21 giugno del 1989 – Sugli scogli dell’Addaura, davanti alla villa che Giovanni Falcone prende in affitto d’estate, un poliziotto della scorta vede un borsone.
Cinquantotto candelotti di dinamite messi lì proprio per il giorno in cui con Falcone avrebbero dovuto esserci i due colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, con i quali doveva discutere sul filone dell’inchiesta “Pizza connection” che riguardava il riciclaggio di denaro sporco.
Il fallito attentato dell’Addaura diede la stura a congetture e illazioni mirate a distruggere l’immagine del giudice Falcone, accusandolo persino di essere stato lui a creare quella messinscena.
E forse è da lì che bisognerebbe partire per capire cosa accadeva in quegli anni.
Quanti conoscono le strane “coincidenze” che videro accomunati imprenditori, faccendieri e mafiosi a partire da “Pizza connection”?
Tra riciclaggio, contrabbando, affari internazionali, servizi segreti e stragi, rinasceva l’Italia, scrivevo anni fa in un articolo andato perso in uno dei soliti attacchi hacker – poi recuperato nell’Ottobre 2012 – nel quale si ricostruiva parte della storia di questo nostro paese.
Fatti tutti documentati (come potrete leggere anche dai documenti pubblicati) per i quali nessuno mi querelò mai.
Con l’articolo di oggi non vogliamo ripercorrere le dinamiche storico-politiche e delittuose di quel periodo, ne reinterpretare fatti consolidati nelle pronunce giudiziarie.
Mantenendo un quadro dei rilievi di merito scevro da condizionamenti, grazie ai criminalisti Katia Sartori e Riccardo Sindoca, vogliamo provare a capire aspetti tecnici che riguardano l’attentato dell’Addaura, che tante perplessità suscitano in merito alla narrativa fornita dalle perizie dell’epoca.
- Cosa conteneva il borsone rinvenuto all’Addaura?
- Katia Sartori: I primi rilievi della polizia scientifica e le successive analisi hanno consentito di accertare che la borsa, dove lungo la chiusura lampo, era stato cucito un filo elettrico, con guaina nera spellata ad una estremità, che aveva chiaramente la funzione di antenna ricevente, conteneva una scatola di plastica, nonché una cassetta in lamiera zincata. Il coperchio del contenitore in plastica presentava un piccolo foro ovale del diametro di circa 5 cm, attraverso cui era possibile distinguere una ricevente radio FM, che operava sulla frequenza vhf di 35 Megahertz. La cassetta di acciaio contenente l’esplosivo ed i detonatori presentava un foro nelle due pareti laterali più piccole attraverso cui passavano i reofori di innesco dei detonatori e conteneva 58, avvolti in carta cerata di colore avana con stampato il nome dell’esplosivo. Attraverso tali elementi, si è potuto accertare che i candelotti di esplosivo rinvenuti all’Addaura erano stati prodotti nello stabilimento di Ghedi a Brescia, dalla Società Esplosivi Industriali (SEI) entro l’anno 1985.
- “Nulla sulla bonifica e/o ulteriori ricerche sull’area antistante?” – si chiede, e chiede, Riccardo Sindoca
- Sindoca: Un atto intimidatorio o un congegno pronto ad uccidere?
- Sartori: L’unico modo affinché un detonatore non funzioni è che sia interrotto il circuito elettrico. Grazie ai rilievi fotografici eseguiti prima della disattivazione della carica da parte di Tumino, è stato possibile accertare che il circuito di attivazione della carica esplosiva era stato realizzato in modo assolutamente efficace al fine di assicurare l’attivazione dei detonatori e quindi, lo scoppio della sostanza esplosiva contenuta nella borsa. Tant’è che il congegno, si trovava in posizione attiva, con un led rosso acceso e pronto ad esplodere non appena avesse ricevuto l’impulso, mediante radiocomando, che poteva agire sino a qualche centinaio di metri. Il gruppo di alimentazione era idoneo a garantire l’azionamento del congegno con autonomia illimitata del detonatore e stimata, dalle perizie depositate e mai contestate, in 20 ore circa relativamente al ricevitore. Tra le caratteristiche di lesività del congegno, si era accertato un raggio di letalità pari a circa 2 metri per effetto dell’onda d’urto e pari a circa 60 metri, per la proiezione delle schegge, con esito parimenti mortale per ogni persona che si fosse trovata in tale ambito, in relazione alla parte del corpo raggiunta.
- Da dove è arrivato chi posizionò l’ordigno?
- Sartori: Anzitutto occorre precisare che quel borsone contenente l’esplosivo, era stato notato dagli uomini di Falcone già dal giorno prima del ritrovamento, ovvero il 20 giugno 1992. Non aveva destato sospetti in quanto, si trovava sugli scogli, accanto ad una muta da sub e ad un paio di pinne.
Nella sentenza di primo grado si legge che “In ogni caso, poi, sotto il profilo rigorosamente logico il trasporto via mare sarebbe stato estremamente rischioso se si considera che l’ordigno era contenuto in una comune borsa sportiva non a tenuta stagna, non idonea, in caso di contatto accidentale con l’acqua, a proteggere adeguatamente i delicati congegni elettrici del sistema di innesco” ed anche nella sentenza di secondo grado si legge che la Corte“ (…)riteneva in ogni caso, poco verosimile il trasporto via mare, a causa dei gravi rischi per l’efficienza dell’ordigno stesso ed attribuiva un ruolo meramente ‘coreografico’ e di tutela da scoperte accidentali dell’esplosivo, all’attrezzatura subacquea collocata in prossimità dell’ordigno”.
Tuttavia, un dato che a mio avviso non è stato assolutamente preso in considerazione è la categoria merceologica proprio del borsone. Va specificato che mentre la tuta da sub e le pinne ritrovate erano di una marca comune conosciuta per la commercializzazione di prodotti subacquei, la borsa di colore azzurro ritrovata sugli scogli e contente l’esplosivo, riportava la scritta “Veleria S. Giorgio”. Veleria San Giorgio è la più antica e conosciuta azienda italiana nel campo della progettazione e produzione di prodotti per il salvataggio. L’azienda viene fondata nel 1926 e dapprima la sua specializzazione, sempre nel campo della nautica e sempre nel campo del tessile, era quella di confezionare vele, nonché cerate per i marinai. I clienti principali erano al tempo, i tanti mercantili che transitavano per il porto di Genova. Poi, l’azienda, ottenne le prime preziose forniture per la Marina Militare e dopo gli anni ’60, scelse di specializzarsi nella produzione di giubbotti di salvataggio, nonché prodotti che vengono ad esempio, abitualmente utilizzati anche dal comparto militare italiano. Un’azienda che si occupa d’elezione di forniture nautiche non può quindi che commercializzare prodotti adatti allo scopo. Tra le altre cose, da un’analisi degli archivi dei prodotti commercializzati dall’azienda, le borse servono per contenere proprio i giubbotti di salvataggio.
La prima domanda che ci poniamo, riguarda l’autonomia del “ricevitore”, calcolata in 20 ore circa.
Se il borsone era già stato notato il giorno prima – così come da testimonianze – sarebbe importante conoscere quante ore erano trascorse prima del rinvenimento del medesimo. Erano già trascorse le 20 ore? E come mai era ancora attivo?
- Ci sono testimonianze di quelle ore?
- Sartori: Gli agenti Roberto Corradi e Domenico Bertolini, sentiti in dibattimento nelle udienze del 25 ottobre e del 29 novembre 1999, hanno dichiarato di avere visto il 20 giugno 1989, tra le ore 11.00 e le ore 12.00 un canotto di colore arancione con due sub in acqua. Uno di questi sub spingeva il canotto che apparentemente sembrava “sgonfio”. Anche gli agenti Massimiliano Perrone e Mario Scinetti, addetti al servizio di protezione del dott.Falcone, hanno confermato le dichiarazioni dei colleghi, dichiarando di aver avvistato nel turno di servizio del 20 giugno, nel tratto di mare antistante la villa, un piccolo canotto di colore chiaro, forse arancione, che veniva trainato o spinto da un sub in acqua. Tuttavia, nessuno di loro sembra aver visto questo gommone avvicinarsi alla costa.
Nel 2013, nel corso del processo sull’omicidio di Mauro Rostagno vengono depositati dei dispacci che indicano lo svolgimento di un’esercitazione, nei pressi della villa dell’Addaura nei giorni immediatamente precedenti il ritrovamento della borsa con l’esplosivo. Nel documento del 24 giugno 1989, si fa riferimento al recupero e alla distruzione totale delle apparecchiature subacquee e al relativo materiale esplodente eventualmente in avanzo dall’esercitazione svolta sul litorale. Sull’altro documento datato 18 giugno 1989, si autorizza un’esercitazione e si fa riferimento ad un punto della costa dell’Addaura, Torre del Rotolo, a poche centinaia di metri dall’abitazione di Falcone. Ed è questa una delle “zone di sbarco clandestine” presenti nei fascicoli declassificati su Gladio dal governo Draghi nel 2021, che rende perlomeno compatibile l’area, con le attività dell’organizzazione. Pare che ci siano foto aeree, mappe, dettagli, indicazioni delle modalità per una eventuale operazione segreta con gommoni ed operatori dei servizi. Se di coincidenza si dovesse trattare, certamente sarebbe piuttosto singolare non credi?
Non dimentichiamo che dopo il fallito attentato dell’Addaura, in un’intervista resa dal dott. Falcone a Saverio Lodato, e mai smentita dal giudice, si legge in virgolettato “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”. Il dott. D’Ambrosio, ha rammentato come il magistrato palermitano avesse ipotizzato un vero e proprio “complotto” alle proprie spalle, di cui Cosa Nostra fosse solo una componente. Anche Il dott. Fici ha dichiarato, come lo stesso dott. Falcone gli avesse sottolineato di aver voluto inviare un preciso messaggio ai misteriosi artefici, mediante l’intervista nella quale aveva parlato delle già menzionate “menti raffinatissime”. Di certo, con “menti raffinatissime” non si riferiva agli uomini della mafia e questo credo sia inopinabile. Un uomo come il dott. Falcone non rilascia dichiarazioni avventate né si può pensare che abbia dato un’opinione qualunque. Per aver esternato quel pensiero, significa che aveva sicuramente delle motivazioni valide.
- Sindoca: Nella mia precedente cenno ad un atto intimidatorio e qui mi spiego meglio: come tale deve avere ben due requisiti che lo debbano contraddistinguere, ovvero la “ credibilità del messaggio che si vuol mandare e lo spessore di chi te lo recapita, ed è forse ‘un caso’ che facciano ritrovare un ordigno realmente pronto ad esplodere e di cosi alto potenziale? Come mai azionabile a distanza allor quando deciso e non a tempo? Perché il destinatario possa comprendere che chi lo ha recapitato possa ottenere il risultato , quando meglio creda e nell’attimo in cui lo decida …ed ecco perché il Dott Falcone a mio avviso cennò a ‘menti raffinate’ e nulla più …se la zona fosse stata presidiata dagli attentatori, come mai allorchè “scoperto “ se avesse dovuto esplodere non ne dettero il via? Ve lo siete domandato? Oppure dovrei “pensare” che un ordigno a innesco radio e non a tempo, con un raggio d’azione per l’innesco, come riportato dalla collega Sartori, venga ‘abbandonato’ se l’intento sia quello di colpire ed invero non lanciare un messaggio del tipo ‘sono nella capacità e condizione reale di farti saltare in aria, quando e come lo decida io?’ …
- Cosa è emerso dagli accertamenti tecnici sui reperti?
- Sartori: È un vero peccato che non si sia valutata l’ipotesi di effettuare un’analisi biologica e dattiloscopica anche sul borsone ritrovato sugli scogli e su ciò che vi era contenuto al suo interno. Dall’elenco degli oggetti sottoposti ad analisi, infatti, non vi è traccia del borsone: eppure sarebbe stato possibile, o quantomeno fare un tentativo, per ricercare tracce biologiche sulla cerniera di chiusura, dattiloscopiche sui lati della cassetta in lamiera zincata contenente l’esplosivo e perché no, provare ad individuare tracce dattiloscopiche latenti anche sulla carta che avvolgeva i candelotti attraverso l’utilizzo di un reagente chimico, per ricercare la presenza di tracce su materiali porosi. Chiunque abbia “impacchettato” l’ordigno, poteva aver lasciato qualche traccia di sé. L’intervento del Tumino, seppur considerato “distruttivo” per alcune componentistiche, poteva non aver inficiato tale possibilità di ricerca, in quanto, come si vede anche dalle immagini successive al disinnesco, e come si evince dalle stesse relazioni tecniche, il borsone, la cassetta metallica, e i candelotti paiono risultare non totalmente compromessi. Un tentativo quindi, si poteva fare.
Per quanto concerne gli altri reperti e cioè una giacca da sub, un pantalone di una muta da sub tipo salopette, due pinne, una mascherina, due teli bagno e una maglietta, questi furono analizzati in prima battuta presso il reparto della polizia scientifica di Roma, dal consulente tecnico del PM nonché direttore tecnico della Polizia scientifica di Roma, dott.ssa Alessandra Caglià. Poi, vennero trasferiti presso il laboratorio di Medicina Legale di Ancona, per le analisi da parte del collegio peritale del GIP. La dott. Caglià, tra l’altro, aveva già individuato alcuni dna misti, con più soggetti contributori e aveva individuato il DNA di un soggetto c.d. “individuo 1” su diversi reperti da lei analizzati.
All’interno delle perizie depositate si legge che i profili unici maschili riscontrati, dove il primo profilo è stato prelevato dalla giacca da sub, il secondo è stato prelevato dai pantaloni da sub e il terzo dalla maschera da sub, non sono risultati compatibili con alcuno dei nove soggetti sottoposti a confronto, né risultavano appartenere a Piazza Emanuele e Agostino Antonino. Solo il quarto profilo maschile prelevato dalla maglietta rosa risultava appartenere a Galatolo Angelo. Dalla maglietta rosa, sono state estrapolate diverse tracce: In prossimità dell’ascella sinistra, troviamo il dna di Galatolo Angelo. Sulla stessa maglietta però, sia in prossimità dell’ascella destra che del colletto, troviamo altri dna, non riferibili ai nove soggetti del confronto e a cui non è stata attribuita ad oggi nessuna paternità. Il fatto che il Galatolo sia presente solo in prossimità di un’ascella e non in prossimità di entrambe, è a mio avviso un dato piuttosto singolare. Tuttavia, il primo profilo unico maschile, prelevato dalla giacca da sub, risulta essere coincidente con il profilo genetico di “individuo 1”, riscontrato dalla dott.ssa Caglià sui laterali destra e sinistra della cinghia degli occhiali da sub, verosimilmente a contatto con le tempie. Per quanto riguarda i profili misti invece, abbiamo un profilo genetico misto riscontrato all’interno di una pinna che sembra, dai loci analizzati, contenere il profilo genetico di “individuo 1” mentre il profilo misto riscontrato sui pantaloni della tuta da sub, sembra condividere uno dei soggetti contribuenti la miscela con il profilo genetico misto riscontrato all’interno della pinna da sub.
Tradotto in parole povere, se sulla maglietta e solo in prossimità di un’ascella, c’è il dna di Galatolo Angelo, su tutto il restante materiale da sub analizzato, abbiamo un dna riferibile ad un soggetto maschile ad oggi sconosciuto, che ha indossato la mascherina e la giacca da sub (il c.d. individuo 1) e un altro dna riferibile ad un altro soggetto maschile ad oggi anch’egli sconosciuto, che ha indossato i pantaloni da sub e le pinne. Di conseguenza se il Galatolo Angelo può aver toccato la maglietta rosa, sempre secondo le perizie, né lui, ne Madonia Salvatore e Antonino, ne Scotto Gaetano, ne Galatolo Vincenzo e Raffaele, ne Fontana Angelo, ne Agostino Antonino, ne Piazza Emanuele hanno toccato il materiale da sub. Ricordiamo però, che indagini biologiche e dattiloscopiche sul borsone non sono state eseguite. Certo è che se si prende in considerazione la presenza del dna di Galatolo Angelo, non si può non tener presente che si sono anche altri dna.
Dopo il ritrovamento di questi dna, e la conclusione della perizia collegiale datata il 29 dicembre 2010, il 19 novembre del 2012 esce la notizia di una “contaminazione” dei reperti dell’Addaura. Si legge infatti che durante gli accertamenti su di un polsino della tuta da sub, questi, sarebbe stato contaminato in laboratorio, diventando praticamente inutilizzabile. La contaminazione sarebbe stata generata dall’utilizzo di una pinzetta non sterilizzata, così che il dna di un feto, analizzato qualche ora prima, si era “sovrapposto” a quello di altri. Sarebbe stata la stessa polizia scientifica ad accorgersi dell’errore e a comunicarlo immediatamente alla magistratura. Su questo specifico punto vorrei fare una considerazione: Sul polsino destro della giacca da sub, è stato riscontrato un profilo unico maschile che ritroveremo poi anche sulla mascherina. L’elettroferogramma della traccia infatti, conferma chiaramente, la sola presenza di un individuo e nessuna “sovrapposizione”. Sul polsino sinistro invece, è stato riscontrato un profilo genetico misto. Analizzando l’elettroferogramma e i loci relativi al profilo in questione, quello verosimilmente contaminato, si evince che la miscela è formata da almeno 5 soggetti contributori. Ma quella traccia dichiarata “contaminata” era stata già ritenuta a suo tempo dal collegio non interpretabile, in quanto ai periti, era stato impossibile discernere i singoli genotipi che avevano generato la miscela. Pertanto, al netto delle risultanze contenute nella relazione peritale, l’eventuale “contaminazione” non ha inficiato nessun risultato.
- Sindoca: Sarebbe stato utile davvero a mio pensiero, analizzare approfonditamente il borsone ed il suo interno alla ricerca di tracce biologiche, posto che si presuppone che ‘qualcuno’ vi abbia operato sopra e che magari avrebbe potuto lasciare delle tracce organiche, quali ad esempio sudore od anche un sopra ciglio o magari dei peli che nel mettere o togliere dei guanti, avrebbero potuto trovarsi nella sacca, o mi sbaglio? Parlo poi di esiti o rapporti su eventuale area antistante di cui non ho potuto avere contezza, poiché son certo che un consesso cosi preparato come la rilievi della polizia scientifica, si presuma abbia fatto …Sia chiaro a chi mi legge un concetto che ho a cuore esprimere: noi oggi si può ‘lavorare’ grazie a ciò che è già stato fatto ed a cui va il dovuto rispetto, posto che le nostre, pur sempre, sono risultanze e considerazioni, postume da decine d’anni ormai dall’evento che noi si stia trattando, ragion di più che non vorrei mai che le nostre considerazioni tecniche e poste all’attenzione di chi ci legge, possano giammai, per nostra parte essere sottese da chicchessia come ‘critica’ per qualsivoglia ragione a chiunque vi abbia operato prima e che noi si ringrazia invero per l’eredità lasciataci su cui abbiamo iniziato il nostro operato, volto solo semmai ad integrare quanto a nostro giudizio, possa essere ancora d’interesse info investigativo.
- Sono state trovate delle impronte?
- Sartori: Per quanto riguarda l’accertamento dattiloscopico occorre fare prima una distinzione tra impronte visibili e non visibili: Le impronte visibili, mostrano dettagli riconoscibili delle creste papillari lasciate dalle dita contaminate con sostanze come sangue, inchiostro, sporcizia o grasso e quindi, presentano un evidente contrasto con la superficie di sfondo. Quelle latenti o invisibili, sono dovute dall’essudato dei pori della pelle, con l’emissione di sostanze organiche, costituite da materiale sebaceo, acqua, acidi, (ecc.); Ovviamente quest’ultime, non sono visibili, ma vanno ricercate ed esaltate attraverso diversi prodotti utili allo scopo.
Nel caso dei reperti dell’Addaura, grazie alle polveri, sul vetro temperato della mascherina da sub, furono rinvenuti ben 7 frammenti papillari, ritenuti però non sufficienti per effettuare una comparazione con i nove soggetti del confronto. Ovviamente, nessun trattamento chimico di esaltazione delle tracce dattiloscopiche, può essere svolto prima di un prelievo biologico, in quanto l’utilizzo di sostanze chimiche, andrebbe ad inficiare gli esiti degli accertamenti biologici, a causa dell’eventuale distruzione del dna eventualmente presente sul reperto. Le tamponature per il prelievo biologico non sono state eseguite in prossimità delle creste papillari riscontrate sui vetri temperati, bensì solo sulle superfici plastiche strutturali in gomma siliconica e materiale poliuretanico, dove non si erano riscontrati frammenti di impronte papillari. Ebbene, dal punto di vista metodologico, il prelievo biologico su di un reperto è caratterizzato anche dalla contestualizzazione e dall’opportunità di riscontrare una doppia traccia. Ad esempio, se si tocca un oggetto, e vi si lascia un’impronta, in prossimità di quella traccia lasciata si ha una percentuale altissima di trovare anche il dna di chi ha lasciato quell’impronta. Effettuare anche dei prelievi biologici in prossimità delle creste papillari riscontrate (c.d. tracce da contatto) per poi, una volta concluse le operazioni di prelievo, proseguire con la ricerca delle impronte latenti attraverso il trattamento chimico ai vapori di cianocrilato, poteva dare l’opportunità di avere qualche risultato in più. Dalle immagini che ho potuto personalmente visionare, uno dei sette frammenti papillari riscontrati ad esempio, è riferibile ad un’impronta digitale dove si può notare un innalzamento delle creste del sistema basale verso la parte apicale. Tuttavia, nessun esame ulteriore di esaltazione e/o ricerca delle impronte latenti fu eseguito in seguito, nonostante lo stesso, fosse stato consigliato anche dal collegio dei periti incaricati dal GIP.
- Sarebbe possibile ancora oggi trovare qualcosa?
- Sartori: Non so se quei reperti siano ancora a disposizione o se sono andati in questi anni distrutti. Certo è che la scienza continua a darci strumenti sempre più performanti dal punto di vista degli accertamenti scientifici. Oggi possiamo dire che anche a distanza di 40 anni, un dna si può analizzare ammesso che il reperto, sia stato ben conservato, attraverso la garanzia della ‘catena di custodia’
Se siete arrivati a leggere fin qui questo lunghissimo articolo, vi sarete resi conto di quante lacune vi sono nella narrativa dell’attentato all’Addaura.
Era possibile un’analisi più approfondita dei dna misti per includere o escludere la presenza in loco, o la partecipazione, di alcuni soggetti?
Come mai tracce di dna vennero rinvenute solo in alcuni punti dei reperti e non in altri, laddove obbligatoriamente si sarebbero dovute trovare (es: la maglietta che avrebbe indossato Galatolo, il cui dna è presente soltanto all’altezza di una delle ascelle e non dell’altra)?
E se ancora molto ci fosse da scoprire, saremmo ancora in tempo per rinvenire ed analizzare queste tracce?
Gian J. Morici