Chissà cosa volesse dire il generale Mario Mori qualche giorno fa affermando che la mafia dell’imprenditoria non sana è ancora attiva e viene sfruttata da menti certamente superiori a quelle di Riina e Provenzano.
Purtroppo nessuno pare glielo abbia chiesto, né una certa stampa ha riportato una frase che metterebbe in discussione la teoria che la mafia è solo mafia.
Del resto ci vorrebbe troppo coraggio da parte di chi ha sempre tentato di attribuire la responsabilità di ogni crimine soltanto a ‘Cosa nostra’.
A dire il vero forse no, non solo ‘Cosa nostra’, ma anche quel nido di vipere che era la procura di Palermo, così come a definì Paolo Borsellino.
Che da queste parti non si sia mai stati troppo teneri verso l’operato di alcuni magistrati lo dimostrano diversi articoli.
Dalle affermazioni su Giuseppe Pignatone da parte di Luca Palamara, al fatto che Matteo Messina Denaro poteva essere catturato da tempo, ai diari di Antonello Montante.
Tutte storie che hanno visto la stampa schierarsi da una parte o dall’altra secondo da dove tirava il vento.
E poiché oggi il vento tira in direzione del famoso dossier mafia-appalti, ogni altra concausa che poteva portare alle stragi del ’92 deve essere ‘archiviata’ – se non giudiziariamente – quantomeno mediaticamente.
Cavallo di battaglia di alcuni giornalisti è l’audizione in Commissione Antimafia dell’ex pm Antonio Di Pietro, per dimostrare che anche Di Pietro attribuiva solo a mafia-appalti la strage di via D’Amelio (e forse anche quella di Capaci) escludendo ogni altra motivazione.
Ma soltanto di mafia-appalti parla Di Pietro nel corso della sua audizione?
Al netto delle varie ricostruzioni da parte di una certa stampa, vale la pena di leggere quanto realmente disse Di Pietro in Commissione Antimafia, riportando alcuni passaggi salienti che vengono regolarmente – e forse necessariamente – omissati da quanti devono cristallizzare quel periodo storico indicando nei soli mafiosi i responsabili delle stragi.
“L’indagine che più mi sollecitava a fare Falcone – dichiara Di Pietro – era di andare a cercare il denaro e di dividere le rogatorie: ogni rogatoria per ciascun fatto e ciascun personaggio, chiedendo alle competenti autorità non tanto elementi di riscontro di tipo soggettivo, ma tecnicamente il bonifico bancario”.
Il metodo Falcone.
È allarmante quello che Di Pietro ricorda in Commissione del periodo in cui veniva notificato l’avviso di comparizione a Silvio Berlusconi.
“Quel giorno – afferma Di Pietro – quel dossier (dossier contro l’allora pm di “Mani Pulite”) venne apparentemente ed anonimamente depositato in una busta nella cassetta di posta privata della casa del dottor Dinacci ovvero di colui che all’epoca era a capo dell’Ispettorato del Ministero della giustizia, ufficio che si occupa dei procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati.
Di quella busta l’ispettore capo non fece alcun uso, se la tenne nel cassetto, salvo poi farla distruggere appunto quando non servì più. La busta gli arrivò a settembre o ottobre, gli arrivò già un mese prima rispetto a quanto poi il suo contenuto venne usato in altro modo.
Due o tre giorni prima di questo avviso all’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si presentò spontaneamente all’Ufficio dell’Ispettorato del Ministero della giustizia, e venne ricevuto immediatamente tal Giancarlo Gorrini con un esposto a mio carico che era la fotocopia di quello a suo tempo fatto assemblare da Craxi ed il medesimo in forma anonima nella cassetta di casa di Dinacci.
Si presentò in apparenza spontaneamente questo signore e raccontò una serie di vicende riguardanti la mia persona. Di quel racconto io venni a conoscenza sin dal 22 novembre, cioè il giorno prima o il giorno dopo dell’invito a comparire a Berlusconi, e a quel punto compresi che ormai intorno a me il cerchio della delegittimazione per bloccare l’inchiesta ‘Mani pulite’ si era chiuso.
Solo nei miei personali confronti – prosegue Di Pietro – c’è stato un iniziale problema sin dal primo giorno. Era accaduto che – dopo due o tre giorni dall’arresto in flagranza di Mario Chiesa ci fu una dichiarazione di fuoco di Bettino Craxi nei confronti dell’inchiesta che venne da lui definita politica. Rispose a Craxi il dottor Borrelli precisando: «Ma quale politica! È stato preso con le mani nel sacco, non potevamo non arrestarlo perché è stato preso proprio con i soldi in mano».
Quindi Craxi cominciò da allora a lanciare accuse contro l’inchiesta Mani Pulite e su di me in particolare. Nel rapporto del Copasir che vi ho consegnato potete riscontrare che fu Bettino Craxi ad ordinare una serie di appunti e dossieraggi nei miei confronti che venivano resi pubblici man mano che io andavo avanti con l’inchiesta e persone sempre più vicino a lui venivano coinvolte.”
Un gioco in cui compare anche l’ombra dei servizi segreti:
“Le attività di dossieraggio i cui processi si sono svolti dal 1995 in poi erano già state predisposte e perfezionate sin dal 1992 e poi nel 1993. Come sono state effettuate, da chi e per conto di chi è scritto nelle due relazioni al Copasir che vi ho consegnato alla scorsa audizione. Lì ci sono esattamente i nomi di chi li ha organizzati all’interno del SISDE, ci sono nomi e cognomi che fanno riferimento a questi soggetti.”
Secondo Di Pietro il problema nasceva quando il pool riusciva a scavalcare il connubio appalti-politica e arrivava al connubio appalti-politica controllato dal sistema mafioso.
“Nel 1994 l’inchiesta Mani Pulite ormai aveva raggiunto un livello tale per cui stavamo scoprendo tutto questo. Ecco perché io prima ho detto: «Ogni volta che si cerca di arrivare a un certo livello si viene fermati».
Vi ho anche detto che ci sono dei livelli su cui non si riesce ad indagare perché formalmente non si commettono i reati. Al livello più alto non si commettono i reati perché non hanno bisogno di commettere il reato, il lavoro sporco lo fanno gli altri al posto loro, però resta il fatto che alla cima ci sono quelli che danno il boccino per giocare la palla e poi aspettano i risultati.
Io ho letto che uno dei pentiti, forse Brusca o Avola – prosegue Di Pietro – ebbe a dire: «Di Pietro lo dovevamo ammazzare perché dovevamo fare un favore a quelli che ce lo chiedevano per quello che stava facendo».
A chi doveva fare il favore ‘Cosa nostra’ che secondo alcuni agiva solo per proprio conto?
“A mio avviso – dichiara Di Pietro – siamo stati fermati non solo per fatti di mafia, siamo stati fermati perché quel che stavamo scoprendo nel rapporto con la mafia arrivava a una realtà alla quale non volevano che potessimo arrivare.
Io credo che a molti abbia fatto piacere che la mafia abbia ammazzato Borsellino.”
Sul dossieraggio in suo danno e degli altri magistrati del pool per bloccare l’inchiesta “Mani Pulite”, Di Pietro fa una dichiarazione sconcertante di cui alcuni giornalisti non fanno alcun cenno:
“In quella sentenza (sentenza numero 65/97 del tribunale di Brescia) viene fuori proprio il nome di Cesare Previti come colui che ha fatto da interfaccia fra Paolo Berlusconi e il capo degli ispettori Ugo Dinacci e che ha indicato a chi rivolgersi per depositare quelle famose dichiarazioni spontanee. Gorrini doveva fare quelle dichiarazioni spontanee da cui è nata quella sub inchiesta disciplinare nei miei confronti proprio a metà novembre; inchiesta che è rimasta segreta ed è stata subito archiviata appena io mi sono sospeso dall’attività di magistrato. Quella inchiesta è nata da una dichiarazione spontanea resa da Gorrini a Dinacci, su richiesta di Paolo Berlusconi, che lo ha invitato ad andare da Dinacci. In quella sentenza si riferisce essere stato Cesare Previti la persona a cui Paolo Berlusconi ha chiesto a chi rivolgersi per mandare Gorrini ad accusarmi.”
Una dichiarazione che rimanda a un’intervista che l’ex pm rilasciò anni fa a L’Espresso facendo riferimento al perché si bloccò l’inchiesta “Mani pulite”:
«Devo individuare un altro imprenditore del nord che potesse avere un qualche collegamento con le persone potenti del sud – dichiara Di Pietro nel corso dell’intervista – Mi imbatto nel frattempo in imprese che fanno capo al Gruppo Berlusconi. Ma non arrivo a Silvio, arrivo al fratello Paolo che non c’entra nulla con le vicende su cui stavano indagando in Sicilia. Poi arriviamo anche a lui, con l’avviso di garanzia a Napoli. Dopodiché si ferma tutto. Non perché entra in gioco Berlusconi, ma perché entra in gioco la raffica di esposti nei miei confronti su cui si mette in moto la procura di Brescia che rigirerà la mia vita come un calzino. Ma alla fine tutte le inchieste verranno archiviate e io prosciolto. Mi rimane ancora oggi l’amaro in bocca per l’attività investigativa nei miei confronti portata avanti in particolare dall’allora pm di Brescia Fabio Salamone che poi sarà sanzionato dal Csm, in quanto non avrebbe potuto indagare su di me proprio perché io prima avevo indagato su suo fratello Filippo Salamone. Ma questa è un’altra storia e lasciamola lì».
Se come dice Di Pietro, Paolo Berlusconi non c’entra nulla con le vicende siciliane, anche se un legame con Filippo Salamone (del quale torneremo a parlare con un prossimo articolo) forse meritava di essere meglio approfondito, perché si adoperò perché Di Pietro fosse costretto
Il metodo di seguire il denaro, Falcone lo adoperò per le sue indagini in materia di riciclaggio, non fissandosi a perseguire soltanto la via di mafia-appalti che nel puzzle del riciclaggio rappresenta solo uno dei tanti tasselli.
Le indagini avevano infatti portato Falcone in Svizzera, prima che all’Addaura, il 21 giugno 1989, qualcuno non mettesse lì cinquantotto candelotti di dinamite proprio nel giorno in cui con Falcone avrebbero dovuto esserci i due colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, con i quali doveva discutere sul filone dell’inchiesta “Pizza connection” che riguardava il riciclaggio.
Gian J. Morici