Non usa mezze parole l’avvocato Fabio Trizzino, difensore dei figli del giudice Paolo Borsellino, nello stigmatizzare l’operato dei poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, imputati a Caltanissetta per il depistaggio messo in atto dopo la strage di Via D’Amelio.
Un’arringa, quella di Trizzino, cominciata con il ringraziamento alla Corte e in particolare al pm Stefano Luciani, che all’inizio della sua requisitoria ha ritenuto di chiedere scusa a tutte le parti civili presenti.
Parte da lì il primo affondo ai magistrati da parte del legale dei Borsellino, che nel rassicurare il dottor Stefano Luciani – ricordando che lo stesso ha dato un contributo fondamentale per almeno tredici anni nella ricostruzione di questi eventi così dolorosi – precisa che altri pubblici ministeri e giudici dovrebbero chiedere scusa per il confezionamento di quello che è stato definito nella sentenza del Borsellino quater come uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.
“Per quanto riguarda la dottoressa Palma il dottore Petralia, addirittura come imputati di reato connesso, e il dottor Di Matteo, noi diciamo che per quanto loro si possono credere assolti, noi riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti”.
In aula, per la prima volta presente ad un processo che riguarda la strage di Via D’Amelio, c’è Manfredi Borsellino, il figlio del giudice Paolo Borsellino.
Era presente anche all’udienza di due giorni prima, quando ascoltò le accuse mosse dall’avvocato Giuseppe Scozzola, di parte civile, ai tre poliziotti imputati.
Tre uomini che hanno indossato la sua stessa divisa, che avevano il dovere istituzionale di prodigarsi per cercare la verità e che invece sono oggi accusati per aver preso ad un disegno criminoso.
Al dolore di un figlio che ha perso il padre, si aggiunge la delusione, lo smarrimento di chi in questo Paese che ha perso la propria dignità, ancora si sforza di credere che possa esistere una speranza di giustizia.
Trizzino inanella uno dopo l’altro gli episodi che nella gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino furono funzionali a impedire artatamente che si facesse luce sulle stragi, ricostruendo come in una procura divisa in merito all’attendibilità del pentito, furono proprio i pubblici ministeri a sostenere la credibilità del “picciotto della Guadagna”, il piccolo delinquente che con minacce, pressioni e omissioni, avrebbe fatto condannare all’ergastolo degli innocenti, impedendo che venissero individuati i colpevoli della strage di Via D’Amelio e le vere motivazioni per le quali il giudice Borsellino doveva morire.
La ricostruzione dettagliata di quello che era la procura di Palermo diretta allora da Pietro Giammanco; l’inchiesta su mafia-appalti voluta prima da Giovanni Falcone, e che poi Borsellino avrebbe voluto proseguire con i Ros di Mario Mori e De Donno, archiviata in maniera assurda senza una motivazione.
Non manca la critica all’ex procuratore generale Roberto Scarpinato per come venne trattata quell’indagine la cui richiesta di archiviazione venne nascosta al giudice Borsellino.
L’avvocato Trizzino ripercorre la storia degli anni della procura di Giammanco, di quel covo di vipere di cui né Falcone né Borsellino si fidavano.
Un attacco durissimo a quello che fu la procura del tempo, e altrettanto duro
contro quegli uomini delle istituzioni che presero parte alle indagini sulle stragi, costruendo il colossale depistaggio portato in scena con Scarantino.
Per Trizzino, nulla di ciò che avvenne fu casuale.
Chi imbrogliò le carte lo fece consapevolmente obbedendo ad un piano criminoso che agevolava “Cosa nostra”.
I tre poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, per il legale dei Borsellino sono colpevoli, ma la loro sola colpevolezza non assolve quei magistrati che dovrebbero chiedere quantomeno scusa per come operarono.
L’accusa ai magistrati è rivolta ai pm Palma, Petralia e Di Matteo.
Il legale ne ricorda in aula le anomalie dei sopralluoghi, l’assenza di documentazione di attività d’indagine, le storture procedurali che certamente finirono, quantomeno, con il favorire il processo di depistaggio per il quale dinanzi i giudici rimangono a doverne rispondere i soli poliziotti.
Per la parte civile, tutti e tre i magistrati sono colpevoli, quantomeno moralmente, della costruzione del falso pentito Scarantino, voluta da La Barbera e i suoi uomini.
Tra i tanti episodi citati dall’avvocato Trizzino, la lettura di una testimonianza che gli ha gelato il sangue.
Il riferimento è a una riunione del ventidue aprile del 2009, quando sono convocate le tre procure distrettuali di Firenze, Palermo e Caltanissetta per decidere sulla concessione del programma di protezione a Gaspare Spatuzza
“Cosa dichiara il dottore Di Matteo a titolo personale? Dichiara che il dottor Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione, sia perché essa attribuirebbe alle dichiarazioni di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno… ce l’ avevano quelle di Scarantino… sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi ormai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione allo stato di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza… e qui c’è il massimo… potrebbe indurre l’ opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con le sentenze irrevocabili, sto parlando del Borsellino uno e bis, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe per tale ultima ragione gettare discredito sulle istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia.
Se la procura di Caltanissetta – prosegue Trizzino – non avesse portato quella messe di riscontri oggettivi alle dichiarazioni Spatuzza; se Spatuzza si fosse lasciato intimidire da questa posizione, noi oggi non saremmo qua… Presidente, io credo che ogni altro commento a queste dichiarazioni del dottor Antonio Di Matteo, è veramente superfluo”.
Le parole di Trizzino sono macigni, così come lo sguardo di Manfredi Borsellino che dovrebbe pesare sulle coscienze di quanti, per adesione a un progetto criminale o per altre ragioni che non trovano alcuna spiegazione logica, hanno scritto la più brutta pagina della giustizia italiana.
Sono parole dure che rendono superfluo ogni altro commento all’operato dei magistrati e dei poliziotti.
Ed è proprio ai poliziotti che l’avvocato Trizzino si rivolge dicendosi dispiaciuto che siano solo loro a pagare, invitandoli a dire tutta la verità.
Nell’aula rimangono ad aleggiare soltanto il dolore e lo sconcerto per una verità negata per trent’anni, per una giustizia negata, per uno Stato che ha perso la propria dignità.
Gian J. Morici