“L’Universo è fatto di storie, non di atomi…“
(Muriel Rukeyser)
Sempre più spesso mi ritrovo a meditare sul mistero del tempo.
Sarà l’effetto del suo fluire dentro e fuori di me.
Probabilmente a ragione del fatto che il passare degli anni non è altro che un’ascesa nel grattacielo della vita.
Se è vero che invecchiando ogni tua capacità gradualmente si riduce, è anche vero che quel muoversi verticale ti permette di scorgere scenari e verità prima precluse.
Dal mio sessantatreesimo piano (di età) posso percepire orizzonti visuali che, sicuramente, non avevo allorché abitavo al ventesimo.
Potrebbe sembrare una similitudine forse troppo infantile, ma c’è una strana correlazione tra la capacità dello sguardo e l’universo che ci circonda.
E non perché – come affermava l’imperatore Marco Aurelio – “non esistono verità, ma solo prospettive dalle quali guardare il mondo”.
La ragione di questa più ampia e profonda visuale è connessa al procedere del tempo e all’evidenza con la quale questa entità (inafferrabile e insondabile) interagisce con il pensiero.
Così ho provato a comprenderla meglio questa entità, se non altro perché scandisce l’inizio e la fine della esistenza degli esseri viventi.
Nella ricerca di qualcosa che mi spiegasse concretamente il difficile tema, mi sono imbattuto in un libro davvero straordinario scritto da un professore di Fisica di Oxford.
Julian Barbour – questo è il suo nome – all’esito di più di mezzo secolo di ricerca ha concentrato il suo alto sguardo su “una nuova teoria del tempo”.
Tra scienza (non lontana dalla forma filosofica) ed intuizione (spesso vicina alla poesia) nel libro possono leggersi passaggi concettuali come questo:
“Il tempo è qualcosa di simile ad un filo dritto lungo il quale la distanza tra due punti esiste come durata prima che gli eventi si verifichino.
Lo spazio è un contenitore di luoghi, il tempo è un contenitore di eventi. Il problema con lo spazio ed il tempo, concepiti in questo modo, è semplice: sono invisibili.
Non vediamo le cose. Non vediamo nè il tempo nè lo spazio. Non sono la nostra casa: qualcosa di altro lo è…”
Vedo i vostri sguardi interrogarsi su ciò che avete appena letto e cercare di interpretare cosa esattamente vi nascondino queste parole.
Il vostro dubbio è pari al mio.
Perché, se non siamo padroni del tempo e dello spazio – che però perimetrano la nostra dimensione – ma, allora, di cosa possiamo dirci padroni?
L’umanità intera e tutta la sua storia sarebbe solo l’improvviso battito d’ali sfuggito all’attezione dell’eterno.
Il caso divenuto necessità di vita.
Ma anche l’eternità (che sembra non abbia tempo) è fatta di istanti che si fanno infinito.
E, quindi, anche l’eternità ha un suo tempo.
In ciò si cela il paradosso delle parole che avete appena letto ed il mistero che nessuno ha mai svelato.
Se ogni buona storia deve avere il suo inizio, la sua esposizione e la sua fine è facile pensare che l’universo attorno a noi sia l’enorme biblioteca nella quale noi siamo solo un piccolissimo libro.
La biblioteca suprema è tutta attorno a noi.
Un universo intessuto di storie con innumerevoli trame secondarie diverse, ma tutte conservate tra le stelle che possiamo osservare nelle notti d’estate.
Quel cielo, ogni notte, ci racconta la sua storia ed il suo tempo senza tempo.
Noi proviamo ad ascoltarlo con l’intelligenza degli scienziati, con l’intelletto dei filosofi, con la sensibilità dei poeti.
Ma se intuire la grandezza del suo racconto è possibile, la cosa infinitamente difficile – ben dentro l’impossibile – è accettarlo nella sua eternità…
Lorenzo Matassa