Di Gian J. Morici

Proseguiamo la nostra intervista con l‘ex Commissario Mario Ravidà sui possibili depistaggi dei quali è stato testimone. Dopo la seconda puntata proseguiamo con una riflessione sulle responsabilità di Stato nelle stragi e nei depistaggi con un caso specifico (l’omicidio Ilardo) che funge da esempio di inerzia e insabbiamento istituzionale.
Ravidà: Mentre a Caltanissetta si svolge il processo sui probabili depistaggi che hanno interessato il periodo stragista iniziato nel 1992, con l’emersione di fatti ed episodi in cui sono in qualche modo “coinvolti” uomini dei servizi segreti, dell’eversione nera, della Magistratura, dei Carabinieri e di molti altri, emerge un quadro inquietante sulle verosimili responsabilità di Stato riguardo ai delitti eccellenti avvenuti in questo Paese in quegli anni e anche prima.
A mio parere, dettato da oltre trentacinque anni di esperienza in investigazioni che hanno attraversato questi tristi periodi, devo aggiungere che, probabilmente, è mancata l’attenzione da parte di chi aveva l’obbligo di indagare e perseguire qualsiasi reato.
Mi riferisco a tutti quegli episodi in cui si sono verificate gravissime omissioni eritardi da parte di strutture investigative e giudiziarie dello Stato. Se indagate a suo tempo, queste avrebbero potuto fornirci un quadro più chiaro su cosa non si doveva scoprire e su cosa non si doveva indagare, al fine di non giungere a delle verità che avrebbero sicuramente compromesso “importanti” ed “eccellenti” uomini delle Istituzioni.
Questi stessi uomini delle Istituzioni, dopo tali fatti, li ritroviamo a occupare posti di grande responsabilità. Sarà un caso o una coincidenza, ma questo è ciò che è accaduto.
Precedentemente avevamo parlato di due distinti episodi di presunti depistaggi….
Ravidà: Il terzo episodio che voglio raccontare si verifica cinque anni dopo la morte dell’infiltrato Luigi Ilardo, avvenuta nel 1996.
Era il 2001 e io prestavo servizio, come già detto, presso la Direzione Investigativa Antimafia di Catania.
A seguito di un’indagine denominata “Zefiro”, conclusasi con l’arresto di parecchi esponenti di vertice della famiglia di sangue dei Santapaola per reati che spaziavano dall’associazione di stampo mafioso alle estorsioni e altro, fui incaricato di andare a effettuare una perquisizione nell’abitazione di un personaggio.
Sebbene a suo carico non risultassero grosse responsabilità, durante le indagini era emersa la sua vicinanza ai familiari della famiglia Santapaola che furono, invece, tratti in arresto.
Uno di questi era Roberto Vacante, un radiologo che aveva contratto matrimonio con Irene Santapaola, figlia di Salvatore Santapaola, fratello di Benedetto. A suo carico, furono accertati dei reati relativi a degli investimenti di denaro nel campo medico e, in particolare, una società di fatto (e quindi occulta) di un grosso centro cittadino per la dialisi.
Un suo intimo amico risultò essere un certo Sturiale Eugenio.

Fu a casa di quest’ultimo che, unitamente ad altro personale, mi recai per effettuare una perquisizione domiciliare. L’obiettivo era la ricerca di elementi di prova che potessero rafforzare quanto già acquisito tramite la classica indagine di intercettazioni telefoniche e ambientali.
A casa dello Sturiale furono rinvenuti degli assegni di ingenti somme, a lui intestati da parte di una società che, se non ricordo male, era di assicurazioni o qualcosa di simile e corrispondeva al nome di “Sikei”. Gli assegni erano a firma di questa società ed erano stati girati allo Sturiale.
Sequestrai tali assegni e invitai Sturiale presso i nostri Uffici per cercare di capire meglio l’origine e soprattutto la motivazione per cui quella società avesse girato tali assegni, di importi di qualche centinaio di milioni di lire, a Sturiale.
Questi, durante il verbale che doveva chiarire la questione, si dimostrò molto disponibile, oltre a risultare una brillante persona e molto loquace. Gli assegni erano relativi a delle somme che gli erano state restituite a seguito della cessione di quote societarie di un’impresa dei Nebrodi che estraeva una pietra ornamentale di ottima fattura.
Si accertò, in seguito, che tale pietra era stata utilizzata in appalti pubblici per la pavimentazione dell’aeroporto di Punta Raisi, per il raddoppio ferroviario Catania-Messina, per l’autostrada Messina-Palermo e che doveva essere impiegata per il prossimo rivestimento delle facciate e dei muri dell’Università Kore di Enna.
Da tale accertamento scaturì, poi, un’altra attività d’indagine denominata “Pietra Dorata” che coinvolse a vario titolo: mafiosi (di cui uno appartenente alla massoneria), prestanomi di mafiosi possessori di quote societarie, Avvocati, uomini dei servizi segreti e politici di primo piano siciliani. Ma questa è un’altra storia che meriterebbe di essere anch’essa raccontata per i suoi risvolti e per come andò a finire.
Ho citato tutto questo per far capire come io conobbi Sturiale Eugenio, che diventò poi mio confidente per i successivi dieci anni.
Sturiale era un uomo che possiamo definire un “colletto bianco”, che aveva un precedente penale poiché era stato tratto in arresto in un’operazione relativa alla conduzione (credo in qualità di direttore commerciale) dei supermercati S7. Questi risultarono di pertinenza della potente e importante famiglia mafiosa degli Ercolano, imparentati con la famiglia Santapaola.
Durante il periodo che va dal 2001 al 2011, Sturiale mi fornì notizie di primo piano sull’andamento della mafia Catanese, su chi erano i responsabili di gravi delitti, su chi aveva la reggenza dei vari clan e su moltissim altro. Da questo scaturirono centinaia di notizie confidenziali, tutte riportate in altrettante mie relazioni di servizio dirette ai miei funzionari responsabili della struttura investigativa dove prestavo il mio servizio.
Di queste notizie alcune andavano ad arricchire la semestrale che ogni Ufficio DIA redige sull’andamento della criminalità e che poi va al Parlamento; altre furono utilizzate per iniziare qualche indagine, come la citata “Pietra Dorata”; qualcuna veniva inviata presso la Procura della Repubblica; e altre finivano nel “dimenticatoio” di un fascicolo interno alla DIA.
Per tale motivazione, temendo che un domani Sturiale potesse pentirsi e che mi fosse contestato il non aver fatto nulla su alcune delle notizie ricevute, ho provveduto a redigere due raccolte delle mie relazioni che composero due fascicoli. Uno redatto nel 2006 e uno redatto nel 2009-2010. Entrambe le raccolte delle relazioni vennero consegnate alla mia Dirigenza.
Una delle prime notizie che mi fornì Sturiale era relativa proprio all’omicidio di Gino Ilardo, del quale io conoscevo benissimo i retroscena, dato che avevo collaborato con il Colonnello Michele Riccio, che gestiva l’infiltrazione di Ilardo in “Cosa Nostra”.
Che genere di notizie seppe fornire lo Sturiale?

Ravidà: Sturiale mi confidò che egli era stato un testimone oculare del delitto Ilardo, poiché abitava nei pressi di dove fu commesso. Pertanto, mi fornì i nomi degli autori dell’omicidio. Tutti personaggi mafiosi legati alla squadra criminale santapaoliana, di cui era responsabile il noto mafioso Maurizio Zuccaro.
Di tale notizia effettuai una immediata relazione di servizio che consegnai ai miei dirigenti e rimasi ansioso di ottenere disposizioni per poter iniziare un’indagine, vista l’importanza della notizia. Tutti noi alla DIA, infatti, sapevamo che il delitto di Ilardo era un delitto anomalo, sia nelle modalità che per il fatto che era avvenuto a pochi giorni dall’ufficiale collaborazione.
Inoltre, eravamo tutti a conoscenza di come Gino Ilardo aveva permesso alla mia struttura investigativa di finalizzare arresti di importanti latitanti di mafia e un’indagine che smantellò il clan Santapaola di quel momento.
Quindi un filone d’indagine che prometteva sviluppi molto interessanti…
Ravidà: Aspettai circa otto mesi, ma non avvenne nulla.
Nessuno mi incaricò di iniziare un’indagine e nessuno parlava più di quello che io ritenevo un fatto di estrema importanza.
Sollecitai la mia Dirigenza sul poter iniziare un’attività investigativa, ma mi fu detto che non vi era abbastanza personale disponibile per farlo.
La cosa che mi fece imbestialire fu il fatto che venni a conoscenza dell’inizio di un’altra indagine su segnalazione dell’allora Procuratore della Repubblica. Questi chiedeva di accertare e indagare i soci di un terreno che il Procuratore indicava, nella sua segnalazione alla DIA, come vicini alla mafia.
Ebbene, invece, scoprii che quel terreno, facente parte in origine di una legge che avrebbe permesso la costruzione di villette in agevolazione regionale, era un terreno che avevamo acquistato alcuni componenti del mio stesso Ufficio (tra cui io), alcuni appartenenti alla Squadra Mobile di Catania e altre persone incensurate, e attendavamo le autorizzazioni per poter iniziare i lavori.
Il problema che nacque fu che lo stesso terreno era di interesse di alcuni importanti imprenditori che, invece di realizzare le villette sociali, volevano realizzarci un parcheggio per un nascente centro commerciale.

Essendo io a conoscenza di tale retroscena e capendo che la segnalazione del Procuratore potesse essere finalizzata a creare delle difficoltà alla cooperativa edilizia (o per via di eventuali interessati al parcheggio), effettuai una relazione in cui raccontai la realtà, ovvero che le villette non dovevano nascere per l’interesse di tali imprenditori sul nostro terreno.
Consegnai la relazione alla mia Dirigente, la Dottoressa Ambra Monterosso, che era la cugina del Dottor Pappalardo (di cui ho parlato nella seconda parte di questa intervista). Contemporaneamente, mi lamentai fortemente con la mia Dirigenza per il fatto che non venissero fatte delle indagini sul delitto Ilardo e invece si iniziassero indagini su un terreno di cui eravamo proprietari molti poliziotti della DIA e della Squadra Mobile di Catania, basate su una presunta e non veritiera notizia sull’effettiva proprietà di quel terreno.
Dopo qualche giorno, mi convocò la mia Dirigente e mi disse che la mia relazione sul terreno della cooperativa sociale era stata inviata in Procura e che il Procuratore si era lamentato del fatto che io non dovessi venire a conoscenza dell’indagine sul terreno. In altre parole, io, da appartenente alla DIA, non dovevo sapere quello che stavano facendo i miei colleghi…
La cosa mi fece ulteriormente imbestialire e pretesi che almeno venisse notiziata la Procura della Repubblica sulla notizia inerente l’omicidio Ilardo.
Cosa che fu fatta da lì a qualche giorno.
Ero sicuro che, trattandosi di un’importante notizia di un delitto anomalo che poteva avere dei risvolti diversi da un semplice delitto di mafia, e che essendo una precisa notizia di reato, per cui vi era l’obbligo giuridico di indagare, venisse rilasciata una doverosa e obbligatoria per legge delega d’indagine da parte della Procura della Repubblica.
Quindi venne assegnata la delega d’indagine…
Ravidà: Sono trascorsi ulteriori dieci anni circa e di quella delega e dell’inizio dell’indagine sugli autori del delitto Ilardo non arrivò mai nulla alla DIA di Catania.
Nel 2010, Sturiale venne tratto in arresto per un traffico di stupefacenti condotto con il clan dei “Cappello”. Nel frattempo, Sturiale era transitato in altri clan a causa di contrasti con appartenenti al clan Santapaola.
La moglie, Biondi Palma, mi contattò perché il marito non sopportava il regime carcerario e pertanto chiese il mio aiuto, vista la sua conoscenza del supporto che Sturiale aveva dato alla DIA con le notizie che mi aveva fornito.
Risposi che l’unico aiuto che io potevo dare era che Sturiale scegliesse la strada della collaborazione (o del pentimento).
Trascorsi altri pochi giorni, la Biondi mi ricontattò e mi disse che il marito era propenso ad iniziare una collaborazione con le Istituzioni. Pertanto, insieme al mio Dirigente di settore, mi recai in Procura e notiziammo di tale possibilità più PM della DDA.
Ci furono molte le difficoltà per fare accettare Sturiale come collaboratore di Giustizia, ma credo che il motivo principale che spinse il Dottor Pacifico (all’epoca PM alla DDA) ad accettare Sturiale come collaboratore, fu il fatto che io gli feci sapere che Sturiale era a conoscenza degli autori del delitto Ilardo e che le notizie che egli mi aveva fornito su tale delitto molti anni prima sarebbero state un eccezionale riscontro alla veridicità dei fatti inerenti il delitto stesso.
Pacifico sentì Sturiale e questi, oltre al delitto Ilardo, fornì molte altre notizie, per cui la sua collaborazione risultò importantissima ai fini di giustizia.
Per tale fatto relativo alle notizie fornitemi da Sturiale sul delitto Ilardo, anch’io fui ascoltato dalla Procura della Repubblica di Catania.
Raccontai quindi i fatti per come si erano svolti molti anni prima e, con mia grandissima sorpresa e stupore, in quella sede venni a sapere che della mia relazione di servizio sul delitto, in Procura a Catania, non risultava nulla. E anche delle mie centinaia di notizie confidenziali che mi aveva fornito Sturiale, in Procura a Catania non vi era traccia.
Quindi non vi era prova della consegna della relazione di servizio…

Ravidà: Fortunatamente, la relazione riguardante il delitto Ilardo era stata trasmessa alla Procura con un numero di protocollo in uscita dalla DIA, corredata da una lettera di accompagnamento; a ciò si aggiungeva il fatto che, nel corso del tempo, avevo provveduto a raccogliere e formalizzare le relazioni contenenti le confidenze fornite da Sturiale.
Pertanto, chiamai al telefono il mio collega Francesco Arena e gli chiesi di recuperare urgentemente il numero di protocollo della mia relazione inviata in Procura sul delitto Ilardo. Cosa che Arena fece immediatamente e mi fornì la data di quando era stata inviata in Procura la mia relazione e il numero di protocollo d’uscita.
Successivamente fornii pure i due fascicoli sulle raccolte delle relazioni di Sturiale.
A quel punto, i Magistrati che mi interrogarono mi misero al corrente che della lettera di accompagnamento della DIA inviata in Procura non risultava traccia.
Le stesse cose che ho detto durante il mio interrogatorio, le ho testimoniate durante il Processo per il delitto Ilardo, finito con la condanna dei mandanti e degli autori, soltanto mafiosi, del delitto.
Tempo dopo, venni a sapere, informalmente, che la mia relazione di servizio sul delitto Ilardo fu rinvenuta in mezzo alle carte di un Magistrato della Procura di Catania che nel frattempo era stato trasferito ad altro importante incarico.
C’è da aggiungere che lo stesso Sturiale, nel tempo, mi aveva notiziato di come Maurizio Zuccaro (capo della squadra che uccise Ilardo) potesse essere un collaboratore occulto di non meglio precisate strutture dello Stato. Questo era risaputo in ambito criminale catanese, in quanto molti non si spiegavano come Zuccaro potesse essere sempre agli arresti domiciliari, sebbene con una condanna all’ergastolo.
Quanto narrato da Ravidà nel corso della nostra intervista, conferma il sospetto persistente che quando si lavora su vicende che intersecano la criminalità organizzata con la sfera dei servizi segreti deviati o con settori infedeli dello Stato, gli ostacoli non provengono solo da Cosa Nostra. La sparizione di un documento ufficiale DIA, la ritardata gestione di un’informazione esplosiva come quella sul delitto Ilardo, e le voci persistenti su soggetti come Zuccaro – voci che suggerivano la sua copertura da parte di non meglio precisate strutture dello Stato – compongono un quadro desolante e allarmante.
Il processo, concluso con la condanna della sola ala mafiosa, non ha mai dissipato l’ombra di un livello superiore che potrebbe aver orchestrato o quanto meno facilitato l’eliminazione di Luigi Ilardo per impedire che le sue rivelazioni arrivassero ai Magistrati o facessero luce su connivenze tra mafia e apparati statali.
Il lavoro di Ravidà, come ufficiale di polizia giudiziaria, si è svolto nel tentativo di portare alla luce la verità completa, anche quando questa verità era chiaramente scomoda per chi detiene il potere, sia all’interno che all’esterno delle istituzioni.
Ma la storia non finisce qui e la approfondiremo nel proseguo della nostra intervista…