Pandemia, elezioni presidente americano, crisi di governo, Palamaragate. Sarebbe sufficiente andare ancora un po’ indietro nel tempo, per rendersi conto di come il susseguirsi di news e la ricerca spasmodica del giornalismo di “stare sul pezzo”, faccia sì che l’attualità e l’attenzione a una notizia, duri meno della vita di una farfalla.
Così invece non è per quanto riguarda la giustizia, che, seppur senza raggiungere i record di longevità di taluni animali, come nel caso di Harriet (la tartaruga delle Galapagos morta di infarto all’età di 175 anni) tra indagini e processi, può far trascorrere decenni prima che si arrivi a una condanna o ad un’assoluzione.
Decenni di attesa, al termine dei quali spesso non avremo neppure la certezza di come siano andati realmente i fatti e di chi siano le responsabilità.
Non meravigliamoci dunque se a distanza di quasi trent’anni dalla strage di Via D’Amelio rimangono fitti misteri a coprirne la genesi.
Che Vincenzo Scarantino fosse un pentito inattendibile, lo avevano capito in molti già da tempo.
Lo aveva capito Ilda Boccassini, il magistrato che dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio volle essere trasferita a Caltanissetta, fin quando chiese di lasciare la procura nissena perché si era resa conto che Scarantino era assolutamente inattendibile.
Lo aveva compreso Roberto Saieva, all’epoca applicato a Caltanissetta, che con la Boccassini decise di mettere nero su bianco le impressioni da consegnare ai colleghi.
Lo aveva ben capito l’avvocato Rosalba Di Gregorio, la quale difendeva persone ingiustamente accusate da Scarantino.
Ma si sa, l’avvocato di un indagato o imputato che sia, è di parte. Di conseguenza la verità sta tutta nell’opposto di ciò che dice, che documenta, che prova.
Eppure, se già da allora ci si fosse attenuti a riscontri e prove, senza seguire i voli pindarici di cui a volte sono capaci anche i magistrati, non avremmo perso quasi trent’anni di tempo per arrivare a una conclusione che, grazie all’attuale procura di Caltanissetta, è ormai chiara a tutti: Scarantino fu un falso pentito, vi furono più collaboratori di giustizia che depistarono le indagini, ci furono gravi responsabilità da parte di figure istituzionali nella gestione dei pentiti e nell’attività di depistaggio!
Ma son trascorsi quasi trent’anni, e di quella strage, del giudice Paolo Borsellino, delle attività d’indagine che conduceva in quel momento, sembra che a parte i familiari del compianto giudice, e ad eccezione di quei magistrati che recentemente a Caltanissetta hanno fatto luce su taluni aspetti, agli altri non importi nulla.
Giovani e meno giovani (compreso i quarantenni), non hanno vissuto quegli anni. Per molti di loro Falcone e Borsellino sono due giudici che vengono ogni anno ricordati. Due giudici dei quali si parla durante le lezioni sulla legalità. Perché vennero uccisi? Qual era il contesto nel quale operavano? Di cosa s’interessavano? Che rapporti avevano con i colleghi?
Tutte domande alle quali pochissimi tra i più giovani azzardano delle risposte. Due stragi, e uno dei depistaggi più gravi della storia giudiziaria italiana, restano materia per pochi addetti ai lavori. In questo contesto, è facile comprendere come l’opinione pubblica venga condizionata da notizie talvolta travisate, da teorie complottiste che al giorno d’oggi rappresentano l’intingolo nel quale ognuno vuol intingere il proprio crostino di pane, desideroso di poter dire di aver capito quali sono gli ingredienti della succulenta pietanza.
La verità rimane al chiuso di poche mura. Tra quelle di coloro che la cercano, e tra quelle di coloro che la insabbiano.
A desiderarla, i familiari del compianto giudice Borsellino. Quei figli che troppo giovani hanno perso l’affetto del padre. Che hanno perso irrimediabilmente i momenti di gioia e di serenità di una famiglia.
Cosa sono Natale, un compleanno o una vacanza estiva, se non un momento in più per sentire l’acuirsi di una mancanza?
L’odierna intervista a Fiammetta Borsellino, pubblicata su “Il Riformista”, è l’urlo di dolore di una figlia che ha perso il padre. È l’urlo di rabbia di chi vuole conoscere la verità; di chi si è prodigato perché si facesse luce in merito al depistaggio sulla strage di Via D’Amelio.
Dolore, rabbia, domande senza risposta.
Come in un truccato effetto domino, le tessere cadono l’una dopo l’altra avvicinandosi alla verità, quando improvvisamente spunta una nuova tessera. Una falsa tessera incollata.
Ieri era Scarantino. Prima di lui forse un altro, un pentito che le stragi le favorì non facendo mai i nomi dei veri capomafia. Dopo di loro, ogni tessera porta un nome diverso, ma è fatta della stessa materia: menzogne e depistaggi.
Il gioco si ferma. Gli innocenti vengono processati e condannati. Finiscono in carcere. Passa il tempo, la tessera si scolla e il gioco lentamente riparte, con tante scuse a chi ha pagato per ciò che non aveva fatto.
Al contrario di ciò che accade in natura, fa più rumore una falsa tessera incollata che non mille tessere che cadono per avvicinarsi alla verità.
Rimangono l’assenza, la solitudine, il dolore, il pianto, la rabbia.
Rimane un’opinione pubblica imbalsamata, assente.
Grazie giornalisti, grazie a molti di voi per il lavoro che non fate. Grazie, grazie a quanti incollano tessere e nascondono la verità.
Intanto, da qualche parte, c’è chi asciuga le lacrime, ma non può mettere a tacere il dolore. In un altro posto, nel cuore della Sicilia, c’è chi legge nuovamente le carte, e si chiede il perché di tanti silenzi. Qual è il prezzo che dovrà pagare per avere osato avvicinarsi alla verità?
E io mi chiedo: Cosa avete fatto di male per essere nati, cresciuti, vissuti o morti in questa terra?
Questa è la Sicilia, la terra della leggenda della Fata Morgana. Quell’isola che ti fa vedere qualcosa dove non è. Che ci sia una Fata Morgana anche per la giustizia? Qual è la verità?
Eppure, la verità – o quantomeno la via per la verità – è facile. Ce la indica Giovanni Falcone: “Segui i soldi e troverai la mafia!” Quella stessa via che seguì Paolo Borsellino!
Gian J. Morici
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