A denunciare i presunti reconditi motivi che hanno portato a silurare Marcello Viola (attuale procuratore generale di Firenze) nella nomina a procuratore di Roma, è Sabrina Pignedoli, attuale europarlamentare e giornalista antimafia che collabora con la Commissione Parlamentare Antimafia.
Una denuncia che non può assolutamente passare inosservata, vista la gravità di quanto riportato nel sito della parlamentare.
“Che a Roma dovesse andare un procuratore capo “pignatoniano” già lo sapevamo da qualche anno, prima ancora che Pignatone lasciasse quella poltrona. Non c’era bisogno di attendere una scontatissima votazione del Consiglio superiore della magistratura, un Csm sempre più incredibile che andava sciolto dal presidente della Repubblica come atto dovuto (si salvano solo alcuni membri)” – scrive la Pignedoli.
Che dietro la fuga di notizie del Palamaragate ci fosse un disegno ben preciso per “far fuori” (per fortuna metaforicamente) Viola dalla corsa alla procura di Roma, lo avevamo già scritto, ma nessuno si era spinto ad ipotizzare che l’obiettivo fosse quello di impedire che il nuovo procuratore potesse mettere mano a carte che dovevano rimanere segrete.
Secondo Sabrina Pignedoli era necessario dunque che l’erede di Pignatone fosse qualcuno gradito allo stesso e in grado di dare ampie garanzie di non andare a ficcare il naso dove non doveva.
Emblematica, in tal senso, è la frase intercettata nel corso di una conversazione con Luca Palamara, pronunciata dal pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm, che nel definire Marcello Viola come l’unico non ricattabile, affermava: “Voi mettete uno che rischia di essere ricattato come è stato ricattato Pignatone”.
Chi, dunque, poteva essere l’erede di Pignatone?
“Prima ci hanno provato direttamente con il discepolo Prestipino – scrive la Pignedoli – inventando sistemi di valutazione ad hoc, per dare una parvenza di giustificazione alla ‘volontà del Signore’.
Poi, quando tutta la giustizia amministrativa ha bocciato quella nomina, allora si è deciso di ripiegare sul caro amico di Pignatone, Francesco Lo Voi, che come procuratore capo di Palermo ha fornito ottime garanzie”.
Che l’attuale procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, fosse un “pignatoniano” di ferro è risaputo, ed è lo stesso Palamara nel corso della conversazione intercettata con Cosimo Ferri, il 28 maggio 2019, che dice: “E loro perché stanno a fa’ i patti per Lo Voi? Che faccio, mi metto a parlare di Lo Voi io?”
Fin qui un gioco di correnti, di poteri più o meno forti o occulti, ma nulla che faccia pensare a presunti altri gravi motivi come quelli che denuncia sul suo sito la parlamentare europea:
“Certamente a ricoprire il ruolo di procuratore capo di Roma non poteva andare Marcello Viola: purtroppo ha un brutto vizio quel magistrato, fa le indagini e le fa in maniera indipendente. Addirittura a Trapani ha osato indagare sulle logge massoniche e i loro collegamenti con le mafie: cattivo, cattivo, cattivo!!! Non adatto per una procura delicata come Roma, dove tra palazzi del potere, potentati economici, logge di vari colori e Vaticano bisogna sapersi giostrare con la ‘giusta’ cautela”.
Ancora più esplicito quest’ulteriore passaggio:
“Come dicevamo, a Roma non poteva andarci un procuratore capo che non piacesse a Pignatone e lo sapevamo già da diverso tempo. Come? Le intercettazioni di Palamara, naturalmente. L’ex magistrato, parlando con Giovanni Legnini del futuro procuratore capo di Roma, dice esplicitamente:
‘Perché hanno paura che se va un altro, mette le mani nelle carte e vede qualcosa che non va, non c’è altra spiegazione, come tipico di Pignatone, questo è il discorso, è successo con me, è successo con Cisterna, che devo di’, che Pignatone mi ha chiesto tutte le cose, parliamo di interferenze, tutte le cose di Roma. Eh, io l’ho fatto queste, io le devo di’ ste cose o no?’
Lo chiedo per l’ennesima volta – continua la Pignedoli – qualcuno vuole spiegarci questa frase? O dobbiamo pensare che effettivamente i segreti di quelle carte ora siano al sicuro?”
Parole e domande che pesano come macigni e che non possono, non devono, e non dovevano essere ignorate.
In qualsiasi paese civile, in qualsiasi paese democratico, il caso Palamara avrebbe suscitato un vero e proprio tsunami, obbligando il Presidente della Repubblica a sciogliere il Consiglio Superiore della Magistratura.
In qualsiasi paese civile, in qualsiasi paese democratico, il Parlamento avrebbe chiesto conto e ragione dei gravissimi fatti che hanno portato così tanto discredito alla Magistratura, in danno di tutti quei magistrati che quotidianamente svolgono con onestà, dignità e coraggio, quella professione che più volte ha visto cadere sotto il piombo di vile mano mafiosa i suoi migliori rappresentanti.
Trovato in Palamara il capro espiatorio, pronti a sacrificare qualche altro agnello che si raccomandava presso i componenti del Csm, abbiamo dimenticato altre nomine immeritate e assai discutibili? Abbiamo dimenticato chi si raccomandava con soggetti come Antonello Montante? E quale influenza poteva avere un qualsiasi Montante sul Csm? Su tutto questo, abbiamo preferito stendere un velo pietoso, dimenticando persino come il Consiglio Superiore della Magistratura abbia archiviato casi che andavano approfonditi e non soltanto da parte dell’organo di governo della magistratura.
Cosa aspetta il mondo politico a chiedere una commissione d’inchiesta, tanto più quando una denuncia del genere non parte da un qualunque quisque de populo, bensì da un europarlamentare, nonché giornalista con un notevole curriculum?
Gian J. Morici
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