“In una conferenza stampa a Nuova Delhi, Henry Kissinger ha dichiarato che verrà a Roma e andrà a pranzo dal presidente Leone, ma non parlerà di politica perché quella italiana è, per lui, troppo difficile da capire. È la prima volta che Kissinger riconosce i limiti della propria intelligenza. Ma vogliamo rassicurarlo. A non capire la politica italiana ci sono anche cinquantacinque milioni di italiani, compresi coloro che la fanno.”
Mi sarebbe piaciuto saper sintetizzare così un mio pensiero su temi complessi, ma, purtroppo, lo scritto è del grande Indro Montanelli e non mio. Un’esposizione di ciò che era allora la politica italiana – e oggi ancor peggio – che mi ha indotto a una riflessione partendo da una domanda: ma chi amministra il diritto – che spesso il popolo italiano non capisce – lo comprende?
Capita spesso di sentir invocare la certezza della pena. Ne parliamo nei bar, ne discutiamo sui social, ne scriviamo sui giornali ogni qualvolta apprendiamo di misfatti rimasti impuniti a causa di cavilli giudiziari o per colpa di giudici che riteniamo incompetenti, se non peggio.
Più raramente leggiamo – di “certezza del diritto”, o meglio, dell’assoluta mancanza della stessa.
Ma senza la certezza del diritto, quale certezza della pena possiamo chiedere? Quale giustizia può esistere se non esiste il diritto o se lo stesso, comunque, non è un dato certo?
E qui, potremmo citare le centinaia di sentenze che dimostrerebbero come il diritto sia qualcosa che varia di luogo in luogo, da giudice a giudice.
Se il potere discrezionale di chi in Italia amministra la giustizia, in teoria è molto limitato, la sua applicazione reale, talvolta soltanto per assecondare qualche baldanzoso pubblico ministero, riserva non poche sorprese, con la conseguenza di un ingiusto esito processuale. Una giustizia criminale, nel caso in cui il risultato ingiusto sia stato determinato dalla malafede.
Nell’odierno sistema giudiziario un ruolo importante è quello svolto dai pubblici ministeri, la cui determinazione spesso sembra apparire inopinabile. Un numero interminabile di accuse per reati diversi, con la prospettiva che anche il riuscire a far portare avanti una sola accusa possa portare all’incriminazione, con enormi danni per quanti coinvolti, a prescindere dall’esito finale del procedimento.
Se un imputato ha sbagliato – ma a volte anche se è innocente – pagherà con la carcerazione le sue colpe. Ma un pubblico ministero che addebita in modo improprio, con accuse machiavelliche tali da sovvertire la stessa ratio legis, a quali conseguenze va incontro?
Le conseguenze negative per chi determina il destino di una persona, anche se al contempo finisce con il favorire gli eventuali veri colpevoli di un delitto, sono quasi, se non del tutto, inesistenti.
Prova ne siano i processi per le stragi di Capaci e di via D’Amelio, segnati da errori giudiziari che hanno impedito, a distanza di così tanti anni, di conoscere la verità. Sentenze scritte in piena autonomia e onestà intellettuale, ne siamo certi, ma che hanno comunque portato a condanne all’ergastolo di persone poi rivelatesi innocenti. E se di onestà di pensiero e di autonomia possiamo dire per i magistrati, altrettanto possiamo dirlo per quanti hanno contribuito a impedire che giustizia fosse fatta? No! Chi ha costruito tutto questo, lo ha fatto artatamente inducendo in errore chi doveva giudicare, mettendo così l’infame marchio del depistaggio a quello che altrimenti poteva essere un errore giudiziario.
Solo di recente, e dopo aver smascherato alcuni falsi pentiti, come Vincenzo Scarantino al quale si deve una delle più clamorose opere di depistaggio, si sta rimettendo tutto in discussione, nella speranza che si arrivi a una verità che sia tale. Ma nelle aule giudiziarie, più che un’aria nuova pare si respiri un’aria da resa dei conti che lascia intuire come dietro taluni grossolani errori possa in realtà celarsi una precisa volontà, quantomeno quella di non voler vedere tutto ciò che avrebbe messo in discussione la gestione dei cosiddetti “pentiti”.
E se gli anni di Falcone e Borsellino furono quelli di grandi magistrati che si trovarono a gestire un fenomeno del tutto nuovo, “il pentitismo dilagante”, non potendo contare neppure su un idoneo strumento legislativo, impegnandosi comunque in una ricerca della verità che talvolta li portava a rimettersi in discussione, gli anni successivi sembrano essere stati caratterizzati dal voler primeggiare, dalle carriere basate sul successo mediatico, da una giustizia che non più tale ha portato a un massiccio spostamento di potere verso i pubblici ministeri, dimentichi del fatto che la magistratura svolge un ruolo fondamentale nella salvaguardia dello stato di diritto e dell’accesso alla giustizia.
Ma possiamo ancora credere che il falso pentitismo fosse un fatto sconosciuto alla totalità dei magistrati? E se la figura di Scarantino era comunque stata ben costruita e gli si poteva dare un minimo, ma solo un minimo, di credibilità, pseudo pentiti come Vincenzo Calcara, che credibilità potevano avere? Come si è potuto per anni star dietro a un uomo che poco ci è mancato ci dicesse di aver assistito all’omicidio di Giulio Cesare o alla crocifissione di Gesù Cristo?
Come prender per buono quanto diceva uno che sosteneva di far parte della famiglia mafiosa di Castelvetrano, ma che si guardava bene dall’indicare in Matteo Messina Denaro come uomo di “cosa nostra”? Lui lo sconosceva…
Smentito da numerosi pentiti. Sbugiardato dagli stessi famigliari, è comunque riuscito a ingannare quanti hanno voluto credere alle sue parole, incuranti anche del fatto che le persone da lui accusate e con le quali diceva di essere stato in contatto quotidiano per anni, non fosse neppure in grado di riconoscerle trovandosele dinanzi.
Un sistema giudiziario il cui obiettivo finale è trovare la verità, non può fare a meno di un modello contraddittorio e di regole di evidenza che assistano il giudice nel determinare cosa è accaduto.
Già, cosa è accaduto?
Su questa figura, e su ciò che si è mosso dietro di lui, torneremo a scriverne, poiché è impensabile possa esistere un giusto processo in assenza di imparzialità e di chiarezza sull’allegra gestione di taluni soggetti.
In altri paesi, una persona che ha prestato falso giuramento, sia esso teste o collaboratore di giustizia, causando la carcerazione di un innocente, è soggetta alla condanna auna pena che non superi la pena massima prevista per il reato per il quale ha fatto condannare l’innocente.
In Italia, come scrisse lo stesso Calcara al suo avvocato, basta poco per prendere per fessi i giudici, basta un po’ di fantasia e al massimo si rischia l’accusa di calunnia. Questo scriveva il “non ancora pentito” mentre detenuto in Germania progettava di ricorrere a questo espediente per poter essere estradato in Italia. Eh sì, è duro il carcere in Germania…
Senza un sistema giudiziario imparziale e trasparente, viene meno la fiducia pubblica nelle istituzioni e la legittimità del ruolo giudicante che dovrebbe garantire i diritti fondamentali all’interno di una comunità.
E se in Italia è diventato così tanto di moda parlare di “servizi deviati”, lo stesso non può dirsi rispetto una funzione giudiziaria corrotta che in altre nazioni si ha il coraggio di definire “lobby giudiziaria” motivata da interessi e ideologie comuni a quanti ne fanno parte, e non come da noi, dove vengono rappresentati come rari eventi accidentali dovuti agli interessi del singolo giudice coinvolto.
Anche se i più recenti fatti accaduti nella nostra isola, sembrano dover mostrare il contenuto di un vaso di Pandora del quale, solo pochi mesi fa, nessuno avrebbe avuto il coraggio di parlare…
Gian J. Morici
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