(ED IL 25 APRILE E’ DI DON CIOTTI)
Le manifestazioni di giubilo per l’invereconda sentenza nel processo, di per sé inverecondo, della cosiddetta “Trattativa”, sono una cartina di tornasole per la valutazione della più grave delle questioni che sono sul tappeto di questa infelice stagione della nostra Repubblica.
La foia eversiva dell’uso alternativo della giustizia (espressione che risale ai primordi di Magistratura Democratica e che oggi assume significato e prospettive di un golpismo in funzione e favore della dittatura della stessa magistratura) si è lasciata andare alle espressioni più folli, favorita dall’inerzia totale delle reazioni delle cosiddette forze politiche e delle istituzioni dello Stato, a cominciare dal Presidente della Repubblica, le cui qualità negative anche e forse, soprattutto per l’inerzia di fronte al golpismo giudiziario si stanno rivelando preoccupanti.
Abbiamo già scritto delle dichiarazioni (e della gaffe clamorosa) di quello che, erede di Ingroia (il furbacchione) si era appropriato del titolo di “Uomo simbolo” del processo della Trattativa. Di Matteo, manco a dirlo, continua.
Questi, in una trasmissione televisiva ha dichiarato che l’indagine ed il processo per la cosiddetta “Trattativa” non è che l’inizio. Ora, afferma il “Cittadino di Cento Città”, occorre dar mano alla ricerca della verità di tutta la nostra storia, svelandone i misteri.
Basterebbero queste parole per rendersi conto che Di Matteo, che vale la pena citare perché è tipico esemplare di una parte tutt’altro che trascurabile della magistratura, ha oramai assorbito fino in fondo il principio dell’uso alternativo, cioè, esplicitamente l’abuso, che è e deve essere reato, della giustizia. Che, non ha la funzione di sostituirsi alla storiografia e, magari agli studi misterici, ma di accertare e punire i reati che siano denunciati ed appaiano almeno probabili.
“Accertare la verità storica”, per imporre, poi il “giusto sviluppo” della storia stessa nel presente e nel futuro. Ecco la chiave del nuovo autoritarismo pangiurisdizionalista.
Intanto il giubilo del “Cittadino di Cento Città” e la sua prorompente valenza politica si estende e si manifesta nelle smodatezze anche di altri biechi personaggi del contorno “antimafioso” della scheggia impazzita Palermitana del P.d.M. Ma non solo a Palermo.
Sul palco della manifestazione del 25 aprile a Milano è salito, pensate un po’, Don Luigi Ciotti, il discusso prete della macchina amministrativo-giudiziaria del malloppo dei sequestri antimafia, del quale la più clamorosa e negativa, punta di iceberg è stata (ma è una tra le tante) il caso Saguto.
Don Ciotti ha parlato, rievocando la Liberazione, di che cosa? Della sentenza nel processo della “Trattativa”. Anche lui ha sete di verità. Da buon sacerdote dovrebbe averla trovata nei Vangeli e, magari, negli insegnamenti della Chiesa. Ma Don Ciotti è un prete moderno, ha i suoi vangeli e tra questi quello secondo San Ciancimino (Junior).
Dalla sentenza di Palermo, ha detto Don Ciotti, sono emerse solo “piccole verità”. Bisogna “andare avanti” scoprirne e, anzi senz’altro, crearne altre. Grandi.
C’è chi pretende di fare la storia in Tribunale. Don Ciotti rifà i Vangeli sul palco della celebrazione della Liberazione.
E qui mi fermo. Perché il 25 aprile è divenuto, malgrado tutto, malgrado la nostra passione e commozione, qualcosa, purtroppo, di falsificante. Ma questo è quanto non vorrei dire neanche a me stesso ed è comunque, lo spero, un’altra cosa.
Mauro Mellini