Domani ricorrerà l’anniversario di un assassinio che pochi ricordano, ma che tanto racconta della Sicilia.
Il 12 marzo del 1909 fu ucciso, nella Piazza Marina di Palermo, un uomo la cui storia (e la cui fine) è parte di un tempo ad oggi mai conclusosi.
Si chiamava Giuseppe Petrosino, ma da tutti era conosciuto con il nickname di “Joe”.
Di origini umilissime, quell’uomo aveva saputo emergere tra le strade della “Little Italy” di New York dove aveva fatto il netturbino.
Di lui si era accorto, addirittura, il futuro Presidente degli Stati Uniti d’America, Theodore Roosevelt, che lo aveva promosso a Sergente e lo aveva destinato ad incarichi importanti nella conduzione di indagini nei confronti della mafia siciliana d’oltre oceano.
Grinta, intelligenza, capacità di capire il mondo dei siciliani trapiantato nella grande mela, Joe Petrosino divenne capo di una speciale unità di azione anticrimine – chiamata “Italian Branch” – che in quegli anni produsse una serie di inaspettati successi nella lotta contro la “Mano Nera” (la mafia siciliana di New York).
Solo per capire quanta abilità e lungimiranza investigativa vi fossero in quell’uomo, basta ricordare che fu lui a convincere il famoso tenore napoletano Enrico Caruso a collaborare per la cattura dei criminali dei quali era rimasto vittima, a New York, durante una tournée.
Ma la vicenda che non abbandonò mai il grande “Joe” (e che forse ne determinò la fine) fu quella che – ancora oggi – si ricorda sotto il titolo del “cadavere dentro il barile”.
Se vorrete approfondire questa incredibile storia, vi basterà leggere il bel libro di Salvo Toscano che la racconta con grande maestria.
Per quello che qui può essere utile alla vostra conoscenza, basterà riferire che il barile era stato rinvenuto da una donna al confine tra East Side irlandese e Little Italy.
Dentro vi era stato – come dire? – ospitato il corpo di un uomo orrendamente mutilato: i suoi testicoli erano stati evirati e allocati dentro la bocca.
L’indagine, affidata al pervicace fiuto di “Joe” Petrosino, aveva permesso di scoprire tante cose del mondo misterioso della “Mano Nera” siculo-americana.
Servizi segreti, politica, interessi economici inconfessabili e tanto (ma proprio tanto…) crimine da una parte e l’altra dell’oceano.
Per questo motivo, seguendo il suo infallibile fiuto investigativo, Joe aveva deciso di effettuare la sua “segretissima” trasferta a Palermo nei primi giorni del marzo del 1909.
Inseguiva e cercava di stanare gli stessi interessi politici e criminali che molti anni prima avevano deciso la morte del grande eroe civile (e già Sindaco di Palermo) Emanuele Notarbartolo.
Aveva fatto un errore molto simile a quello che, molti anni dopo, fu fatale al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Aveva pensato che mai la mafia avrebbe osato uccidere un uomo delle istituzioni.
La Storia ci insegna che così non è.
Quattro colpi di pistola lo abbatterono davanti al ferro intarsiato del giardino di Piazza Marina.
La mafia siciliana aveva fatto venire il suo più fidato ed infallibile sicario dagli USA e agli ordini del Totò Riina di quel tempo (si chiamava Vito Cascio Ferro) eseguì il compito con crudele precisione.
Paradosso della storia, solo nell’anno 2014 e nel corso di una operazione della Guardia di Finanza denominata “Apocalisse”, si è avuta verità di quell’omicidio sepolto dal tempo.
In quel contesto, uno degli indagati di mafia, tale Domenico Palazzotto, fu intercettato in questa frase:
“Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto. Ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro”.
Dicono che la Storia umana sia solo un ripetersi, senza fine, degli stessi errori e degli stessi orrori.
Forse è proprio così, a giudicare dai tanti “civil servants” che – come Joe Petrosino – hanno perso la vita nella ricerca della Verità e della Giustizia.
Lorenzo Matassa