di Salvatore Nocera Bracco

Nel corso delle cerimonie sciamaniche si ha spesso una visione in cui ci si sente infinitamente piccoli. Si parte dall’infinitamente grande: le galassie, le stelle, ci si fonde nell’infinito e poi si diventa insignificanti e minuscoli, si vive in una realtà molecolare. E tuttavia sono un gigante rispetto a una molecola! Si percepisce questo alternarsi di prospettive oscillando da una visione all’altra, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Può causare un senso di ansia, ma anche di potenza, che viene superato durante la cerimonia perché qualcosa si sblocca, come se si aprisse una porta. (Arthur Laurent e Stéphane Laurent – Il medico e lo Sciamano – Carrocci editore-Sfere)

Oggi pomeriggio, 8 febbraio 2025, al 31 di via San Jacinto, nel quartiere Triana di Siviglia, un caffè dopo una lunga passeggiata, insieme a Rossana, Silvana e Osvaldo. Triana mi ha colpito, non per le sue peculiarità architettoniche o urbanistiche, bensì per l’energia che emana, molto potente: l’alma flamenca mi accarezza e mi accoglie, un richiamo irresistibile. Perché in questo quartiere è appunto nato il Flamenco.
Il nome di San Jacinto mi ricollega immediatamente a Peter Gabriel, mitico co-fondatore del gruppo rock progressive dei Genesis, da cui uscì nel 1975. Nel 1982, Peter Gabriel ha pubblicato una bellissima canzone, San Jacinto, inserita nel suo album Security. In questa canzone mi colpisce molto la figura del Medicine Man – l’Uomo della Medicina, lo sciamano, il pow waw che danza nelle lingue native pellerossa – che sottopone i giovani quattordicenni della tribù all’iniziazione del serpente a sonagli: il suo morso provoca allucinazioni terribili, se i ragazzi sopravvivranno saranno grandi guerrieri, altrimenti moriranno. La morte rimane comunque un evento improbabile in questi riti, i quali rinnovano semmai, alimentandolo, il legame con la comunità di appartenenza, con le proprie radici: la morte – quella spirituale, non solo sociale! – potrebbe sopravvenire laddove il legame-radice con questa origine venga rescisso. Un modo per affermare la propria orgogliosa identità, pur sempre dentro un diversificato rapporto con la Natura da cui dipende l’esistenza e l’identità di tutti quanti. La morte come il primo passo verso la consapevolezza sociale, che molti di noi, immersi come siamo nel nostro vitale consumismo edonista, non si aspettano. Oggi noi, nella nostra incredibile evoluzione culturale, lontani dal pensiero naturale e dentro le nostre esistenze sofisticate, cosa sappiamo della morte, come affrontiamo la questione? Ne rimaniamo distanti, come se non ci riguardasse, accettandola acriticamente: le guerre, le stragi, le pandemie, quando ne veniamo in ogni caso correttamente informati, rimangono eventi prettamente televisivi, mediatici, lontani.
“Quando ancora i bufali vagavano nelle praterie,
e sulla pelle strofinavo la salvia che pulisce e disinfetta,
prima di solcarla con le pitture rosse degli Apachi,
nelle orecchie gli ululati dei coyote,
il demone del serpente mi si muoveva dentro, dappertutto,
rendendo il mio corpo aperto a una conoscenza di misteri,
simili alla morte, che mai più avrei avvertito dopo,
se non come sostegno alla Giustizia del mio essere guerriero.
E la grande Aquila si alza: àlzati, su, Wakan Tonka,
vola attorno alla cima innevata
della grande montagna sacra di San Jacinto”.
In Arizona, un tempo territorio di fieri Pellerossa, oggi le discoteche e gli steackhous portano il nome dei più grandi guerrieri Apachi, Geronimo e Toro Seduto, divenuti ormai simulacri di un morto consumismo.
È una morte diversa, non più nel senso condiviso di passaggio necessario alla crescita dei giovani, e dunque di tutta la tribù. Guardare in faccia la morte significava imparare a riconoscerla, a temerla, a rispettarla, senza ipocriti evitamenti. Oggi la morte non sembra aver più valore. E in ogni caso riguarda sempre qualcun altro, mai noi. Ma la morte di un popolo è sempre infinitamente più catastrofica e scandalosa della morte di una singola persona. Soprattutto quando attuata con premeditato disegno di conquista e di sottomissione. Tutto ridotto a uno squallido mercimonio che cancella la Storia e rende anonima ogni Vita.

Credevo ci fosse un’attinenza tra la montagna di San Jacinto in Arizona, nella canzone di Peter Gabriel, e il quartiere di San Jacinto a Siviglia. Invece sono due mondi completamente lontani. Eppure emerge una inaspettata analogia, nella simile marginalità in cui una dominanza colonizzatrice e intollerante ha costretto molte popolazioni locali. Lo stesso Peter Gabriel ha poi cercato di trovare un comune denominatore tra le varie specifiche culture native che la spocchia occidentale non ritiene meritevoli di attenzione mediatica e che anzi definisce minori: la World music, da cui emerge al contrario che più si scava nel particolare, nella sua più tipica specificità – rievocando forse involontariamente, o forse no, il pensiero di Tolstoj, secondo cui più parli del tuo quartiere, della tua casa, persino del tuo pollaio, più sei universale! – più le differenze (presunte) si riducono, riportando tutti i popoli e le etnie nell’alveo di una stessa Umanità, con pari dignità e diritto di espressione.
Il quartiere Triana di Siviglia si trova sulla riva destra del Guadalquivir, guardando verso l’Atlantico, in linea d’aria a circa 60 km oltre l’orizzonte. I Romani lo chiamarono Baetis, l’antica regione della Spagna, la Betica, che comprendeva anche l’Andalusia in cui questo Fiume Grande scorre, esattamente come lo denominarono gli Arabi: wadi al-Kabir, il Fiume Grande, appunto.
È dentro questo oltre che si sono stabilite le marginalità di Siviglia, già a partire dal XV secolo, quando i Gitani smisero di essere nomadi e si stabilirono in questi territori.
Qui, inoltre, furono trasferite dalla città le maestranze artigianali che producevano ceramiche, a causa della pericolosità dei loro forni all’aperto. I quali, bruciando ingenti quantità di legna e paglia, erano causa di frequenti incendi che devastavano periodicamente le case sivigliane.
Qui a Triana veniva inoltre costretta ad abitare la “marmaglia”, la delinquenza comune, lo scarto della società, per cui si crearono enormi distanze sociali tra i vari ceti della popolazione.
Gli abitanti di Triana erano gli ultimi, gli abietti, i più marginali ed esclusi. È qui, come espressione di un profondo dolore atavico, nasce sotto l’influsso gitano il Flamenco, un lamento estraneo, l’esaltazione della corporeità come affermazione nel mondo ed emancipazione da una condizione di avanzo sociale indesiderato. Un’espressione totale di corpo-voce, corpo-danza e chitarra, variamente intersecati e connessi dal ritmo della rabbia interiore evolutasi in espressione artistica ormai nobilitata da secoli di pratica. Oggi il Flamenco è un’arte potente, ricca, tecnica, poco praticabile al di fuori della sua cultura d’origine.

Partecipare a uno spettacolo di Flamenco è un’esperienza totalizzante, commovente, investe ogni molecola del tuo essere: all’inizio ti percepisci come semplice spettatore, ma da subito ti senti via via sempre più coinvolto, finché il tuo dolore risuona con quel lamento, con il flamenco. È una scoperta liberatoria, apotropaica: il ritmo convulso del battito dei piedi sul pavimento e delle mani rendono tangibili e pesanti quei corpi finora non considerati, finora assenti, rendendoli soggetti degni di attenzione, e al contempo allontanando ogni intento malevolo. Le invocazioni vocali – quasi una trance, tra una strofa di canto e una danza, il lamento vero e proprio, mai recriminatorio, per quanto probabilmente rivolto alla presenza di antiche ombre ostili da cui difendersi – costringono i corpi a cercarsi, a fondersi molto più che dentro una scontata sensualità: corpi presenti nel mondo, che letteralmente fanno sentire la loro potente voce, dolente ma libera dalle sottomissioni, anche nella manifestazione tecnica del lamento, molto lontana dalle discipline accademiche, corpo che se–duce, che porta a sé l’attenzione, affermando il proprio essere ma al contempo accogliendo e amplificando l’essere dell’altro, rendendolo anzi protagonista, persino contro il suo tirarsi inconsapevolmente indietro. Soggettività degna e unica. Il margine, lo scarto, l’esclusione innesca così risorse impensate, diventando rivelazione pura e coinvolgente: Flamenco.