Solo pochi giorni fa il CSM ha reso pubblici alcuni atti relativi alle istruttorie che seguirono le orribili stragi dell’anno 1992.
Vennero uditi i magistrati dell’ufficio inquirente palermitano per ricostruire gli ultimi giorni di vita lavorativa di Paolo Borsellino.
Dopo trenta anni, l’organo di autogoverno della Magistratura italiana ha ritenuto che il Popolo – nel cui Nome è amministrata la Giustizia in Italia – avesse diritto a conoscere le possibili verità correlate ai fatti gravissimi occorsi in quel Distretto.
Verrebbe da dire: “Bontà Loro!”.
Alleghiamo al presente articolo il testo completo delle audizioni rese pubbliche e invitiamo alla lettura.
Solo in questo modo si può provare a capire qualcosa.
Dobbiamo ammettere, però, che anche per i lettori più esperti e smaliziati l’interpretazione del testo non sarà facile.
Si tratta di una pessima trascrizione in cui, spesso, non è dato leggere le domande poste dai Commissari del CSM.
Anche i trascrittori devono essere stati di cultura e capacità davvero assai mediocri (si noti come trascrivono la parola “intelligence” nel testo…).
Chissà come a quei tempi il CSM nominava i suoi addetti alla registrazione e trascrizione delle sessioni…
Proprio per dare ausilio all’interpretazione del testo abbiamo chiesto al giudice Lorenzo Matassa di aiutarci a capire.
Il magistrato fu il secondo ad essere udito – insieme al suo collega Alfredo Morvillo (fratello di Francesca) – nel primo round interlocutorio.
Nella sua audizione (da pag. 30 a pag. 46) si percepisce tanta – ma davvero tanta – tensione.
Noterete che il magistrato cerca di leggere un documento e di trasporlo a verbale dell’audizione, ma il suo tentativo viene interrotto dai Commissari.
Il dott. Matassa concluderà il suo intervento lasciando a verbale il convincimento dell’inutilità dell’audizione a fronte della percepita volontà di non essere ascoltato…
Gian Joseph Morici: Può chiarire ai nostri lettori, in modo sintetico, le premesse storiche di quell’audizione?
Lorenzo Matassa: Lo faccio molto volentieri perché in questi tre decenni mi sono sempre chiesto come mai di quelle audizioni si forse persa traccia.
Posso dirvi che mi insediai nell’ufficio della Procura della Repubblica di Palermo ai primi di luglio 1992. Temporalmente a metà tra le due stragi.
Può sembrare paradossale, ma chi mi convinse a trasferirmi fu proprio Giovanni Falcone che, allora, svolgeva il ruolo di Procuratore Aggiunto.
Con lui avevo lavorato “alle schede” del nuovo processo a “Cosa Nostra” che nasceva dagli esiti e dai progressi istruttori del primo troncone.
Devo chiarire cosa voglia dire “fare le schede”.
Nel vincente metodo di lavoro di Falcone (svolto, allora, con l’ausilio di un cripto “computer” IBM) vi era l’incrocio dei dati.
Oggi è un qualcosa che si fa con un click, ma allora era frutto di un lavoro lungo e sfiancante che si metteva insieme con “le schede” analitiche dei soggetti sottoposti ad indagine.
Insomma, lavorare per Falcone mi sembrava un onore oltre che una grande opportunità professionale e posi la mia domanda di trasferimento a Palermo.
Ma quella mia richiesta mise più di un anno ad essere accolta e nel frattempo Falcone aveva raggiunto il Ministero di Grazia e Giustizia a Roma.
Quando mi insediai presso l’ufficio inquirente di Palermo, la strage di Capaci si era da poco consumata e Paolo Borsellino era il mio Procuratore Aggiunto.
L’ufficio era una specie di polveriera pronta ad esplodere.
Il suo capo, Pietro Giammanco, era un generale senza più esercito.
La sua autorità, insieme all’autorevolezza, si erano già dissolte; ma il peggio doveva ancora avvenire.
Una sequenza – di valore fotografico – descriveva icasticamente le cose: l’attesa dietro la porta di Falcone mentre il Procuratore era a colloquio privato con Mario D’Acquisto (potente uomo della corrente andreottiana in Sicilia).
Non si pensi, però, che Giammanco non avesse i suoi “supporters” interni. I suoi “nipotini” (così erano vezzosamente appellati…) erano tanti.
Molti di quei nomi hanno avuto carriere professionali fulminanti nel quadro dell’antimafia militante.
Assistetti personalmente all’ultima riunione che Paolo Borsellino ebbe nell’ufficio di Procura in un giorno canicolare del luglio 1992.
In un clima da paradosso, Giammanco ci aveva convocato nell’aula biblioteca del secondo piano.
Ci parlò di un importante “Uomo d’Onore” che aveva deciso di rivelare temi mai prima del tempo toccati da nessuno.
Quel collaborante, però, voleva parlare solo con Borsellino e nessun altro.
Da uno dei sostituiti “nipotini” si udì l’invito al Giammanco a non dare seguito a quella esclusiva richiesta.
La frase rimase storica nelle menti di chi partecipò alla riunione: “Io e te, Pietro. Andiamo io e te ad ascoltare questo pentito. Io e te, Pietro!”
Guardammo tutti, stupiti, Paolo Borsellino e lui rispose ai nostri occhi interrogativi con il sorriso amaro di quei giorni e ponendo una mimica del corpo che invitava i due ad andare.
Non molti giorni dopo quella riunione, Paolo Borsellino veniva fatto saltare in aria insieme alla sua scorta in via D’Amelio.
Gian Joseph Morici: Cosa accadde in Procura dopo la strage del 19 luglio 1992?
Lorenzo Matassa: Accadde che Giammanco era stato affrontato a colpi di pomodori marci fuori dalla Prefettura dove era andato per la riunione urgente lì convocata.
Ritornato in ufficio ci aveva a nostra volta convocati per chiedere il sostegno e così legittimarsi davanti al mondo intero come capo ancora in forza del suo esercito di Sostituti.
I tanti “nipotini” lealisti si manifestarono subito pronti a dare il loro sostegno.
La parte dell’ufficio che aveva avuto la percezione delle dinamiche interne, aveva sottoscritto un documento di sfiducia con la collettiva richiesta di trasferimento.
Chiaramente i Sostituti firmatari intendevano, con quell’atto plateale, richiamare l’attenzione del Paese sul dramma vissuto e sull’apparente sua ineluttabilità.
Pochi di noi, in quei giorni, avevano conosciuto e partecipato le vicende relative ai rapporti mafia-appalti.
La singolarità era proprio in questo.
Mentre il Procuratore Giammanco non perdeva occasione di convocarci per ogni questione di apparente interesse collettivo, mai ci parlò di quella importante indagine.
Mai ci disse che era stata archiviata – in tutta urgenza – con priorità incredibile ed in tempi di rovente ferialità…
Insomma, sottoscrivemmo il documento di sostanziale sfiducia a Giammanco e per questo fummo tutti convocati a Roma dal CSM.
Io fui il primo tra gli uditi perché i Commissari del CSM non riuscivano a spiegarsi come mai un giovane Sostituto, arrivato da pochi giorni, avesse espresso quel “troppo tempestivo” convincimento senza avere avuto il tempo materiale di farsi ragione delle cose…
Gian Joseph Morici: Beh… questa domanda la ripropongo adesso. Come mai fu così tempestivo nell’adesione al documento?
Lorenzo Matassa: La risposta a questa domanda è possibile leggerla negli atti resi pubblici da parte del CSM.
Nel documento che sottoscrivemmo erano contenute riflessioni e constatazioni che attenevano al rapporto tra mafia e politica, alle “regole di ingaggio” che facevano degli uomini dello Stato carne da macello. Nel documento inviato al CSM la vicenda Giammanco era solo un dettaglio di un più grande scenario.
Il fatto che il Capo di una Procura avesse chiesto l’appoggio “politico” dei suoi Sostituti poteva pure fare sorridere, visto che non di organo politico si trattava.
Nei Commissari del CSM si intuì l’effetto “eversivo” del contenuto del documento e si cercò di tenerlo fuori dal contesto.
Per questo motivo, durante tutta la mia audizione ne leggo parti integrali, proprio per scolpirne le semplici verità a verbale.
Questo mio tentativo fu stoppato dai membri laici della Commissione che cominciarono ad inveire assumendo che dicevo cose non vere.
Fu in quel preciso istante che compresi che l’audizione aveva solo una giustificazione formale e che quegli uomini non erano interessati alla nostra sorte…