Cari amici, purtroppo, i numeri di oggi, 16 marzo, sebbene in leggero calo, ci dicono che tra due-tre giorni l’Italia supererà i morti della Cina, che pure registra un numero di contagiati di molto superiore. La percentuale dei morti nel Paese sul numero dei positivi rimane perciò quasi tre volte superiore a quella cinese e la più alta d’Europa, mentre l’infezione rimane galoppante. Dall’Anaao-Assomed, sindacato dei medici ospedalieri italiani, emerge che gli operatori sanitari contagiati sono già oltre 2.000, e questo rimane, appunto, uno dei segnali più preoccupanti: la storia delle pestilenze documenta infatti che ciò avviene nelle fasi più virulente del contagio, quando la situazione tende a finire fuori controllo.
Si sta facendo in realtà il possibile perché non sia questo il caso dell’Italia. In pochi giorni si stanno materializzando, dal nulla, interi reparti attrezzati di ospedali, e come nei più terribili stati di guerra, numerose imprese stanno riconvertendo, come nel caso, per citarne solo uno, della Grafica Veneta di Trebaseleghe, colosso del settore, che ha appena cominciato a produrre schermi protettivi facciali per le popolazioni. Già, perché è chiaro ormai che siamo in guerra, una guerra subdola, di cui occorre prendere atto per cercare di vincerla. Ma vincerla non è, in questo momento, impresa scontata, perché è mancata intanto una delle condizioni fondamentali: la coesione, operativa, civile e morale dell’Europa.
All’inizio è stato solo un errore di valutazione, un abbaglio plateale, di un mondo che credeva troppo nella propria invulnerabilità. Si riteneva che si trattasse di una infezione asiatica come altre, destinata ad essere assorbita senza danni sostanziali. Questo virus appariva «giallo», lontano, perfino esotico al microscopio. In realtà era solo l’inizio, perché il vero processo pandemico, il maggiore scatto in avanti diffusivo, è avvenuto in Europa, in Italia in primo luogo. Siamo davanti allora ad un morbo più propriamente europeo, «blu-stellato» in particolare, che in questo momento minaccia il mondo intero. Di certo, il caso della «Spagnola» del 1918 è stato differente, con i focolai originari quasi sicuramente occidentali. Ma la doppia partenza del coronavirus, dall’Asia e poi, molto più impulsivamente, dall’Europa, non costituisce una rarità. La Peste Nera del 1346-50, partì da Oriente, dalla regione del Mar Nero, ma fu la peste dell’Europa per antonomasia, la più estesa e micidiale, la più influente sui processi continentali. E qualcosa di analogo, seppure con più lentezza, avvenne con il colera del primo Ottocento, partito da regioni indiane ma destinato a mettere radici lungo vari decenni in gran parte dei paesi europei, molto più che in altri continenti, con esiti letali.
Davanti alla disillusione, alla fine delle certezze e delle facili retoriche, l’Europa avrebbe dovuto guardare le cose in faccia, reagire con senso di responsabilità. Invece va sfasciandosi, come in un ignominioso «8 settembre», mentre il presidente americano, se è vero quel che riportano alcune fonti, si adopera per ottenere l’esclusiva su un vaccino, ad uso degli States. Perfino l’Europa delle grandi economie, delle finanze, quella di Shenghen, appare tristemente in fuga, quando paesi come la Cina, il Venezuela, Israele, perfino la poverissima Cuba, stanno prodigandosi in una solidarietà attiva nei riguardi dell’Italia, con l’invio di medicine, operatori sanitari, materiali protettivi e altro. Non è facile prevedere il futuro, ma una cosa è certa: niente più, in questa Europa, potrà essere come prima, perché ogni alibi è crollato.
Verrà tempo allora, di ripensare ad un po’ di cose: al made in Italy, alla delocalizzazione all’incontrario, a identità aperte, a un concetto largo delle cittadinanze. Occorre riagganciare i temi portanti della socialità, del vivere civile e, con un impeto particolare, le ragioni profonde della solidarietà, che ha costituito una delle più grandi risorse della storia. Un esempio per tutti ci viene dal mondo tardo antico, quando l’Europa romana, invecchiata, disillusa, demotivata e proiettata ormai verso un’implosione catastrofica, finì con l’essere sostenuta, per paradosso, da quelli che a lungo aveva ritenuto i suoi nemici: i Franchi, i Visigoti, i Burgundi, i Vandali, gli Ostrogoti, cioè i cosiddetti «barbari», che non portarono nell’Occidente mediterraneo pestilenze e caos, ma, a ben vedere, un ethos incardinato appunto sulla solidarietà. Fu quel costume solidale a consentire loro di attraversare territori immensi in maniera coesa, senza disperdersi. Fu quel costume identitario e solidale che, coniugatosi poi con la cristianità sul campo, come quella benedettina, fece risorgere le città e creò il telaio degli Stati che avrebbero fatto poi l’Europa.
La storia, evidentemente, ha insegnato poco ai ceti dirigenti che stanno inscenando questo triste «8 settembre».
Carlo Ruta
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