
Un’indagine nata già morta.
L’audizione del Procuratore capo di Caltanissetta, Salvatore De Luca, davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, ha sollevato non pochi interrogativi e perplessità, soprattutto per il modo in cui ha orientato il dibattito sulle stragi del 1992, in particolare quella di via d’Amelio.
Ciò che emerge dalle sue dichiarazioni è una tesi riduttiva. L’intera verità sulle stragi di Capaci e via d’Amelio racchiusa nel filone “mafia-appalti”, liquidando o ridimensionando altri scenari. Questo approccio, che vede nella gestione dell’indagine sugli appalti la “concausa” delle stragi, sembra funzionale a un preciso scopo, quello di avvalorare l’idea che la responsabilità ultima sia esclusivamente di Cosa Nostra, ovvero di soggetti già individuati e con condanna definitiva, circoscrivendo così il campo di ricerca e di verità.
Nonostante lo scrivente abbia perorato la riapertura della vicenda mafia-appalti al fine di individuare eventuali responsabilità di soggetti terzi (imprenditoria, politica, figure istituzionali) nelle stragi, considerandola una possibile concausa, ma non l’unica, in un mosaico ben più complesso (che include, ad esempio, la vendetta per il Maxiprocesso), tanto è che la morte dei due magistrati era già stata deliberata da Cosa Nostra prima ancora dell’indagine sugli appalti.
L’attenzione investigativ si è concentrata su magistrati dell’epoca, come gli ex procuratori Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone, indagati per favoreggiamento alla mafia nell’ambito del presunto insabbiamento dell’indagine “mafia-appalti”.
Ma i reati a carico di Natoli e Pignatone non sono già prescritti? Se, come è probabile, i tempi trascorsi hanno estinto la perseguibilità penale, quale può essere il senso di avviare o proseguire un’indagine?
Il compito della magistratura è quello di individuare e perseguire reati, ovviamente non prescritti. Avviare un’indagine in assenza di reati perseguibili si traduce in un notevole dispendio economico e di energie che potrebbero essere impiegate in modo più efficace altrove.
Quanto sembra emergere a carico dei magistrati dell’epoca potrebbe, nel migliore dei casi, stabilire una verità storica – evidenziando eventuali “comportamenti inopportuni che possano avere indotto i mafiosi a pensare che la procura di Palermo avesse un vertice malleabile” – ma non una verità giudiziaria, essendo i reati prescritti.
Questo aspetto, pur avendo una sua innegabile valenza per una Commissione Parlamentare Antimafia, il cui mandato è anche quello di far luce sui depistaggi e le responsabilità istituzionali, non l’avrebbe in un ambito giudiziario. La giustizia, infatti, non è chiamata a disquisire su comportamenti genericamente inopportuni, ma a sanzionare reati specifici e non estinti.
Ci si deve dunque chiedere se sia stato opportuno da parte del Procuratore De Luca intervenire in Commissione Antimafia prospettando di fatto le proprie conclusioni investigative (una vera e propria requisitoria in sede politica), nonostante egli stesso abbia premesso che il filone mafia-appalti, così come altri filoni, sia ancora oggetto di indagini.
Le sue parole hanno lasciato intendere che le indagini siano già concluse e pronte per emettere una sentenza, una modalità decisamente irrituale che, unita alla mancata richiesta di secretazione, rischia di inquinare il dibattito pubblico e di politicizzare un percorso che dovrebbe restare strettamente investigativo, prima di tradursi in un atto giudiziario formale.
Salvo il fatto che la cosiddetta concausa derivante dalle vicende legate al “nido di vipere”, così come Borsellino definiva la Procura di Palermo, non venga individuata come movente delle stragi e non abbia risvolti di carattere pensale, considerata l’altissima probabilità di prescrizione per i reati contestati ai magistrati dell’epoca, appare evidente come l’intera indagine sul presunto insabbiamento sia un’indagine nata già morta.
Gian J. Morici