Si dice che a guardare il cielo si perde tempo. Che non c’è niente da vedere, se non una distesa caliginosa e immutevole. Ma non è vero. Ho cominciato a guardare il cielo in un giorno di pioggia. Ero al lavoro. Improvvisamente la stanza dove assistevo due malati, era diventata grigia e fredda. La luce era cambiata, là fuori, il temporale si avvicinava. Così la finestra mi aveva attratta, e mi ci ero incollata. Pioveva a dirotto, i fulmini e i tuoni si susseguivano ed io potevo piangere. Il più piccolo dei miei figli aveva appena compiuto due anni, il più grande cinque, e mio marito se ne era andato con la baby sitter venezuelana. Ma brava, complimenti, l’avevo scelta io.
Abitavamo in una bella casetta a due piani in borgata, vicinissima all’ospedale geriatrico dove lavoravo. La nostra casetta era la più carina di tutte, la più curata, la più invidiata. Forse è stato questo, non lo so, sono stata troppo fortunata e troppo invidiata. Avevo un bel marito, alto massiccio, io non sono mai stata una bellezza, e due bei ragazzini, e nessun problema economico, ma lui è andato via.
Lei si era presentata in parrocchia e proprio lì ero andata a cercare una baby sitter per i miei figli. Mi era sembrata tanto carina. Così ci eravamo accordate per tre volte a settimana, quando avevo i turni e non potevo prendere i ragazzini a scuola. Anche per alleggerire mia madre, che lavorava pure lei, e per non disturbare mio marito, che in quei giorni, tornando dal lavoro, voleva riposare. Io non riposavo. Staccavo da un turno massacrante e uscendo mi caricavo delle provviste che avevo acquistato nella pausa pranzo, per fortuna accanto all’ospedale c’era pure il supermercato. Poi una volta a casa, sistemavo tutto, preparavo la cena per tutti, il cibo a parte per i bambini. Avevo questi due bambini che crescevano, il piccolo da sistemare al nido, il grande che avrebbe iniziato le elementari, era la vita che avevo voluto. La sera non riuscivo neppure a pettinarmi, a curarmi un po’, e la notte i bambini si svegliavano. Però avevo organizzato la nostra vita in modo da non dare impiccio a mio marito. Avrebbe in fondo potuti prenderli lui i ragazzini quando io non potevo, ma pagavamo questa ragazza, che quando tornava a casa con i bambini, lo trovava ancora mezzo addormentato che ciondolava in attesa della cena. Ma avevo fatto tanto per averlo, non mi pareva vero che mi avesse chiesto di sposarlo, eravamo fidanzati da cinque anni e una volta che i miei finirono di pagare il mutuo della casa lui mi chiese di sposarlo. Così i miei si rimisero all’opera per pagarci il matrimonio. Lavoravamo tutti e due, non ci sarebbero stati problemi in fondo Lo guardavo muoversi nella nostra casa: non era particolarmente fine, molto alto, con i capelli a spazzola, i lineamenti forti e gli occhi verdi. Io sono piccola, bruna, un po’ tonda direi, ho gli occhiali perché le lenti a contatto non le sopporto, ma ero una donna sincera, su di me poteva fare affidamento, gli avevo dato due bei figli, mi sentivo sicura della mia casa, della mia vita. E infatti non mi ero accorta di niente io. Solo i bambini diventavano più strani, il grande più silenzioso, più timido se possibile, e il piccolo nervoso, ma attribuivo il loro malessere alla scuola, alla crescita, alle giornate fredde, a quelle troppo calde, alla mia assenza, a mia madre che si impicciava e che li viziava, al padre distratto, alla ragazza troppo giovane. Finchè il grande, una notte, non cominciò ad urlare. Sentivo all’inizio come un debole sibilo, irriconoscibile arrivare da strati di nebbia.Lentamente il sibilo divenne insopportabile e riconobbi nel sogno la voce di mio figlio. Avevo ancora gli occhi chiusi mentre mi rotolavo giù dal letto e correvo nella sua stanza. E il bambino mi disse tutto. Gli occhi, poi, non sono più riuscita a chiuderli, gli credetti all’istante. Lo calmai. Tornando a letto lui mi chiese: che aveva? Niente, risposi, un brutto sogno. Ma feci le poste ai due, e tutto tornava. E così mio figlio, con quegli occhi grandi, compassionevoli, già feriti, mi vide entrare in casa, aprire la porta della nostra stanza da letto e rimanere immobile. Silenziosa. Poi ho detto:- Vai via di qui. Tu e lei. Via di qui.-
Forse ho sbagliato. Forse dovevo supplicare, gridare, rivendicare. Ho solo pensato che per fortuna quella era casa mia, e che lui doveva sparire, sparire, sparire. Che quel corpo lo avevo amato, ed ora volevo strapparlo dalla mia pelle. Che avevo due figli ma che forse erano figli solo del mio amore,del mio desiderio, di tutte le favole che mi ero bevuta. E che la mia vita era finita.
Così avevo affidato i bambini a mia madre ed ero andata a lavorare. E dalla finestra avevo visto il cielo, o meglio il cielo mi aveva chiamato mutando luce, colore, movimento. E così rovesciando sulla terra i fulmini della sua elettrica benevolenza mi aveva permesso di piangere, mentre i vecchi dormivano nel loro letto eterno di dolore e silenzio, anche loro a volte con lo sguardo in compagnia del cielo, inquadrato dalla cornice della finestra.
Il periodo a seguire è stato terribile, come tutto ciò che richiede una nuova composizione. Ed anche misurarsi con quel rifiuto, con quella indifferenza, per qualche anno mi ero sentita donna, amata e sicura, ed ora per me si aprivano le porte della solitudine.
Ma c’era il mio lavoro, così pesante insopportabile, c’era la mia fede, che così mi condannava a rimanere fedele ad un giuramento, c’erano i miei figli, a cui sentivo di non poter dare nulla, non ci stavo con la testa, c’era mia madre che andava in giro a fare la pubblicità alla mia nuova situazione. E la gente che rideva della buffa questione che la ragazza me l’ero pure scelta da portare in casa. Era colpa mia, infatti. Ma forse sarebbe comunque accaduto, e che importa ormai.
Ora la domenica vado a messa e c’è mio figlio con me. Il più grande, alto come suo padre, i capelli li tiene lunghi legati a coda di cavallo, e gli occhi verdi, ombreggiati dalle ciglia lunghe e sbiondite della gioventù. Io sono rimasta uguale, bassa, bruna, con gli occhiali, in ordine e serena. Andiamo insieme a fare la comunione. Non ho avuto altri uomini, e a volte poteva essere, ma sono rimasta fedele. A me, alle mie convinzioni, al volto dei miei figli, alla gioia di vederli buoni, di incontrare i loro occhi compassionevoli così come altri, al mattino, guardando il cielo, incontrano la prima stella.
Sara Milla