Le elezioni americane più tormentate da quasi 150 anni non finiranno con la proclamazione di un nuovo presidente americano, che sia Trump o Joe Biden non importa, le ripercussioni ci saranno anche nel lungo termine. La sconfitta non riguarderà il singolo candidato ma l’intero popolo americano.
Biden ha certamente ottenuto il maggior consenso popolare su Trump, ma anche questo non basta per essere eletto presidente. Il sistema elettorale americano prevede infatti che a determinare chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca siano i grandi elettori conquistati per ogni singolo Stato, con un sistema che non premia la volontà popolare. Si può prendere milioni di voti in più dell’avversario ed essere sconfitti. Era accaduto anche nel 2016 quando Hillary Clinton, pur avendo ottenuto tre milioni di voti in più rispetto Donald Trump, perse le elezioni.
Ma Biden non ha soltanto ottenuto il maggior consenso popolare, ad oggi risulta in vantaggio pure con il numero di seggi conquistati definitivamente e in percentuale anche nei pochi Stati nei quali lo spoglio va avanti con la conta dei voti arrivati per posta, così come previsto dalle leggi americane. Un risultato che The Donald non vuole accettare, così come aveva promesso ancor prima del giorno delle elezioni.
La pioggia di ricorsi in ogni singolo Stato dove l’attuale presidente risulterà sconfitto, ha come unico scopo quello di arrivare alla Corte Suprema dove spera – grazie alla schiacciante maggioranza dei giudici repubblicani – di vedersi riconosciuta la vittoria, questa sì rubata. Un espediente che rischia di provocare disordini e violenze in tutto il Paese e di azzoppare l’operato del prossimo governo degli Stati Uniti con conseguenze che di riflesso riguarderebbero il mondo intero.
Persino buona parte dei suoi consiglieri ammettono la sconfitta e negano i brogli elettorali dei quali Trump accusa gli avversari. Lo scontro è infatti anche interno al partito repubblicano, accusato da The Donald di non supportare questa sua battaglia per come meriterebbe.
Tra le voci più autorevoli che invitano Trump a rispettare le leggi federali e statali perché non venga messa in discussione la democrazia negli Stati Uniti, anche quella di 19 procuratori che hanno servito il Paese sotto presidenti repubblicani, che hanno smontato le accuse di brogli elettorali definendole infondate. Nel corso delle interviste e delle conferenze stampa indette da Trump, più volte i giornalisti si sono visti costretti a togliergli la parola e a precisare che quanto affermato in quel momento dal presidente era assolutamente falso. La stessa cosa accade sui social network.
I precedenti sullo scontro giudiziario per la nomina del presidente non mancano. Accadde già nelle elezioni del 2000, quando Bush si vide assegnare dalla Corte Suprema degli Stati Uniti la vittoria su Gore, con una sentenza che fece molto discutere. Ma a memoria d’uomo, nessuno ha mai reagito in maniera tanto scomposta quanto Trump, a tal punto da indurre persino molti studi legali vicini ai repubblicani a non volerlo assistere in questa battaglia giudiziaria ritenuta pretestuosa e infondata.
The Donald appare sempre più come un bambino al quale si è rotto il giocattolo e strepita, stringe i pugni e batte i piedi per averne comprato uno nuovo. Nonostante sia sempre più isolato anche dai suoi alleati e consiglieri, sicuramente non accetterà la sconfitta.
L’unico precedente di una battaglia legale di analoghe dimensioni, risale alle elezioni presidenziali del 1876, quando dopo il processo post-elettorale la vittoria venne assegnata al Repubblicano Rutherford Hayes che sconfisse il democratico Samuel Tilden.
Anche in quella circostanza Tilden aveva superato Hayes nel voto popolare ma il mancato raggiungimento di 185 grandi elettori (oggi 270) da parte di nessuno dei due contendenti, diede luogo a un duro scontro giudiziario risoltosi con un compromesso: la carica di presidente ad Hayes ottenendo in contropartita il ritiro dell’esercito federale dal Sud. L’America fece un salto indietro. Infatti, la soluzione adottata bloccò la Ricostruzione che si poneva come obiettivo quello di mettere fine al nazionalismo confederato e allo schiavismo. Battaglie condotte dai Repubblicani e fortemente osteggiate dal Partito Democratico americano. Oggi la storia sembra capovolgersi. Quelli che erano i principi del partito Repubblicano, la trasformazione socio-economica fondata sul lavoro libero e il mettere fine al nazionalismo, non possono certamente essere ricondotti alla politica di Trump, falsa copia di quello che fu la politica degli Stati Confederati d’America, basata sul nazionalismo e favorevole al mantenimento dello schiavismo.
Se l’allora Partito Repubblicano fece grande l’America (dopo il superamento del compromesso raggiunto per la nomina di Hayes, e quindi con il ritorno a quella ricostruzione della quale Abramo Lincoln fu il precursore) il repubblicano Trump sembra incarnare quanto di peggio rappresentava la politica del Partito Democratico degli Stati confederati. Lo scontro tra Stati Uniti d’America (Repubblicani) e gli Stati Confederati d’America, diede luogo alla guerra di secessione americana e alla nascita di organizzazioni segrete razziste che promuovevano la superiorità della razza bianca. L’odio seminato a piene mani da The Donald, avvelenando anche questa campagna elettorale, darà certamente i suoi frutti su entrambi i fronti. Con gravi conseguenze per il mondo intero.
Gian J. Morici
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