(E un ricordo di Cossiga)
Le “scorte”, quei drappelli di Poliziotti o Carabinieri o Finanzieri che accompagnano determinati personaggi sono una necessità, una difesa da attentati che altrimenti si scatenerebbero contro la vita degli “scortati” o sono uno “status simbol”?
Ricordo che l’indimenticabile Franco De Cataldo raccontava he una sua nipotina parlando con un’amichetta vicina di casa, figlia o nipote di Berlinguer, era stata da questa apostrofata: “Tuo Zio è meno importante di mio Padre. Tuo Zio non ha mica la scorta! Mio Padre sì.” La cosa divertiva molto Franco che ne concludeva che, in fondo, quella bambina, o bambino, avesse capito meglio di tanti adulti la funzione delle scorte. Si trattava, allora, di scorte contro le “imprese” sciagurate delle Brigate Rosse.
Oggi, se si parla di scorte, si parla di mafia.
Il guaio era ed è che quei bravi giovani, seppure avessero ed abbiano un addestramento particolare per tali compiti, finivano e finiscono per dimenticarsene, per la monotonia del loro compito. Giudici, uomini politici, personaggi vari caduti sotto i colpi assassini di terroristi e mafiosi, lo sono stati malgrado le scorte. Tipico il caso di Aldo Moro, cui la scorta numerosa e fedele si lasciò sterminare senza opporre una minima azione di difesa dello “scortato”.
Certo chi debba essere scortato e chi no non è cosa facile da decidere. Non è facile “mettersi nei panni” di potenziali assassini.
Specialmente se, oltrechè l’azione, il ruolo, le iniziative del soggetto che si presume in pericolo che potrebbero indurre ad azioni delittuose assassini di certe organizzazioni, ma anche “cani sciolti”, solisti della violenza e dell’assassinio, si aggiunge la possibilità che gli assassini possano essere mossi da desiderio di vendette lungamente meditate.
In realtà la vendetta non è la molla che spinge le grandi, vere organizzazioni criminali a volere la morte di chi le abbia danneggiate, combattute nell’esercizio di funzioni pubbliche. E’ questo della vendetta un movente tipico di delitti contro persone dello stesso ambiente, “traditori”, testimoni che abbiano violato il “dovere” dell’omertà. Per questo è ridicolo il grido di dolore, levato da Ingroia contro il provvedimento che lo ha privato di quel “privilegio”. Che, nel suo caso si direbbe difficile definire altrimenti che così: un privilegio, una onorificenza, un “corteggio” dovuto per meriti veri o presunti.
Ingroia blatera che in oltre vent’anni di efficace (??) lavoro di magistrato antimafia ha accumulato odio e propositi di vendetta.
In realtà ha accumulato molte altre cose.
Tra cui molte velleità un po’ ridicole di voler governare l’Italia. Quel provvedimento della privazione della scorta deve essergli apparsa come la sanzione crudele del suo fallimento.
La scorta come “distinzione”, come “status simbol”, come si dice oggi, non è cosa solo dei nostri giorni. Nel suo memorabile “Viaggio elettorale” De Santics racconta il suo affaticarsi nell’andare dall’uno all’altro dei Comuni del Collegio in una Provincia, l’Irpinia in cui era stato “prodittatore” in nome e per conto di Garibaldi, mentre il suo avversario, candidato “governativo” “godeva” del privilegio della scorta di un Carabiniere a cavallo. Interferenza palese del Prefetto nella campagna elettorale!!!
D’altro canto bisogna dire che gli “scortati” o i pretendenti tali, se, magari, come ha fatto Ingroia, hanno subissato il Ministro dell’Interno di memoriali per illustrare, sulla parola dei pentiti, il pericolo in cui versano, se, come nel caso grottesco di Di Matteo (il più scortato personaggio d’Italia) le loro tifoserie gridano a squarciagola che la sola ipotesi di togliere la scorta o di ridurla sarebbe un concorso in assassinio, perché uccidere un cotanto personaggio sarebbe uno degli obiettivi primari della mafia (o, come per Saviano della Camorra), gli scortati non si comportano affatto come persone in pericolo. Che, più che la convenienza, avrebbero, come tali, il dovere di evitare di esporsi (e di esporre la vita dei loro “custodi”) al pericolo di eventuali azioni assassine o addirittura stragiste.
Tra le varie ragioni che mi inducono a ritenere Carlo Alberto Dalla Chiesa un personaggio assai meno efficiente ed affidabile di quanto non pretenda la leggenda “antimafia”, è quella rappresentata dal fatto che, invece, riteneva di potersi muovere in tutta sicurezza a Palermo come era abituato a fare a Torino al tempo delle B.R. esponendo la sua persona a Palermo, la sua “carica”, la vita della sua Consorte a ben altre situazioni di pericolo, con una sorta di inopportuna sfida alla mafia.
C’è invece chi, mentre fa e fa fare l’ira di Dio per avere la scorta più numerosa, la macchina blindata antibomba più efficace e sicura, poi scorrazza per l’Italia, a fare sfoggio, tra l’altro della scorta (ma non della macchina blindata, almeno credo!!) mettendo in pericolo, se in buona fede (cosa discutibile) non solo la propria vita e quella della scorta costretta a corrergli dietro, ma anche quella dei cittadini chiamati ad applaudirlo e dei Sindaci accorsi a consegnargli i brevetti di cittadinanza onoraria.
Ricordo Francesco Cossiga, un giorno che ci trovammo a Fiumicino in attesa di un volo in ritardo per Alghero, che, dovendo andare al gabinetto, fece uno strano scambio di segnali con uno che, poi, mi disse essere il suo caposcorta, che andò ad “ispezionare” il gabinetto e gli diede il “via libera”. Cossiga mi disse: “è penoso ed anche un po’ ridicolo dover fare queste manovre per poter andare a fare la pipì, ma se ti fai dare e ti danno la scorta hai pure il dovere di comportarti da diligente scortato”.
Non credo che Di Matteo, Ingroia, Saviano abbiano analoghi scrupoli quando debbono andare a fare la pipì.
Rivedere tutti i provvedimenti di attribuzione delle scorte. E’ cosa delicata. Dio guardi un pazzo aggredisca uno cui abbiano tolto la scorta si griderebbe al sacrilegio, alla complicità in assassinio etc. etc.
Ma nessuno si preoccupa di sapere se Di Matteo o Saviano, quando debbono andare a fare la pipì, si comportano con la rassegnata diligenza e senso del dovere di Francesco Cossiga.
Mauro Mellini