Cominciava così.
Improvvisamente al mattino l’aria fredda entrava a folate dalla finestra aperta. Provavo a stringermi addosso le coperte, ma il gelo si insinuava per le orecchie. Allora le urlavo qualcosa, accidenti a te, così mi sparisce la voce, mi becco una infreddatura, ma lei niente. Lei puliva. Si svegliava alle quattro e mezza del mattino, resisteva ancora un’ora, tormentandosi nel letto, poi scostava con vigore le coperte e cominciava a pulire. Ovunque avesse lasciato in disordine in quelle settimane di inerzia, piombava come una furia. Parlava anche mentre riordinava, un borbottio monotono, con qualche punta irritata appena scopriva nuovi mucchi di “immondizia” come diceva lei. Mi dovevo alzare precipitosamente, per salvare i miei spartiti, le custodie dei miei strumenti dal travolgere della sua mania. Allora maledivo l’amore che provavo per lei, anzi non lo provavo più, ero solo arrabbiato, e lei mi pareva brutta, e contorta e malata di quel malato che non ci fa pena ma è talmente grave e sconfortante da far divenire le sue vittime odiose. Non volevo che fosse così cambiata, così furente, così spaventata. Si io capivo che tutto quel lavoro era fatto per arginare, ma nel frattempo io mi aggiravo tra correnti fredde, odore di disinfettante, rumore di stoviglie lavate con furibonda determinazione. E quello di cui ero sicuro è che questo non sarebbe cambiato mai: ci sarebbero sempre state mattine in cui i vetri sbattevano nella corrente, mattine in cui lei non si svegliava, mattine in cui non era nemmeno tornata a casa, e un’alba in cui mi avrebbero detto che lei non c’era più. Solo questa certezza, riusciva a piegarmi. Recuperavo i miei strumenti e traslocavo nel garage. Così provavo la musica per la serata. Quando lei stava bene suonavo in casa, riemergeva dai suoi sonni pesanti e mi sorrideva, mi diceva sarà un grande successo. Non la guardavo allora. Qualche volta smettevo di suonare e la raggiungevo. Così misuravo l’esatta desolazione della mia vita. Giorni senza di lei, neanche andavo più a cercarla nei vicoli. Avevo smesso senza chiedermi niente. Mi ero arreso, Lei credeva fosse perché una volta avevano minacciato di uccidermi. Ma non è così. Esattamente il contrario, non mi avrebbero ucciso, gli servo vivo, e che le passi i soldi per quello che vendono loro. Ho rinunciato al tipo d’amore che avevo programmato nascendo.
Prima di lei frequentavo le sale da concerto. Come solista. Suonavo e cantavo. Non sembrava potesse esserci nulla che non sarei stato capace di suonare. O di comporre. Perfino la musica elettronica per me non era che un giocattolo, ancora oggi a volte faccio partire le piste e il garage diventa una stazione spaziale. Di più, avevo un grande successo. Poi qualcuno mi ha portato in una sala dove si beveva e si ballava, dicevano, perché sei giovane e sembri un vecchio, sempre con i tuoi strumentini e le tue idee balorde. E nell’ombra di quella sala, dove non c’era che un rumore assordante, sfinente, un fumo notturno, basso, tedioso, la poca luce che ho visto era l’andare e venire ondeggiante dei capelli di Euridice. E non c’era un suono nei suoi movimenti, nell’elettricità bassa e sconcertante della sua voce, nella serata che passammo insieme? ora credo che lei non ne fosse del tutto cosciente. Eppure sembrò che mi raccogliesse, mi agganciasse a quelle linee lunghe dei capelli, che i miei pensieri, esclusivamente attorcigliati a comporre, indirizzati alla sensazione del corretto movimento delle mie corde vocali, infilati nel pneuma dei polmoni, i miei pensieri potessero ora sprofondare, mentre ne nascevano di nuovi, meno armoniosi, sofferenti, di quel dolore che non mi avrebbe più lasciato.
Ora era il momento peggiore, che poi in fondo rappresentava il migliore: non si drogava, puliva, cucinava, si lavava, si truccava, quel viso smorto, lungo, dove ardevano i grandi occhi che mi avevano legato, cambiato, perduto. E tutto questo lavoro lo faceva proprio per trattenersi, forse trattenerci dalla dissoluzione, che si, era già tra di noi. Ora cantavo nei locali di cui sopra, suonavo per coppie di scambisti, vivevo in una casa lercia per quindici giorni al mese, e pretenziosamente impeccabile gli altri quindici. Andavo per i vicoli a trascinarla via, perché l’amavo, io l’amavo, io l’amavo, io l’amavo. Potevo fare il fracasso che volevo nel garage, il condominio non protestava. Io ero il povero ragazzo che voleva salvare la drogata, il professore, il ragazzo prodigio, e nell’ambiente di Euridice, la gallina dalle uova d’oro. A me non la offrivano la droga, servivo sveglio, e poi componevo e suonavo già come uno strafatto.
Non so perché, in tutta quella confusione che stavo producendo, le mie orecchie, così ben esercitate, avvertirono una dissonanza. Che si riprodusse a catena nel mio corpo, fino a che il cuore non rimase immobile, tutto il tempo che passai in corsa slanciato verso il piano di sopra, dove lei non c’era più.
Non posso negare che accanto al senso di vuoto ne nacque uno infingardissimo di liberazione.
Eppure ancora lei mi trovò. Dalle profondità in cui la sua scomparsa l’aveva retrocessa, spuntò un giorno un individuo a cercarmi dei soldi, se volevo riaverla. Così lo seguii. Come da copione mi introdusse nei vicoli che ben conoscevo e dai quali non mi sarei più ritratto, ormai la mia vita stessa somigliava all’aria spugnosa di fritto che penetrava i muri composti a labirinto di quella schifosa cittadina a picco sul mare. Dalle finestre rabberciate musi oscuri si affacciavano a spiare e poi si ritraevano ottusi, in ombra, e dalle porte sulla strada scendevano i gradini infanzie gracili, e in fondo ad una svolta la corsa d’una esile bambina bionda la confusi con la tua fuga per gioco, la scambiai per te. Dovevi essere molto cambiata, ed io ostinatamente continuavo a dirmi che ti amavo, ti amavo, ti amavo. Pagai, davanti ad una specie di vecchia stalla al limite d’un passaggio a strapiombo sul ripido dello scoglio. L’odore bestiale sfumava nell’odore salso che saliva dal profondo della roccia. Ed in fondo la tua testa lucente. Per un attimo. Poi mi bendarono. Sentivo la tua mano nella mia, ossa fragili ed intorno ad un dito il mio piccolo anello. Sentivo la tua tosse, il tuo freddo, la tua sfiducia, erano i tuoi passi apatici, come quelli d’un’ombra. Perché non stringerti lì? Come un qualsiasi che ha pagato per te, perché non addossarsi a quel muro, fosse anche l’ultima, con la canna della pistola alla tempia, fosse anche l’ultima e farla finita. Ma continuavo a camminare in silenzio, perché io tenevo te o quel che mi pareva, e l’uomo mi puntava. Allora, debolmente, mi hai chiamato.
Ed ho avuto freddo. Ed ho rivisto la nostra vita. E ho strappato la benda dai miei occhi, e ho gridato, ho preso la tua testa tra le mie mani, e sembrava polvere. E l’uomo ha sparato.
Racconto di una bellezza abbacinante, un affresco che rimane incollato nella memoria, superbo.