Quello mi era sembrato proprio il tempo degli addii. Non so come ci avevo pensato, era venuto spontaneo. Stavo arrampicata sul melo, e guardavo la campagna sottostante, il cane accucciato ai piedi dell’albero, e la casa dalle tegole rosse che si intravedevano tra la chiome dei pioppi, e avevo pensato: questo è il tempo degli addii. In alto le nuvole rotolavano via, il vento le sospingeva, ripulendo il cielo a stella fissa di quei giorni: il sole era imperituro e non sarebbe sparito mai.
Stavo lì a mangiare le mele aspre, in quella estate strana, diversa da tutte, ora che avevo dieci anni, e riuscivo a salire sugli alberi, e il cane mi obbediva, e i ragazzi non mi tiravano i capelli, anzi mi venivano a chiamare per andare al fiume. Invece volevo stare sola, con quel pensiero che non capivo, e che ora avevo detto.
Scivolai giù dall’albero verso il tramonto, un attimo prima della notte, felice che nessuno mi avesse cercata. Dimenticata. Il cane si avviò dietro di me, forse sorrideva non so. Cominciava ad imbrunire velocemente, e solo qualche lembo di viola si attardava intorno alla sagoma nera della casa. La cena era semplice, ed anche i nostri vestiti lo erano. Mi piaceva dai cugini, parlavano poco e sorridevano ancora più raramente, ma i loro sguardi erano sempre carezzevoli e attenti. Loro coltivavano la terra, in un grande campo giallo a ridosso della casa, e avevano un orto grande, ricco, fiorito, avvolto dal profumo delle piante di lavanda, che lo proteggeva. Non chiedevo dei miei e loro non ne parlavano. Non avevano neppure il telefono, e arrivava una volta alla settimana la posta. In fondo, in fondo al nugolo di paesi, c’era il mare. Ci si arrivava dopo mille giravolte della strada, al mattino molto presto, mentre ancora avevo gli occhi semichiusi, tanto che la sua apparizione sembrava ancora l’impressione di un sogno. I cugini non venivano, ma ci rifornivano di molti panini, e bibite, e frutta. Andavo con gli affittuari di un casale vicino. Lo prendevano per le vacanze, avevano con sé tre bambini piccoli e un ragazzo della mia età. L’acqua era tanto fredda a quell’ora, e ci raccomandavano di non bagnarci. Ma tanto non si resisteva, dopo un po’ eravamo lì a fare le nuotate lente, in un mare intorpidito appena risvegliato dal corpo caldo del sole. Nuotavo molto bene, mi aveva insegnato mio padre. E quindi prendevo il largo precisa come un timone. Arrivavo fino a dove mi portava il fiato, poi rimanevo sospesa, verso l’orizzonte, perché nessuno vedesse la mia faccia, o indovinasse i miei pensieri. Quello era un tempo in cui niente era fermo, sembrava che io corressi mentre dietro di me tutto crollava o spariva. Poi sentivo come uno sciabordio, e il ragazzo dei vicini mi aveva raggiunta. Forse era bene che cominciasse a scherzare come i bambini della sua età, ma io non avevo più la sua età, sebbene fossimo nati nello stesso anno. Io ero veramente sola e grande, e non pensavo ai giochi né alla mia vita futura. Comunque era tanto gentile, e aveva gli occhi blu e le ciglia nere e lunghissime che bagnate si separavano in tanti piccoli ciuffetti rendendo l’occhio simile ad una stella.
Mangiavamo i nostri panini, e pian piano il sole asciugava le gocce sulla nostra pelle, lasciando dei ghirigori di sale sulle spalle che noi leccavamo via. Io guardavo suo padre e sua madre, sentivo i loro discorsi, e quello che dicevano ai figli, e non ricordavo già più la voce di mia madre. Qualche volta in sogno ricevevo una telefonata, e dall’altra parte del telefono una voce sussurrava: ti ricordi di me? Allora mi svegliavo spaventata, perché se lei non c’era più era comunque inutile che io mi facessi tante fantasie su una sua partenza per l’America. Si, nel sogno era sempre in una cabina telefonica, in America, e mi chiamava: ti ricordi di me? Avevo paura, rimanevo per un po’ nel letto con le gambe gelate. Mi alzavo e andavo vicino al tappeto dove riposava il cane e lo accarezzavo. Poi aprivo la finestra. E la notte carica di stelle, il silenzio del mondo, mi consolava. Più tardi mi addormentavo sul pavimento, abbracciata al collo del cane.
Al mattino mi lasciavano sempre una bella colazione, con i dolci e il latte bollito,e perfino i fiori in tavola. Rimanevo ai piedi delle scale a guardare la tavola imbandita solo per me, come se qualcuno nella notte mi avesse voluto lasciare un dono. Immaginavo i cugini, all’alba, prima di andare ai lavori, preparare insonnoliti la tovaglia con tanta cura, e metterci i fiori raccolti accanto all’orto. Per me. Questo mi traghettava lungo il giorno. In cui vivevo come mai nella mia vita di città, dove abitavo in un quartiere grigio, nella nebbia perenne dell’inverno, tra i miasmi di un fiume malato, dentro una scuola soffocante, dalle mura spesse e dalle mattonelle dei pavimenti scollate, dondolanti, scheggiate. L’ora più bella era alla mia scrivania, nel chiarore della lampada, dopo i compiti, quando potevo disegnare e parlare, tra me e me. La cena dove i miei discorrevano brevemente di quello che c’era da fare. E il letto freddo della notte, ad aspettare il calore che la coperta non riusciva a dare.
Chi mai si sarebbe svegliato nel mezzo della notte per aprire una finestra e guardare le stelle? Sarebbe entrato un gran freddo da farci la polmonite. E le estati erano ancora peggiori, quando accompagnavo mia madre al mercato, quel bel mercato pieno di ceste di uva di tutti i tipi, dove si affollavano api e maggiolini, tra il vociare della gente, la questua degli zingari, la mano fresca di mia madre, la strada senza riparo al sole, per tornare a casa, il nostro bel casermone con cortili pieni di polvere e di ragazzini che per parlare si gridavano l’un l’altro, presi da una rabbia forsennata di vivere, di strappare all’estate, alla festa, tutte le magre possibilità della loro vita.
Altro era qui, dov’ero sbarcata da un pullman azzurro e bianco, un giorno, e mi ero trovata davanti tutta la distesa dei campi gialli e verdi, le querce solitarie al centro dei prati, e il camioncino dei cugini. Mi era tanto piaciuto il cielo con quelle nuvole bianchissime rotonde come covoni, che si rincorrevano sempre a causa del vento marino che si insinuava fin sulle foglie dei pioppi, facendole tintinnare. Loro mi avevano fatto vedere la mia stanza, presentato il cane, che dopo le presentazioni si era sentito in dovere di non lasciarmi più, e portato in tavola dove c’era un pranzo così colorato, così ricco, che ero scoppiata a piangere. Loro si erano guardati e nessuno aveva osato toccarmi, finchè non mi ero asciugata le lacrime, seduta a tavola e divorato tutto. I cugini erano tre, due uomini e una donna. Fratelli tra loro. Contadini. Ma sapevano anche guidare una barca e nuotare bene, come mio padre del resto. Uno di loro somigliava a mio padre, e per questo io lo guardavo quando non se ne accorgeva, e immaginavo di parlare a mio padre, ancora. Con la bocca muta dirigevo al cugino tutte le mie parole, alla sua fisionomia che io ricercavo quando sentivo che non ce la potevo fare. Forse lui lo sapeva, forse si accorgeva che lo fissavo, allora continuava a fare le sue cose senza ricambiare lo sguardo. Lasciava che usassi la sua sembianza. Quando quello che gli dicevo diveniva troppo per me, abbassavo gli occhi e andavo via. A volte nel bel mezzo del pranzo, se lo avevo troppo guardato, mi si formava un nodo alla gola e credevo di soffocare. Così mi alzavo a precipizio e correvo via. Ma nessuno di loro mi rincorse mai. Sapevo che avrebbero continuato a mangiare, scrutandosi brevemente, senza cambiare molto la loro espressione. Era quello il tempo. Ma non riuscivo a decidermi ad accettarlo. Tutto il giorno mi formicolavano nella testa domande su domande, anche se giocavo, o camminavo tra i campi così vasti eppure raccolti tra le linee risalenti di qualche modesta collina, sul perché di quella condizione di irriducibile spaesamento, di confronto senza pietà con me stessa, così piccola ancora, così disperata. E da lontano mi colpivano le voci provenienti dal casale dei villeggianti, che frequentavo poco per non sentire i bambini chiamare:mamma! Con tutto il fiato che avevano in corpo, come se la mamma fosse una cosa sicura e certa nella vita. Così per provare a volte chiamavo mamma il cane, quando il pomeriggio era vuoto di voci e di suoni, per risentire la parola nella mia gola, per immaginare di vederla. Il cane correva da me. Allora mi precipitavo sulle strade bianche gridando ai pomeriggi accecanti il suo nome, il suo nome,il suo nome.
Fino a che non mi ero arrampicata sull’albero di mele, ed avevo visto i villeggianti caricare le loro valige nell’automobile, i loro chiassosi figli, il ragazzo che mi amava, lui diceva, e tutti i loro richiami molesti.
Fino a che non mi ero resa conto che se loro partivano e io restavo era perché i cugini non mi avrebbero mandata via.
Fino a che non avevo capito che le tegole rosse, e i pioppi, e i campi, e lontano il mare, sarebbero stati la vita mia, il quadro nel quale mi sarei mossa e che potevo ricominciare.
Fino a che non dissi ad alta voce, ai rami carichi, al cane in fondo all’albero, al sole immobile che quello che mi lasciavo alle spalle era stato il tempo dell’addio.