erano i cani, c’erano gli uomini con dei lunghi bastoni. Un uomo rimane a terra. La donna fugge. C’era la casa di mio padre. La donna arriva faticosamente con la sua bambina, e i suoi cani, e bussa alla porta. Mio padre apre, e mi vede. Io sono piccolissima, quasi scompaio nell’involto di panni caldi in cui mi tiene mia madre. Ecco, mio padre mi vede per la prima volta, e vede mia madre per la prima volta, e non chiude la porta. Le nasconde, ricovera i cani. L’aurora non è più rossa, vira ad onde bianche nel cielo. Gli uomini con i lunghi bastoni girovagano nella cruda notte boreale, mi cercano. Gli elfi conoscono le strade, gli elfi conoscono la notte, gli elfi confondono i destini. Gli elfi ti mettono alla prova. Così la regina li manda nella mia stanza, e la bambina è quieta, la bambina ride e cede i suoi giochi, la bambina nasconde le noci e il pane per gli elfi. Così il cerchio invisibile della loro alleanza si chiude questa notte. Alla seconda aurora, alla seconda nascita. Ecco l’immenso azzurro scivola nel verde, poi si ricompone, si allunga di rosa verso l’orizzonte. Si sentono altre voci, qualcuno chiama. Snuf è accucciato ai miei piedi. Non si muove. Se tendo l’orecchio, qualcosa striscia nella foresta, gli uomini con i bastoni ritornano indietro, affondano nella neve, una breve tempesta li invade, li circonda, nessuno può scorgere la luce degli elfi che si precipitano sul gruppo degli assassini. Snuf non si muove. L’aurora cade di colpo, il cielo è buio. Le voci più vicine, i fuochi, l’ansimare dei cani, le lanterne. La voce di mio padre. Del padre del mio cuore.
Ora ci illuminano, me e Snuf. Io vedo mio padre e mi precipito sul suo petto. E gli sussurro: ora so tutto.