Dopo tanta esultanza per la puntata di venerdì di Far West su Rai3, qualcuno ci sarà rimasto male.
La puntata infatti alza un po’ il tiro sulla strage di via D’Amelio.
Non molto per la verità, ma tanto quanto basta per chiedersi se fu sola mafia.
L’esultanza della giornata di venerdì prima del programma, si trasforma nel successivo silenzio.
In qualche disperato post di chi teme che l’asticella possa salire ancora più in alto.
Far West, seppur molto timidamente, apre a scenari che potrebbero andare oltre ‘Cosa nostra’, stigmatizzando il ruolo della DC di Giulio Andreotti, che secondo alcuni giornalisti, facili alle santificazioni e alle lusinghe del mondo degli applausi mediatici, sarebbe un quasi ‘ingiustamente perseguitato’.
E se proprio da quel mondo dovesse nascere – involontariamente s’intende – un ‘mostro’ chiamato Giustizia? Certo, un mostro per chi la giustizia la vorrebbe asservita ad altre logiche.
Quello stesso mondo social-mediatico che supporta le deposizioni dell’ex pentito Maurizio Avola il quale a distanza di 26 anni dalla sua collaborazione con la giustizia ha raccontato ai giornalisti Michele Santoro e Guido Ruotolo di aver partecipato alla strage di via D’Amelio.
Un racconto non ritenuto credibile dai pm di Caltanissetta i quali ritengono “assai probabile” che le dichiarazioni di Avola “possano essere state eterodirette da parte di soggetti, non identificati sulla scorta delle indagini in corso, interessati a porre in essere l’ennesimo depistaggio”.
Da ciò un altro no all’incidente probatorio da parte del gip che ha rigettato nuovamente la richiesta dell’avvocato dell’ex pentito.
Un no indigesto per chi supporta il tentativo politico-mediatico di chi vuole a tutti i costi parcellizzare le stragi del ‘92/93 come se non esistesse un unico filo conduttore.
Sui profili social e sulle pagine di chi attribuisce alla sola mafia le stragi di Capaci e via D’Amelio, si assiste allo spezzettamento della puntata di Far West di venerdì sera, con la pubblicazione di video di quei soli momenti che riguardano le accuse mosse al “nido di vipere” – la procura di Palermo di quel tempo – ignorando artatamente quelle parti che già contenute nella presentazione della puntata che sollevano quantomeno il dubbio che le stragi non furono opera soltanto di ‘Cosa nostra’:
“Siamo sicuri che la sua morte fu decisa solo dalla mafia a Palermo e l’ordine invece non sia arrivato dal nord, da quelle imprese che facevano affari con i boss di Cosa Nostra, avevano sul libro paga anche magistrati e temevamo di perdere montagne di soldi?”
Nessun sostenitore del dossier mafia/appalti come causa unica delle stragi, ha riportato l’intervento di Filippo Facci – giornalista ‘al di sopra di ogni sospetto’ per i sostenitori di mafia/appalti – che nel fare riferimento al libro di Basilio Milio, difensore del generale Mori, ha raccontato di ciò che “non viene detto mai, perché in quel dossier c’era dentro la Cogefar della Fiat, la Di Bartolomeis legata alle coop, c’era praticamente tutta l’Italia di Tangentopoli…e questo venne detto il primo luglio dal pentito Leonardo Messina a Borsellino… e questo potrebbe spiegare l’accelerazione… c’era un accordo per cui venticinquemila miliardi di lire dovevano essere spartiti tra la politica, la mafia, in una percentuale del 2,5%, di un altro 2,5% per le aziendine di subappalti, di uno 0,90% personali per Totò Riina… questa era la tangentopoli che dovevano scoprire…”
Facci ci tiene a precisare che nel dossier mafia/appalti non si parla di Dell’Utri e di Berlusconi.
Una torta da venticinquemila miliardi da spartire secondo un accordo tra mafia, imprenditoria, politica e persino magistrati, che riguardava tutta l’Italia che contava.
Un accordo dal quale sarebbero però stati esclusi Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Nomi noti da tempo agli inquirenti per diverse circostanze, a partire dal 1980, quando Mangano venne arrestato da Giovanni Falcone, e quando lo stesso anno a Londra, al matrimonio del boss internazionale Jimmy Fauci, tra gli ospiti c’era Marcello Dell’Utri.
È proprio nei primi anni ’80 che le indagini sfiorano il mondo finanziario vicino al clan Berlusconi con l’Operazione San Valentino, quando la polizia milanese effettua una retata contro gli esponenti di Cosa Nostra a Milano e tra gli arrestati figurano numerosi clienti della Banca Rasini, tra cui Luigi Monti, Antonio Virgilio e Robertino Enea, fino ad arrivare alla scoperta che la banca svolgeva un ruolo di riciclaggio di soldi sporchi, di conti miliardari riconducibili a Totò Riina, Bernardo Provenzano, Vittorio Mangano e altri.
Della Rasini, nella quale Luigi Berlusconi, padre del noto Sivio fu prima impiegato, quindi procuratore con diritto di firma, ed infine assunse un ruolo direttivo all’interno della stessa, avevano parlato Michele Sindona e altri pentiti, indicandola come coinvolta nel riciclaggio di denaro di provenienza mafiosa.
La banca, e Carlo Rasini in particolare, furono i primi finanziatori di Silvio Berlusconi all’inizio della sua carriera imprenditoriale.
Un filo rosso quello che lega la banca a Silvio Berlusconi, poiché la Rasini risulta nella lista di banche ed istituti di credito che gestirono il passaggio dei finanziamenti di 113 miliardi di lire che ricevette la Fininvest, il gruppo finanziario e televisivo di Berlusconi, tra il 1978 ed il 1983, anno in cui la Guardia di finanza, nell’ambito di un’inchiesta su un traffico di droga, aveva posto sotto controllo i telefoni di Berlusconi.
Nel rapporto della Guardia di Finanza si legge: «È stato segnalato che il noto Silvio Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane. Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie e opererebbe sulla Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo…».
L’indagine nel 1991 fu archiviata.
Una storia complessa quella di Silvio Berlusconi, con tante indagini relative al traffico di stupefacenti e al riciclaggio, a partire da ‘Pizza Connection’ per proseguire con l’indagine ‘Mato grosso’ della procura elvetica, che hanno da sempre gettato sinistre ombre sul controverso imprenditore e uomo politico.
Nel corso della trasmissione si è parlato dell’intreccio mafia-politica, con rapporti anche con la magistratura del tempo.
Quella politica riconducibile alla DC, e dunque a Giulio Andreotti, per alcuni quasi vittima di un accanimento giudiziario.
E proprio sulla figura di Andreotti, indicato come fautore di dure leggi contro la mafia (seppure processato per associazione per delinquere e associazione mafiosa, che aveva commesso fino alla primavera 1980, reato estinto per prescrizione), resta memorabile la frase di un giornalista rispetto l’omicidio Dalla Chiesa e il coinvolgimento dell’uomo poitico:
“Tuttavia, se ci fosse stato il minimo sospetto concreto, lo stesso Giovanni Falcone non avrebbe mai accettato di lavorare presso il ministero della Giustizia durante il governo Andreotti. In ogni caso, dovrebbero essere i fatti a contare, non le illazioni”.
E i fatti rimangono quelli del politico che aveva goduto della prescrizione per l’associazione per delinquere e associazione mafiosa.
Secondo il giornalista, dunque, Falcone avrebbe potuto accettare di lavorare presso il ministero della Giustizia durante il governo Andreotti, seppur sospettando i precedenti rapporti con ‘Cosa nostra’, purchè non implicato nell’omicidio Dalla Chiesa?
O non sospettava neppure dei rapporti tra Andreotti e la mafia, e dunque a nulla serve citare Falcone a uso e consumo di chi vorrebbe fare scudo del suo nome per salvaguardare quel mondo politico che con ‘Cosa nostra’ faceva affari?
Sul ‘minimo sospetto’, a dimostrazione che seppure in assenza di sospetti da parte di grandi magistrati la storia è diversa, è Facci che narra di un Paolo Borsellino che tre giorni prima di morire andò a cena con Natoli, Lo Forte e Carlo Vizzini, l’ex ministro del Partito Socialista Democratico Italiano, passato anche tra le fila di Forza Italia, per poi tornare al Partito Socialista Italiano.
Lo stesso Vizzini indagato nel ’93 – poco tempo dopo l’uccisione di Borsellino – nell’ambito del processo ENIMONT, con l’accusa di aver ricevuto un finanziamento illecito di 300 milioni di lire destinato allo PSDI. Condannato in primo grado, il reato si estinse per prescrizione in appello.
Se Borsellino avesse avuto dei sospetti, si sarebbe recato a cena con Vizzini?
O per il sol fatto che cenarono insieme si dovrebbe ritenere Vizzini innocente dalle accuse a lui mosse?
Uno strano mondo quello di un certo giornalismo che spezzetta i fatti a proprio piacimento, dando patenti di credibilità, di innocenza, di colpevolezza e di onestà secondo farraginosi ragionamenti totalmente avulsi dalla realtà dei fatti.
Un mondo che – sicuramente in maniera inconsapevole – svolge un importante ruolo nell’indirizzare l’opinione pubblica a favore delle dichiarazioni di ex pentiti come Avola, ritenute dai pm di Caltanissetta assai probabilmente eterodirette da parte di soggetti, non identificati sulla scorta delle indagini in corso, interessati a porre in essere l’ennesimo depistaggio.
Se solo si trovasse il coraggio, forse dovremmo ripartire quantomeno dal processo ENIMONT e dalle figure coinvolte, per rendersi conto di come non fosse solo la DC a vivere in quel mondo di malaffare di corruttele e strani rapporti dalle cui ceneri nacque la Seconda Repubblica; nulla di diverso dalla prima, se non addirittura peggiore.
E se come dice Filippo Facci nel corso della trasmissione, che in mafia/appalti c’era praticamente tutta l’Italia di Tangentopoli e che era questa la tangentopoli che dovevano scoprire, proviamo a capire perché mai ad avversare l’indagine di Di Pietro fu quella parte politica che ancora oggi si vuole continuare a mantenere estranea a quegli anni bui durante i quali politici, imprenditori e mafiosi, si dividevano fiumi di miliardi di vecchie lire provenienti dagli appalti.
Dossier mafia/appalti? Sì, ma non fermiamoci alla DC andreottiana e alla sola responsabilità di ‘Cosa nostra’ nelle stragi.
E se è vero, come giustamente ha detto Lucia Borsellino, che “il diritto alla verità è imprescrittibile”, non restiamo arroccati su posizioni precostituite in difesa di questo o di quel gruppo politico.
La verità va cercata a 360°, se è la verità che vogliamo…
Gian J. Morici