L’odore del caffè al mattino. Credo sia l’unica cosa che con certezza, con assoluta chiarezza mi manca quando in estate resto da solo in città dopo aver lasciato moglie e figli nella casa al mare.
La amo. Amo mia moglie. Sono quindici anni che siamo sposati e sono venticinque anni che stiamo insieme. Nonostante questo o per questo, proprio per questo, io la amo. Eppure mi accorgo di lei, che c’è, quando non c’è, solo quando al mattino apro gli occhi e l’unico odore che riesco a sentire è quello dell’ultima sigaretta spenta distrattamente sul bordo del posacenere accanto al letto. Perché quando lei non c’è posso anche fumare a letto.
Siamo la classica coppia felice. Nessun problema economico, due splendidi figli, una bella casa, lavori soddisfacenti per entrambi, una cerchia di amici di vecchia data, “collaudati”, con i quali spendiamo il nostro tempo libero. Ed anche una discreta intesa sessuale.
No, sia chiaro, non mi sveglio al mattino ogni giorno con queste idee in testa. Probabilmente se così fosse avrei finito prima o poi per convincermi che qualcosa non va. Insomma se tutto va bene uno non sta lì a pensarci e soprattutto non lo fa perché gli manca il caffè. Ed anche autocelebrarsi per la riuscita del proprio matrimonio quotidianamente non deve essere proprio una cosa normale. In relazione al caffè poi.
Credo sia ora di alzarmi, rimboccarmi le maniche e farmelo il mio caffè visto che non riesco a distogliere i miei pensieri da questo. O quanto meno a fare i dovuti distinguo.
Ieri sera ero con Giulio. E’ il mio amico di sempre. Dai tempi del liceo. Abbiamo diviso tutto. Dalla prima sigaretta al primo filone a scuola, dalle feste ai viaggi, gioie e dolori, le prime storie, i primi appuntamenti, le prime buche, delusioni e conquiste ed anche tante follie. Lui non si è mai sposato però. Ha tenuto fede a quello che, con fare spavaldo e non senza un accenno goliardico sulle labbra carnose e sensuali di cui tutte si innamoravano, diceva da ragazzo. “Nessun uomo è fatto per stare con una donna soltanto e io non sono un ipocrita”. Beh questo è quello che in realtà dice adesso. Con un certo fastidio anche e con amarezza. Per quello che vede intorno. Allora usava un linguaggio più “colorito”. Eppure anche allora al contrario di tanti non ha mai tradito una donna. Lasciata si. Ne ha lasciate tante. Spezzando loro il cuore, perché perderlo non era perdere niente. Amava insieme profondamente e follemente e senza freni e pudore. E senza freni e pudore con la stessa assoluta sincerità si diceva e diceva quando quell’amore finiva. Capitava di parlare di lui. Tra amici. Capita ancora in realtà. A volte anche con lui. Ed in ogni caso è strano e contraddittorio quello che ne vien fuori. Il primo irrefrenabile giudizio è che sia un immaturo incapace di costruire un rapporto che è fatto di quotidiano, di impegno, di comprensione, di condivisione. Ma ognuno di noi nel dirlo ha gli occhi vuoti e puntati nel vuoto. Esattamente come me stamattina mentre annuso l’aria che non sa di caffè. Giulio non ha avuto solo brevi focose avventure, anzi. Forse ne abbiamo avute più noi. E nessuno di noi quanto lui ha lottato, compreso, costruito, condiviso. “Ama come una donna”. Questo è invece il giudizio romantico. “Lui si infiamma e da tutto se stesso e in quel fuoco brucia tutto quello che ha finché non brucia anche se stesso”. “E come una donna quando si accorge che è finita, che non prova più niente, che non c’è più emozione, non ci sono parole, non ci sono sogni, sospiri, lacrime, sangue, ha la forza (o la disperazione) di dirlo, di chiedere magari ancora, di provare magari ancora, e alla fine di dire basta, è finita”. Questo no, questo non lo dice nessuno. Questo ce lo teniamo per noi. Chiedendoci in qualche piega dell’anima dove non andiamo mai se non possa accaderci. Se non possa accadere a noi. Alle nostre mogli perfette che odorano di caffè al mattino.
Non ero solo con Giulio. Ieri sera intendo. Quando sono solo con lui ceniamo più o meno in silenzio. Mi chiede di Monica, dei bambini, della scuola, del lavoro. Non mi chiede se sono felice. Non mi chiede se vedo ancora Simona. Non mi chiede se Monica è felice, se i bambini sono felici. O sereni almeno. Non è stato sempre così. Quando conobbi Simona. Quando conobbi Simona non avrei mai dovuto conoscerla. Capitò una sera d’estate, una delle tante sere d’estate da solo in città, con Monica e il suo caffè al mare con i bambini. Ero andato a giocare a tennis dopo il lavoro, proprio come ieri. A fine partita Daniele mi aveva tirato la solita storia che erano anni che non uscivamo più insieme e che non c’era nulla di male se una sera mi prendevo una “boccata d’aria” con lui, a maggior ragione visto che stavo da solo. Ero teso e nervoso, per questioni che avevo avuto in ufficio, e in realtà l’idea di passare il resto della serata annoiandomi avanti alla tv, scaldando nel microonde una delle cento vaschette che Monica amorevolmente preparava per me prima di andarsene, non mi era esattamente di grande conforto. Così dissi di si. Di quella sera ricordo solo Simona e la sua pelle dorata, i suoi lunghi capelli, il suo sorriso incantato. Le sue mani su di me. Le sue labbra su di me. Il suo corpo, bellissimo, nuovo, sconosciuto, diverso. Diverso. E ricordo il panico il giorno dopo. Il panico e i miei pensieri e la testa che si ribellava alla pelle e al desiderio di lei che mi era rimasto attaccato addosso. Monica era la mia vita, Monica era la madre dei miei figli, Monica era il caffè, Monica era. Io avevo scelto Monica. Lavorai come un matto nei tre giorni seguenti: chiusi l’ufficio come un ladro braccato dalla legge e cercai rifugio nel convento sicuro del mio matrimonio. Monica fu sorpresa e contenta. Fu sorpresa. In realtà non so mai se è contenta. Passammo un’estate lunga e tranquilla. Più lunga e più tranquilla di tutte quelle che c’erano state. Mi sentii forte. Forte e sicuro. Certo era successo, con me non potevo mentire. Ma era successo ed era finita. E forse era anche meglio che fosse successo. Che fosse successo e che fosse finita. Almeno sapevo com’era. E come era dopo. Io non ero Daniele. Io non ero Daniele, non ero Claudio, non ero Lucio, non ero nessuno di quelli che aspettano solo la giusta occasione per prendersi una sana “boccata d’aria”. Ammesso che se la prendano. Perché a parlare noi uomini siamo tutti bravi. “Ehi ma l’hai vista quella? Giuro che stasera non me la lascio scappare” “Quella? Quella fa tanto la santa ma alla fine vedrai che riuscirò a lavorarmela come si deve!”. Un luogo comune? Davvero? Forse è un luogo comune ma non ricordo un’età della mia vita in cui tra noi “maschi” non si è parlato così. Come non ricordo un’età della mia vita in cui lasciarsi scappare una donna perché hai in testa un’altra non è stato sinonimo di “debolezza”. Per non dire altro. Le frasi che Giulio odiava sentire. Le frasi che per lui non avevano senso. Le frasi che anche io odiavo sentire ma non perché come Giulio pensavo che quelle fossero vite da ipocriti, incapaci di dire a se stessi la mia storia è finita perciò non mi basta, ma perché ostinatamente volevo credere che io ce l’avrei fatta. Ad essere diverso, ad essere fedele, ad amare per sempre. Ed ora mi dicevo, mi ripetevo, io la amo, io amo Monica, la amo ancora, io amo. E’ solo successo. Non significa niente. Devo capire che non significa niente. Invece al rientro niente significava Simona. Non mi aveva cercato una volta. Ma io, io non c’ero stato. Era questo che mi aveva lasciato tranquillo, che mi aveva fatto sentire sicuro, che mi aveva dato la forza di pensare che fosse niente. Che mi aveva lasciato ripetere io la amo, io amo Monica. La vedevo dovunque, sentivo il suo odore dovunque, la sua voce dovunque, le sue mani dovunque. Finii per cercarla. Per cercarla e trovarla. E cercarla e cercarla ancora. Monica non l’ha mai saputo. La mattina era il mio caffè. I bambini a scuola, il lavoro, la cena, la tv, il sabato sera con gli amici, il sesso della domenica mattina insieme al caffè. Simona aspettava in silenzio. Simona mi amava nel silenzio in cui io potevo amarla. Non potevo neanche amarla io. Le mie braccia, le mie mani, le mie labbra, il mio desiderio la amavano per me. E a lei bastava. A lei bastò. Per il tempo in cui fu capace di sentire di amarmi. Quando mi disse che era finita io finii. Di vivere, di respirare, di pensare, di sentire gli odori, di vedere i colori, di sentirmi addosso una pelle. Tutto quello che avevo nascosto a me stesso, per nasconderlo a Monica, per nasconderlo ai miei figli, per nasconderlo al mondo e quello che ero nel mondo diventò un peso insostenibile che dovevo dividere con qualcuno. Quando conobbi Simona e per tutto il tempo che vissi di lei evitai di vedere Giulio. Giulio era l’unico al quale potevo gridare il mio amore fedele ed eterno sapendo che non ci credeva e non ci avrebbe creduto mai, ma che mai mi avrebbe deriso o invitato a prendermi “boccate di ipocrisia”. Avevo paura di incontrarlo. Che i suoi occhi avrebbero letto il mio fuoco, quel fuoco che io nascondevo e che ora che lei se ne era andata mi stava ammazzando. Ma ero a pezzi. Se ne avessi parlato a Daniele, se avessi chiesto aiuto, conforto, a Claudio o a Lucio, sarebbe stato peggio di tutte le volte che dalle loro bravate mi ero tenuto lontano. Io avevo davvero fatto tutto da solo. Me ne rendevo conto solo in quel preciso momento di quanto un uomo può essere solo. In quello che sente intendo. Magari anche loro, anche Daniele, anche Claudio, anche Lucio che millantavano folli, fugaci ed asettiche conquiste, senza mai un cenno di imbarazzo, di incertezza, di inquietudine, di riflessione – pentimento magari è una parola grossa – chissà quante volte invece si erano sentiti soli. Incapaci di dire quello che davvero sentivano. Mi ricordai di Valerio. Mio fratello in lacrime a sedici anni perché la sua ragazzina lo avevo mollato. In lacrime, disperato, nudo, nel piatto della doccia che andava da ore. Lo aveva mollato più disperata di lui. Perché lui la aveva tradita. Con una sua amica. E lo aveva fatto per gioco, per scommessa, con i suoi amici che lo prendevano in giro perché era già troppo che era fidanzato. Ero stato duro con lui. “Non ti sei rispettato, è questo che paghi”. Poi lo avevo tirato fuori di lì e lo avevo abbracciato. Poteva solo andare avanti. E io ci sarei stato. Forse volevo questo da Giulio quando bussai alla sua porta. Ma Giulio ovviamente vedeva di più. “Non ti stai rispettando” disse “e io non posso abbracciarti. Che cosa vuoi davvero? Vuoi Simona? Non c’è più? Non è questo che conta. Quello che conta è quello che vuoi e quello che vuoi non è quello che vivi. Non ti stai rispettando e non stai rispettando nessuno. Io non posso abbracciarti”.
Erano passati tre anni da allora. Simona era entrata ed uscita dalla mia vita altre due volte. Altre due volte avevo affrontato tutto da solo. Il disagio, la colpa, la gioia, la vita, il dolore, la morte. In silenzio nel silenzio. A Giulio non avevo detto più niente e lui non mi aveva detto più niente. I nostri occhi non si incontravano più. Ieri sera non ero da solo con Giulio. Avevo giocato a tennis con Daniele dopo il lavoro e mi aveva chiesto di cenare con noi. Voleva rivedere Giulio. E il vecchio pub dove io e Giulio avevamo continuato a passere le nostre serate. Non toccò cibo e non bevve niente. Ci guardò mangiare, bere, parlare di niente in silenzio. Al tavolo affianco al nostro un gruppo di ragazzetti parlava di viaggi e di ragazze nuove da andare a incontrare. In un angolo due donne sole bevevano birra e mangiavano enormi insalate. Si raccontavano sottovoce e ridevano. Ogni tanto lanciavano verso di noi qualche occhiata fugace. Verso Giulio di certo, che era rimasto bello come a trenta anni. Avevano entrambe la fede al dito. E una serata di libertà. Anche Giulio di tanto in tanto ricambiava gli sguardi. “Il nostro amico sta invecchiando” mi disse, senza guardarmi, senza guardare Daniele. Che non guardava le donne, che non aveva mangiato, che non aveva bevuto, che non aveva parlato. “Sandra non è andata al mare. Ha preso i ragazzi ed è andata via. Non ha un altro. Non mi ama più”. Non pensavo che Daniele avesse le lacrime.
Ho bruciato il caffè e metà è andato nel fuoco. Come quasi sempre. Ma stavolta un motivo c’è. Amo Monica. Non il suo caffè del mattino. Io amo i suoi occhi, amo i suoi capelli, amo le sue lunghe gambe e la sua pelle chiara. E le sue mani piccole e fredde, sempre, anche d’estate. E deve saperlo. Prima che si accorga che quello che le manca di me è … Ho bruciato il caffè per chiamarla. Dovevo chiederle cosa le manca di me.