di Carlo Ruta
Fino alla metà del febbraio 2020 tutto appariva normale, in Italia, in Europa, in altri continenti. L’infezione da Covid 19 sembrava una delle tante epidemie destinate a rimanere in larga misura mimetiche e territorializzate, controllabili senza impieghi straordinari di risorse. Già nel gennaio inoltrato, quando la marcia di avvicinamento del virus verso l’Europa progrediva giorno dopo giorno, si avvertiva in realtà, in profondo, qualcosa di anomalo. Ma la prima reazione fu meno che blanda: di fatto inesistente. È mancata in realtà la capacità di un’analisi fredda di quanto stava avvenendo. Mentre l’infezione ghermiva l’Italia, che diventava il focolaio più propriamente pandemico mentre quello cinese veniva spento velocemente con un numero contenuto di morti, ogni paese, semplicemente, si è rinserrato nei propri confini. Si è annichilita ogni forma di solidarietà civile. L’Unione Europea ha toccato platealmente il fondo, al punto che ha dovuto ammetterlo, con le scuse ufficiali presentate agli italiani un mese e mezzo dopo, quando il Paese era nel pieno del disastro e l’intero continente era ormai infettato.
L’Europa più facoltosa, che svetta ogni anno nelle rilevazioni del Prodotto lordo mondiale, prima ha sottovalutato il fenomeno, poi, ghermita dal panico prima ancora che dal virus, è stata travolta da una curiosa paralisi. Nessun organismo di Stato, nel continente, è stato capace di far chiarezza, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità prendeva tempo, finendo per perderne tanto, di prezioso. Sono entrati invece in scena, a partire dall’Italia, dei comitati tecnico-scientifici, che, estranei per formazione alle culture giuridiche e dello Stato, hanno varato un «canone», anomalo sul piano metodologico e assolutistico di fatto, retto da un’idea base, quella di chiudere a prescindere, quanto più è possibile, senza un’analisi disaggregata e territoriale del fenomeno, con logiche bensì rigide, estremamente semplificate, in un quadro epidemiologico e sociale che si è manifestato invece in forme sempre più complesse e disomogenee.
Senza che si sia gridato sufficientemente allo scandalo, in Italia sono passate perciò in ultima fila e ammutolite, anche nelle province in cui il Covid 19 ha avuto un’incidenza modesta, tutte le altre emergenze sanitarie, che flagellano l’Italia in maniera endemica. Sono state abbattute economie fondamentali, che restano aperte invece in gran parte degli Stati che hanno adottato misure di isolamento sociale. Ciò è avvenuto con una uniformità piatta e priva di senso, dalla provincia di Bergamo che ha contato migliaia di morti a quella di Trapani che ne ha contati fino ad oggi appena 5. È stata sgretolata di fatto, senza alcun tentativo di differenziazione, l’industria dei beni culturali, riconosciuta in maniera unanime, anche da alti consessi sovranazionali, come la maggiore e la più stratificata della Terra.
Rivelando una significativa fragilità politica, il ceto di governo italiano, invece di assumere in maniera piena il controllo della situazione, con acutezza e con un richiamo forte alle leggi fondamentali dello Stato, si è assoggettato, in sostanza, alle semplificazioni di codesti comitati, con effetti che si annunciano sempre più deleteri, al cospetto di un’Europa che, come lasciano avvertire numerosi segnali, non rinuncerà facilmente, malgrado le parole e gli impegni presi, ai propri egoismi e alle proprie tradizioni egemoniche.
La situazione si fa in realtà sempre più preoccupante, ovunque. L’infezione pandemica, già gravissima in sé, sta mettendo in luce le debolezze, le tracotanze e le tentazioni che attraversano il mondo d’oggi. Alimenta i rischi di regressione, ponendo radicalmente in discussione quell’età dei diritti che veniva spiegata con meticolosità da Hans Kelsen e, in tempi più vicini, da Norberto Bobbio. Viene adoperata, in particolare, per sorreggere e tentare di legittimare progetti di tipo autoritario, come certifica un numero crescente di casi in questi mesi. È quello del presidente dell’Ungheria Victor Orbán che assume i pieni poteri per decreto e con il voto del Parlamento. È quello di un Brasile che rasenta il caos, dove masse scomposte inneggiano a Jair Bolsonaro esortandolo, in raduni improvvisati, all’assunzione dei pieni poteri. Ma è il caso anche della Polonia, dove la candidata delle opposizioni alla presidenza della Repubblica, Malgorzata Kidawa-Blonska, denuncia irregolarità importanti compiute dall’attuale presidente, Andrzej Duda, per radicalizzare la svolta autocratica già in atto. Sono i casi ancora del presidente delle Filippine Rodrigo Duerte che ordina alle forze armate di sparare a vista su chi viola la quarantena, e della Nigeria di Muhammadu Buhari, dove la Commissione nazionale dei diritti umani denuncia che, verso la metà di aprile, a fronte dei 12 morti causati dal Covid 19, l’esercito ha ucciso 18 persone per aver violato il «lockdown». Non serve proprio aggiungere altro.
Seppure su un piano differente, appare preoccupante poi quanto avviene nei sistemi più solidi e stabilizzati, perfino nell’America di Donald Trump, in cui vengono allo scoperto impulsi non propriamente in linea con i principi democratici e civili di George Washington e di Thomas Jefferson, per dire dei padri storici della Federazione. La prima risposta alla pandemia in arrivo, animata soprattutto dai certi popolari e medi della West Coast, è stata infatti un’originale corsa agli armamenti, con prese d’assalto delle armerie, per munirsi di fucili e armi automatiche, nella logica folle che anche il virus sia riconducibile ad entità nemiche e aliene, da cui difendersi.
La storia ammonisce che questo gorgoglio profondo può essere indice di passaggi traumatici. Il medievista olandese Johann Huizinga in un’opera del 1935, La crisi della civiltà, davvero presaga, denunciava, con lo sguardo all’Europa del tempo, un generale assopimento del raziocinio e il tramonto dello spirito critico, oltre che la decadenza delle norme morali e lo svilimento della scienza, malgrado le maggiori conoscenze consentite dall’istruzione diffusa, dalla radio, dai giornali e dal cinematografo. Era un allarme, lanciato quando l’Europa liberale interloquiva ancora, nonostante tutto, con l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. Lo storico olandese, schieratosi in difesa della libertà della conoscenza scientifica, avrebbe conosciuto poi, durante l’occupazione nazista, l’esperienza della prigionia, da cui, come un altro importante medievista, il francese Marc Block, uscì morto. E alcune curiose simmetrie tra quel crepuscolo della razionalità e il nostro tempo, pur nelle profonde differenze di contesto e di prospettiva, cominciano ad apparire a questo punto impressionanti, come testimonia soprattutto il caso italiano, che presenta aspetti davvero istruttivi.
Non è la vicenda di un paese uscito «mutilato» da una guerra rovinosa, come era allora, ma è quella di un’Italia politicamente indebolita, logorata da quasi tre decenni di disunione profonda, di interminabili scontri, che hanno cancellato non soltanto ideologie ma identità, culture, tradizioni, patrimoni intellettuali, progetti di lungo respiro. In questa voragine civile si è aperta quindi la terra di nessuno delle demagogie ad ampio spettro, delle chiusure iper-identitarie, dei personalismi, dei Saint-Just e dei Robespierre di professione, che fanno, in buona misura la vita politica di questi anni, senza che si riesca a porre a tutto ciò veri argini. Gli esiti, proprio attraverso il dramma della pandemia, appaiono ancor più evidenti.
Va consolidandosi, a ben vedere, un concetto dello Stato gelatinoso, per certi versi privatistico, che offende la tradizione di Sandro Pertini, di Piero Calamandrei, di Umberto Terracini, di Eugenio Curiel, di Benedetto Croce e di tutti coloro che si sono battuti per edificare e scrivere le leggi fondamentali della Repubblica. Altro che Resistenza. Altro che Liberazione. Altro che il 25 aprile festeggiato alcuni giorni fa, se al sistema dei diritti che ci ha accompagnato finora, anche quando abbiamo dissentito, da giovani temerari, si sostituisce la logica regressiva dello Stato paternalistico e «concedente», che esce fuori da ogni contesto di civiltà giuridica, mentre annichilisce principî base della Costituzione. Le grida, si badi, non arrivano solo dalla Confindustria. Provengono dal clero nazionale, dalla Corte Costituzionale della Repubblica, attraverso una chiara presa di posizione del presidente Marta Cartabia, da innumerevoli categorie sociali ed economiche, e perfino dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet. C’è altro ancora da aggiungere?
È questo l’ambiente che ha sedimentato codesti comitati tecnici e task-force, entro cui si è arrivati a concepire, provenienti forse dalla Germania, idee distopiche come quella, davvero delirante, di segregare a tempo indeterminato gli anziani, cioè milioni di persone, perché «fragili» e attaccabili dal virus, sulla base di logiche «protettive» che se applicate sarebbero di gran lunga più nefande delle leggi razziali introdotte in Italia nel 1937-38. Il solo congetturare qualcosa del genere è un attentato allo Stato di diritto, ma se un simile proposito diventasse legge sarebbe la fine di ogni civiltà giuridica, lungo un piano regressivo misurabile in millenni.
Gangli decisivi dei poteri nazionali, ormai è chiaro, sono finiti in mano ad un composto magmatico che, impostosi allo Stato di diritto attraverso i social e i talk show televisivi, sta causando un marasma. Sta collassando un mondo di garanzie, di risorse civili e di tradizioni produttive, mentre una furia iconoclasta, ancora attraverso i social, travolge la dignità del Paese. La strada che porta ad un declino inarrestabile, probabilmente, è stata già imboccata.
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