Per quanto tempo ancora potremo continuare a scrivere e pubblicare notizie? Difficile dirlo vista l’aria che ormai tira in Italia. Se fino a qualche tempo fa il rischio per chi faceva informazione era quello di essere soggetto a minacce – magari di stampo mafioso – o a querele, anche temerarie, superato il momento in cui l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi provò ad imbavagliare la stampa con leggi liberticide e il monopolio dell’informazione, siamo arrivati alla fase più critica della gestione del dissenso e della censura dell’opinione.
Purtroppo, in talune circostanze, abbiamo visto anche appartenenti alle Forze dell’Ordine assoggettarsi ai voleri di un ministro, a prescindere se ciò potesse rappresentare reato o meno. Violazione della Costituzione certamente!
Sono lontani i tempi in cui anche le forze di polizia manifestavano “senza divisa, in mutande” e noi ne davamo notizia incuranti del fatto che al potere centrale potesse dar fastidio. Oggi, molti di quegli stessi manifestanti di ieri, plaudono alle forme censorie messe in atto da un ministro a cui Mosca chiede a di bloccare lo sciopero degli operai di un’azienda russa in Italia e lui obbedisce, non riflettendo sul fatto che domani, come ieri, anche loro potrebbero essere vittime dell’arroganza di chi vorrebbe reprimere con le maniere forti eventuali loro forme di protesta.
Del potere della magistratura se ne scrive ogni giorno, e siamo liberi di farlo, ma di quello che sembra una deriva autoritaria che prelude all’uso dei manganelli, quando ne vogliamo parlare?
Mandata a farsi benedire l’imparzialità dell’informazione e la mancanza di pluralismo, la dipendenza degli editori da potentati economici o politici darà il colpo di grazia a quello che rimane della già macilenta credibilità della stampa.
Un’informazione che non è libera, che informazione è?
Questo ne è un esempio (e fin quando ci saranno testate come TPI.IT, forse sarà ancora possibile informarne l’opinione pubblica):
“Vietato scrivere su Salvini”: così Belpietro ha cancellato il mio Bestiario su Panorama (di Giampaolo Pansa)
Il Bestiario di Pansa rinasce qui su un giornale online, creato da due ragazzi coraggiosi e molto capaci. Rinasce alla faccia di Matteo Salvini, il dittatore leghista, e di Maurizio Belpietro, il proprietario del quotidiano “La Verità” e del settimanale “Panorama”, il primo dei tifosi del Capitano. L’insegna del Bestiario l’avevamo ideata Claudio Rinaldi e io, una domenica mattina di molti anni fa. Era stata decisiva l’opinione di Claudio che dirigeva “Panorama”. Voleva un’insegna corta, fatta di una parola sola. Lui ne propose anche una in latino, dicendomi: “Lo posso fare perché sono un superlaureato all’Università Cattolica!”.
Nessuno di noi due avrebbe mai immaginato la morte violenta del Bestiario. Ucciso dall’ultimo proprietario del settimanale: Maurizio Belpietro. Giovedì 11 luglio 2019, poco dopo le nove del mattino, mi telefona e mi sorprende. Non mi cercava quasi mai, non l’aveva fatto neppure quando avevo lasciato il suo quotidiano, dopo aver letto un suo articolo di fondo che si concludeva con un lapidario “Forza, Salvini!” .
Il motivo della telefonata era sempre lo stesso: Salvini, anche adesso la passione di Belpietro per il Dittatore della Lega è rimasta intatta. Niente la scalfisce. A volte penso che, se mai il Capitano leghista fosse costretto a lasciare il mestiere della politica, Maurizio sarà l’ultimo ad abbandonarlo e sino alla fine griderà: “Forza Matteo!”.
Infatti Belpietro mi dice: “Giampaolo, tu scrivi troppo su Salvini. Ormai il tuo Bestiario è sempre dedicato a lui. Ogni volta lo critichi, lo accusi. Il ministro dell’Interno è diventato la tua ossessione. Non hai idea di quante lettere di protesta ricevo dai lettori di ‘Panorama’! Così non va bene, devi cambiare argomento e personaggio!”.
Gli replico: “Anche quello che tu stai facendo non va bene. Esiste un cardine della nostra professione, una regola che tutti accettiamo. La regola sostiene che l’editore non deve mai intervenire su quello che scrive un suo giornalista. Se non se la sente di condividerlo o di accettarlo, ha una sola strada: licenziarlo o impedirgli di scriverlo!”.
Lui mi risponde: “Giampaolo, non ho nessuna intenzione di licenziarti o di impedirti di scrivere per ‘Panorama’. Ma ti prego di non assalire di continuo il ministro dell’Interno che è anche il capo della Lega, il partito numero uno in Italia!”.
Ci lasciamo così. Sono sbalordito. In tanti anni di professione non mi era mai accaduto che un direttore-editore mi presentasse un ordine così tassativo. La mia prima reazione è di mandare al diavolo Belpietro e il suo “Panorama”. Non mi piace per niente la mossa contro di me. Fatta tra l’altro in assenza di Mauro Querci, il capo macchinista del settimanale, appena partito per le ferie: due settimane in Uganda. Mi sono subito chiesto se Querci sapesse delle intenzioni di Belpietro. Ho provato a cercarlo sul cellulare, ma non l’ho mai trovato: l’Uganda è molto lontana.
Ero infuriato. Soltanto mia moglie Adele, donna saggia, mi ha evitato di scrivere subito una lettera di dimissioni. Mi ha detto: “Giampa, aspetta. Stai a vedere che cosa succede e poi deciderai con calma!”. Ma che cosa poteva succedere? Non avevo più voglia di scrivere per Belpietro. Il suo “Panorama” mi sembrava una testata sempre più estranea a me. Comunque ho deciso di seguire il consiglio di Adele.
Ho ancora una annotazione. Avevo chiesto a Belpietro se avesse già dato una occhiata ai quotidiani appena usciti, zeppi di cronache sul Russiagate che coinvolgevano uomini molto vicini al capo della Lega. Ma lui mi ha risposto che non li aveva ancora letti.
A proposito delle lettere di protesta contro il Bestiario che Belpietro sosteneva di aver ricevuto, io non le ho mai viste. E lui non me le ha mai consegnate come avrebbe dovuto. E tanto meno si è offerto di farmele leggere. Esistono davvero? Mi viene in mente un vecchio adagio: a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia quasi mai.
Ritornando al giovedì 11 luglio, lì per lì non mi resi conto che la telefonata di Belpietro altro non era che un avviso di sfratto. Lavorando da molti decenni nei giornali, pensavo che nelle redazioni i rapporti personali fossero diretti. Se un giornalista non piaceva più al direttore o all’editore, l’interessato veniva informato in modo esplicito che la testata non aveva più bisogno di lui. E dunque si preparasse ad andarsene nelle forme decise dal contratto di lavoro, compresa la liquidazione, grande o piccola che fosse.
Ma nel mio caso c’era di mezzo un leader politico importante e sempre più autoritario il Salvini della Lega. Un big che poteva fare la voce grossa con il direttore-proprietario di “Panorama”. Dunque il mio allontanamento si sarebbe svolto con modalità molto anomale. Poi tutto si chiarì qualche giorno dopo.
La mattina di martedì 16 luglio ricevetti una seconda telefonata di Belpietro. Mi sembrava imbarazzato e quasi incapace di comunicami che dovevo smettere di mandargli il Bestiario. Non pronunciò neppure il nome della rubrica. Borbottò soltanto: “Che ne dici, Giampaolo, se lasciamo perdere questa storia e ci salutiamo?”. Compresi che mi stava licenziando. Ma rimasi tranquillo, anche perché tra noi due non esistevano problemi da risolvere. Non dovevo incassare nessuna liquidazione e dunque non esisteva nessun contenzioso da affrontare.
Rimaneva però una domanda: chi è stato a licenziarmi da “Panorama?” Maurizio Belpietro o Matteo Salvini? Ecco un enigma non difficile da risolvere.
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Nel mondo, quello civile, il ruolo dei media è quello del “Watchdog”, ossia di cane da guardia a cui viene chiesto di difendere la democrazia, vigilando sul potere ed informando l’opinione pubblica. In Italia, lo abbiamo trasformato in quello di “puppy love”, ossia di amabile cucciolo o, se preferite, di “cane da salotto”.
Non mi rimane che complimentarmi con Giulio Gambino, fondatore e direttore di TPI.it – con il quale le nostre strade si sono incrociate e del quale ho avuto modo di apprezzare l’impegno quando lavorava a “La Stampa” – per il coraggio di scelte che vanno controcorrente.
Gian J. Morici