Intervista di Gian J. Morici al Medicartista
– Tu entri sempre silenziosamente. Poi arrivi a conquistare tutto ciò che ti circonda. E lo fai con discrezione, con questo tipo di discrezione e umiltà che sembrano distinguerti.
– Ho l’impressione di cogliere una perfida ironia, nella tua domanda.
– Ma no, che vai pensando?
– E allora perché ridi?
– Per simpatia.
– In ogni caso proprio a me non capita spesso di sentirmi più di quanto sono. E quelle pochissime volte che mi capita, è perché sono vittima di un qualche mitomane. Scherzo, naturalmente. In effetti amo starmene in disparte, in silenzio, in maniera discreta. Hai detto bene. Malgrado le apparenze. E malgrado le tue ironie malcelate. C’è sempre qualcuno, chissà con quali intenzioni – magari perché non mi reputa all’altezza – che mi dice: “Ma come fai? Di sicuro hai dei Santi in Paradiso. E poi, più te ne stai in disparte, più sei al centro dell’attenzione”. È una caratteristica che non so spiegare. Quante volte ho sostituito qualcuno, all’ultimo momento, in uno spettacolo, in un film, in una manifestazione? Ma poi, chissà perché, prendo il proscenio. E qualcuno se ne risente, ovviamente. Anche se ultimamente, devo dire, sto cercando di promuovere la mia scrittura. Di pubblicare alcuni dei miei libri e persino di tradurli. In francese o in inglese, tanto per cominciare. Ma anche in tedesco. Credo che in queste lingue probabilmente i miei testi potrebbero esaltarsi. Confrontarmi in inglese con la lingua di Shakespeare sarebbe fantastico. Il francese poi lo avverto molto affine al mio essere. Dei nostri autori credo che Leonardo Sciascia godesse in francese di una grande reputazione. Così come Pirandello in Germania. E in effetti sì: sto sragionando. A proposito di mitomania? …
– Vedi? Ci sei arrivato da solo.
– Sono facilmente influenzabile.
– Cosa c’entra? Vorresti forse insinuare che ti sto manipolando?
– Se tanto mi dà tanto, dovrei essere io a manipolare te.
– Ah ah ah. Ma smettila. Chi ti credi di essere?
– Un mitomane.
– E un folle incosciente. Ma ti invito a riflettere, dài: facciamo i seri. Intanto, tu che tipo di scrittore sei, secondo te? Sempre che tu voglia restringerti in una definizione. Ma mi viene da dirti che in un’epoca come questa, i libri non sono molto attrattivi, a parte i soliti noti, un mercato saturo in un paese dove tutti scrivono e nessuno legge. Perché mai proprio tu, proprio tu, dovresti emergere? Hai forse scoperto una formula per il successo?
– Finalmente. Lo vedi? Già così mi piaci di più. Scusami se ti ho tacciato di ironia nei miei confronti. Sei proprio dannatamente sarcastico. Tu mi prendi per il culo. E non replicare, per favore, cercherò in ogni caso di darti una risposta congruente. Comincio con un bel: Non lo so. Intanto emergere non certo per il successo. Almeno credo. Il successo non è qualcosa che ho mai provato a raggiungere. Mi pare di avertelo già spiegato, qualche volta. Ma tenterò altre vie. Gli artisti somigliano molto ai folli. Ma un po’ più lucidi. Spesso la loro “stranezza” è scambiata per follia, poiché sono originali, e battono vie per lo più inesplorate dalla maggior parte. Gli artisti veri, intendo, quelli che facilitano la loro espressione senza scendere a compromessi con nessuno, senza leccare il culo al potente di turno per trarne vantaggi spiccioli. O forse sto proiettando soltanto la mia idea di artista. Abbastanza ingenua, se vuoi. Ma proprio per questo al riparo da riduttive definizioni. E dunque molto più libera e incontrollabile. Con tutto il rispetto. L’artista è il lato bello del folle. Ogni artista è un folle più o meno all’apparenza integrato. In realtà spesso è emarginato tanto quanto un folle. E in effetti, quello che sono e faccio somiglia molto a una follia benevola. Nel senso di una visione non facilmente definibile della vita. Comunque libera, fuori abbastanza dagli schemi. Anche perché io mi sento essenzialmente integrato. E per nulla giudicato male, come potrebbe succedere a un folle trattato psichiatricamente. Lo sono, ma nessuno lo sa. Ma è solo l’artista che supera ogni confine. E anzi, spesso vi soggiorna. E sa come farlo senza mai perdere il suo contatto con la Realtà. Comunque, nota che sto definendomi troppe volte artista. Ti dice nulla? Ecco, questo è il mio modo di essere incosciente: un medico che si definisce artista. In che senso? L’incoscienza di definirsi Medicartista. Ti dice niente? La possibilità di integrare la mia razionalità con la mia follia. Questo è. Mitomane … be’, tutti gli artisti sono un po’ mitomani. Costruiscono in continuazione mondi paralleli, fantasie in cui credono, alcuni si identificano così totalmente con la loro opera da rischiare di perdere il contatto con la realtà dentro cui sono normalmente inseriti. Ma se poi ci pensi, cos’è la realtà? Dài, non costringermi a darti risposte scontate, per favore. I benpensanti per lo più chiamano “delirio” questa identificazione dell’artista con la sua opera. Ed è proprio questo che lo porterebbe fuori dalla realtà. Ma la realtà a cui invece si riferiscono loro, cos’è? Non è un “delirio”? Molto peggio. Dato che l’opera dell’artista nasce dalla sua fantasia e lì rimane. Indipendentemente dal successo. Anzi: a riguardo devo precisare alcune cose. Intanto, te lo ripeto, il successo non mi riguarda. Ecco perché non ho alcuna formula per il successo. Anzi – giusto per parafrasare un noto drammaturgo tedesco del secolo scorso, tra l’altro tacciato di essere una spia della Stasi – un certo Heiner Muller – il successo è qualcosa che tiene lontano dalle persone, proprio perché lo riconoscono e lo integrano nel loro spazio mitico. L’espressione dell’artista viene relegata in questo modo alla dimensione puramente estetica, per cui il suo pensiero perde ogni efficacia. Sulle persone a cui tieni. Sul pubblico che ormai ti riconosce. Ma depotenziato. Non c’è cosa migliore per ridurre un artista al silenzio sterile che renderlo famoso. Questo non vuol dire che io non voglia esserlo. Ma non ad ogni costo. E semmai dovesse arrivare, penso di essere fortunato. Proprio perché, ormai, ho una certa età: non mi entusiasmo più come una volta. E altrettanto mi frustro molto di meno per un qualsiasi piccolo fallimento. Ho un giusto distacco, chiamiamolo così, che mi ha portato al raggiungimento di un certo equilibrio. Al massimo, per me, il successo potrebbe essere il godimento di qualcosa che ho costruito nel tempo. Come dire? Il raccolto di una lunga semina durata decenni. Un raccolto a cui ho sempre creduto, ma con la giusta distanza, senza enfasi, senza perderci la testa, senza trascurare cose molto più importanti: ognuno deve per forza avere i suoi valori, e difenderli, più della propria vita. Perché è proprio su questi valori che si fonda la tua stessa vita. Senza valori, la vita ha poco senso. Non ne sei padrone. Non vi decidi nulla. Non scegli. E il successo non è certo quel tipo di valore. Vuoi che te lo spieghi ulteriormente? Fattelo tu il film. Tra l’altro i miei valori potrebbero essere anche diversi dai tuoi. Il successo non è l’obiettivo a cui tendo. Confrontarmi con il maggior numero di persone possibili, questo sì, ma da una posizione di ascolto, non per imporre il mio pensiero. Confrontarmi, questa è la parola giusta. Raggiungere e farmi raggiungere. Questo è l’unico significato che riesco a dare al vero successo: qualcosa da condividere. Altre due parole su tutto: coprotagonista e corresponsabile. Altrimenti cosa resta? Solo un successo senza senso, vuoto e inutile, pericoloso, fuorviante, al servizio di una dominanza culturale che ti usa per creare consensi e agire sull’opinione pubblica, indirizzandola verso … cosa? Non so nemmeno questo. Essere artista in qualche modo mi preserva. È successo? Non mi pare. Ecco chi mi credo di essere. Capisci l’attinenza?
– Del tuo Il Medicartista: del corpo la cura e le parole, edito da Medinova, mi hanno colpito le tue considerazioni finali su Lisbona. E da questo scaturisce una domanda seria, importante e per nulla ironica: quanto pensi sia importante viaggiare? E soprattutto per perdersi? Quanti dei tuoi viaggi porti con te, dentro di te? Spero che tu percepisca la mia sincera curiosità.
– Ma certo, dài. Ci mancherebbe. Non sei così cinico. Ti riconosco una certa sensibilità. Anche se non è facile accorgersene. Però c’è. Diamo a Cesare … Ovvio che il Medicartista sono io. E sono contento che tu sia riuscito a capire molte cose di me. Ho sempre avuto a che fare con persone strane, di cui ho subito riconosciuto la sensibilità, e loro la mia. sai? Pazzi, handicappati, disagiati, tu … Questo è uno dei talenti del Medicartista. Che ha un’altra qualità speciale, per rimanere nel senso della tua domanda: ogni incontro per lui è un viaggio. Ogni persona che gli sta di fronte è un viaggio. Ogni persona che guarda e da cui è guardato è un viaggio. Il significato del viaggio, dunque, è l’incontro. E anche se a volte non lo ricordi, è ciò che ti nutre e ti dà le risorse per un altro viaggio successivo. Per un altro incontro successivo. In realtà, l’esperienza di Lisbona mi ha insegnato che il viaggio per me è più decisivo di ogni obiettivo che tale viaggio potrebbe farti raggiungere. E ci vuole una certa predisposizione per saperti mettere in viaggio in questo modo. Quella dell’esploratore. L’Altro è sempre una possibilità. Mi fermo con lui, che poi fermarsi sembra contraddire il viaggio stesso, che è movimento. Vita. Mi ci fermo sentendolo nella sua stessa esperienza vissuta. Solo così l’altro può diventare la risorsa più esclusiva che ho a disposizione. E poi perdersi. Cos’è perdersi, se non un viaggio verso sé stessi? O, se preferisci, una fuga verso sé stessi? Per dirla con Sartre. In questo senso perdermi è l’opportunità più grande che io abbia a disposizione per incontrarmi. Ti pare?
– Tu vivi in un luogo di frontiera. Anzi, voi siciliani sembrate nati per essere sempre la frontiera di molti altri.
– Ah già, che tu, invece … sei lombardo? ? Ti stai riferendo chiaramente a Capitani di Frontiera. Allora hai davvero letto i miei manoscritti. Incredibile. Comincio a stimarti. Bene. Sembra scontato dire che tutti i luoghi di frontiera sono vissuti da persone di frontiera. Ma solo pochi potrebbero essere considerati Capitani di Frontiera. Il che non vuol dire che non esserlo sia disdicevole. Tuttavia, un vero capitano di frontiera è proprio una persona che sa come starci, con tutte le sue contraddizioni, ma soprattutto accogliendo tutte le diversità che la frequentano. Stare sulla frontiera è esattamente quella qualità, che pochi hanno, di saper riconoscere in ogni cosa – in ogni persona, attività, relazione – l’ambivalenza del nostro essere, in cui una delle componenti spesso è schiacciata delle convinzioni dominanti, o relegata per questioni etiche, chiamiamole così, in ambiti normalmente poco accessibili: interiori, sociali, relazionali. E decidi tu quale parte esaltare e quale relegare. Intanto identità-diversità: quella delle singole persone, culturale, linguistica; regola-libertà, inclusione-esclusione, radice-sradicamento, accoglienza-rifiuto … e tanto altro. Ma se hai letto il libro non può sicuramente sfuggirti. Questo è un periodo storico ben preciso, di flussi migratori drammatici, di strane pandemie, del tentativo di poche oligarchie di tenere sotto scacco l’intera umanità imponendo le loro regole di mercato e ampliando a dismisura i sistemi di controllo sociale, per cui la gente svende la sua Libertà in cambio di un po’ di sicurezza e apparente tranquillità sociale. È proprio così: stiamo svendendo la nostra libertà al peggior offerente. E il Mediterraneo, in quest’ottica, è un luogo cruciale per varie ragioni. Innanzitutto geopolitiche. E la Sicilia ancor di più. Anche se di questo non se ne parla quasi mai. O soltanto in sordina. Subisce troppe influenze pesanti e contraddittorie, malgrado un’Autonomia solo apparentemente favorevole, ma che, come al solito, garantisce le classi dominanti, rendendola di fatto una Regione (Nazione) sottomessa a interessi non propriamente suoi. E malgrado la sua Cultura e la sua Storia, la Sicilia subisce scelte politiche ed economiche che tendono a lasciare in uno sfrontato e sfruttato sottosviluppo le regioni del Sud. E un certo atteggiamento familistico deviato nemmeno tanto travestito di rivalsa, permette il proliferare di comportamenti anti-sociali, che la maggior parte dei Siciliani accettano passivamente. Un Capitano di Frontiera ha il coraggio di entrare dentro questi “luoghi” di margine, sa farsi una sua idea personale, non mediata da niente e da nessuno, e sa trovare una dimensione che, prima di condannare, comprende e recupera. E per certi versi bonifica, semplicemente proponendo la sua Libertà interiore, e la sua Generosità, come modello di affrancamento. Anche se sa che questo affrancamento non possa realizzarsi a breve. Prima la schiera dei Capitani di Frontiera deve proprio ingrossarsi. Leonardo Sciascia ha parlato di Sicilia come metafora davvero rappresentativa del mondo odierno, con tutte le sue contraddizioni e le sue ottusità, la “linea della palma” ormai molto più a Nord, il Potere sempre altrove, la paura per il domani, il costringersi al vivere un presente che nemmeno nelle forme verbali esprime ormai un futuro. Accettando il suo ruolo di frontiera, la Sicilia si aprirebbe a ben altre prospettive di crescita ed evoluzione. Ho l’impressione che la maggior parte dei Siciliani sia pronta – per disposizione naturale, oltre che per cultura – ad accettare il ruolo di Capitano di Frontiera. Ma che questo processo sia volutamente ostacolato da coloro che ne detengono il controllo. E anche attraverso politiche demagogiche che non ci appartengono.
– Mi sento così triste. P. S. così solo a fiorire.
– Bravo, mi stupisci, una citazione tratta dal mio romanzo Rosa la sguattera. Una citazione da Joyce, in realtà. Che mi riguarda non poco. Soprattutto nella sua originale creatività. E nel suo essere isolano. Passa un nonsoché di sotterraneo, ma passa, tra l’Irlanda e la Sicilia. Nel loro viversi confine di luoghi poetici e letterari. E di essere comunque confine poetico e letterario. Di viversi l’isolanità non solo come solitudine, ma come esclusione. Che porta socialmente alla creazione di “altre” regole, e di “altre” libertà, generando di “regole” e “libertà” pericolose distorsioni. Chissà cos’è la felicità per uno che si vive, nel proprio essere isolano, come in una specie di condanna spirituale. Io in realtà commisuro il mio senso di libertà alla mia capacità di esprimermi. Che il mio essere isolano in realtà amplifica. E il mio stato d’animo di quando cominciavo a progettare Rosa la sguattera, ormai decenni fa, corrispondeva esattamente a una consapevolezza di tristezza, eppure di qualcosa che di me stava sbocciando, con una forza vitale e una energia così potente, e proprio sostenuta da questa tristezza. E quasi come una chiosa finale. È la chiave che ha aperto in me un mondo che tenevo custodito dentro uno spazio interiore di me che ancora oggi non ho del tutto esplorato. E tutto perché un giorno di molti anni fa entrai in una libreria, a Palermo, e senza nemmeno sapere perché, subito il mio sguardo fu attratto da un poderoso libro bianco. Mi avvicinai e lo presi. Lo aprii a caso. Sì: a caso! Mi sento così triste. P.S. Così solo a fiorire. Ne rimasi folgorato. Lessi solo dopo il titolo e l’autore: Ulysses, James Joyce. Naturalmente lo comparai. Ma non sono mai riuscito a leggerlo organicamente e cronologicamente per intero. Sempre con il metodo della bibliomanzia. E quante cose mi ha comunicato! Io non ho fatto altro che connettermi.
– Tu hai pubblicato con SCE-Palermo, di Nicola Macaione, Le ragioni del fuco. Ho notato che ne hai fatto una rielaborazione teatrale che hai inserito come preambolo, un antefatto di un più vasto e complesso progetto letterario, Il fuco non muore. Noir mediterraneo.
– E te ne esci così? Va bene. Non so se Nicola sarebbe disposto a pubblicarlo in questa forma. Ma poi perché no, eventualmente? È una storia di doppi. Anzi di multipli. Tutti i personaggi vi si muovono come una faccia diversa di qualcosa di comune. Tutte quelle parti che ognuno di noi ha dentro, e agiscono vistosamente interferendo con il nostro quotidiano, alterandolo, soprattutto nelle sue relazioni vitali. Ma di cui spesso non siamo consapevoli. Il Fuco non muore è un tentativo di appropriarmi di questa consapevolezza. E il mio interno più cupo, non so quanto reale, ma assomiglia a qualcosa di cui di solito non mi prendo cura. Ciò che agisce di me alimentando il mio sordido. Che poi è il sordido di ognuno. Ciò che permane di tutta la mia negatività, accumulata in forma di scorie. E di cui tento di liberarmi. Una sorta di svuotamento che mi permette di affrontare con l’adeguata distanza qualcosa che altrimenti rischierebbe di travolgermi, in un’oscura dipendenza dal rancore, dal senso di rivalsa, di riscatto sociale, di prevalenza. Sarebbe davvero una brutta esistenza.
– Giselda. Anatomia di una leggenda. Hai appreso questa storia tra le tante leggende che popolano il tuo territorio. C’è qualcosa in più, in questo manoscritto, che non negli altri.
– Probabilmente è la storia che mi riguarda di più. Credo che tu abbia intuito l’intimità profonda che mi fa muovere in questa scrittura. Ed è luogo intimo in cui cerco di comprendere il mio rapporto con i concetti di identità e appartenenza. Di cui Giselda è il mio prototipo. Questo lavoro nasce innanzitutto come drammaturgia musicale. Sentirsi parte, dunque: appartenere a una tradizione, a una famiglia, a una cultura, a un gruppo sociale, ti porta ad avere un’identità che ti rende riconoscibile, e ti propone al mondo secondo modalità tue proprie – sempre che tu l’accetti e l’accolga – ma fatto ancora più essenziale, ti permette di viverti come diversità nell’identità dell’Altro. Solo così la tua identità non diventerà mai una prigione. L’oppressione avviene nel non riconoscere l’identità dell’altro, probabilmente perché non si riconosce la propria. Riconoscere la propria identità e la propria origine, significa riconoscere l’identità e l’origine anche nell’altro. Giselda ha preso la maggior parte della mia scrittura. È l’unico mio lavoro che prendo sempre e rifaccio sempre. E non solo perché Giselda sono io. Ma ancora di più perché io sono cresciuto con lei e lei con me. Per ora non so chi di entrambi nutre l’altro. E non lo sapremo mai.
– Prima accennavi al tuo essere medico. Anzi: Medicartista.
– Sì. Medico viene dal latino. E nel latino antico il medico era colui che praticava l’Ars Medica, ecco perché io dico Medicartista. Che pone al centro della sua attività la Persona, prima che il corpo oggettivato; la sofferenza della persona, prima della malattia intesa in senso scientifico che potrebbe procurarla. Quindi, il Medicartista, nella nostra cultura mediterranea, greco-latina, è prima di tutto al Sevizio della Persona. Dunque la mia idea di medico riguarda il modo con cui mi prendo cura prima delle persone, e poi delle malattie che le affliggono. Una cultura affettuosamente umanistica, che però fa molta attenzione alle emergenze-urgenze, dentro cui è possibile comunque collocare una piccola percentuale tra coloro – più o meno il 15% – che hanno realmente bisogno di un intervento medico più propriamente clinico, con la diagnostica strumentale ed emo-chimica. E soprattutto con il suo formidabile armamentario farmacologico. Ciò che decide, tra l’altro, delle politiche sanitarie mondiali attuali. E che permette enormi guadagni a pochissimi sulla pelle di tutti. Ma questo è un altro discorso. L’altro 85% di persone che richiedono un intervento medico, ha bisogno innanzitutto di essere accolta, ascoltata, compresa, soprattutto utilizzando un linguaggio condiviso. È una dimensione più antropologica, laddove nel mondo occidentalizzato, civile ed evoluto sia ancora possibile riconoscere un’antropologia praticabile, e dove i massimi business sono l’Energia, le Armi e la Sanità nel suo lato farmaco. Appunto. È una medicina che non porta guadagni eclatanti, ma soltanto Benessere. Chi sarebbe disposto a investire sul mercato per una così strana Medicina? Ti ricordo che da noi la tradizione antropologica è molto sviluppata. Non a caso l’antropologia culturale, il folklore, è stato letteralmente realizzato da due medici siciliani: Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone-Marino. Il Medicartista è spinto anche dalla sua curiosità per l’altro. Ecco perché il suo sapere non è asservito, e la sua esperienza umana è ciò che più pervade le relazioni che instaura con le Persone che Incontra.
– Avrei un’ultima domanda, se permetti: come nasce Salvatore Nocera Bracco scrittore? A cosa o a chi, quando, dobbiamo dire grazie?
– Forse da bambino soffrivo di un disturbo specifico dell’apprendimento non ancora riconosciuto: prima che leggere sapevo scrivere. Quindi scrivevo. Avevo questo desiderio di riempire tutti i fogli bianchi dei miei quaderni. Questo mi ha dato un grande senso di pace. Più di questo, le storie di mia madre e dei miei nonni, hanno stimolato molto di più la mia voglia di scrivere. Forse anche perché ho scoperto altri mondi, dove amavo perdermi. Inseguendo la mia fantasia. Agevolandola. Scoprire il percorso per tornare, letteralmente, è stata un’altra grande esperienza, un’altra enorme esplorazione di me stesso. In quel senso scrivere è come perdersi. E perdersi, come abbiamo già detto, è Incontrarsi. – E io, se permetti, vorrei finire questa intervista con una formula che da un po’ di tempo mi accompagna come un mantra: Pace e creatività, per noi che ancora riusciamo ad esplorare il mondo con occhi ingenui e pieni dell’incanto di Dio.
– Senti, secondo me, da quello che hai detto, sei solo di nicchia. Chi vuoi che ti compri?
– Senti, lo sai che ti dico io, invece? Ma perché non te ne vai a …?
Mi piace ??? anche se sino sfacciatamente di parte