Ci sono materie di studio nei corsi universitari che appaiono talvolta superflue e “ornamentali”. Poi, magari a distanza di decenni ti ritrovi ad evocare i rimasugli di ciò che hai dovuto apprendere per meglio comprendere l’incombente attualità di “questioni del mestiere”. Così trattando oggi il delicato e gravissimo problema dell’invasività della giurisdizione penale nell’ambito di altri poteri dello Stato, mi accade di richiamare alla memoria il detto di un giurista medievale, che, nella disputa tra Regalisti e Curialisti (i ghibellini ed i guelfi del diritto) scrisse: “Dominus Papa, ratione peccati, intromittit se de omnibus” (il Signor Papa, con la scusa del peccato si impiccia di tutto), tanto per usare un linguaggio alla buona.
Oggi “Intromittunt se de omnibus”, si impicciano di tutto, i P.M. ed i Giudici penali.
Perseguire i reati, veri o immaginari è la chiave per l’accesso all’esercizio, di fatto, del potere esecutivo e della stessa “politica”.
Quando, invece, secondo il fondamentale principio della divisione dei poteri, si imporrebbe una netta separazione tra il legislativo, l’esecutivo ed il giudiziario. Una separazione teorizzata due secoli e mezzo fa e realizzata faticosamente con la creazione dello Stato moderno e l’avvento delle libere istituzioni.
Assieme all’”intromittere se de omnibus” dei P.M. e dei Giudici Ordinari fiorisce uno strano fenomeno: quello di una “specializzazione”, non nelle funzioni, ma nell’abuso di quegli strumenti che la legge (in verità sempre più sgangherata al riguardo nelle sue “novità”) fornisce agli scalpitanti magistrati “ratione peccati” per perseguire i reati.
E poiché nella legislazione criminale ci si accosta sempre più alle tesi che, con una spolverata di retorica democratica e di argomentazioni sociologiche, sono pur sempre quelle della giustizia nazista (punire chi è capace e proclive a commettere un reato senza che debba proprio averlo commesso) lo sbandamento ed il debordare diventa invasione del potere esecutivo e della politica. Ma, abbandonando la “divisione dei poteri” sembra che le diverse istituzioni territoriali giudiziarie si “specializzino”, come dicevamo poc’anzi, nel tipo di utilizzazione distorta, oltre che nella stessa distorsione “dei mezzi giudiziari”.
A Milano la più “ovvia” delle forme e dell’abuso, quella della custodia cautelare e della revoca di essa al momento opportuno, creò con il sistema “ti arresto, tu fai i nomi di altri, io ti mando a casa ed arresto quegli altri” l’operazione di invasione nel campo politico operata dall’equipe di “Mani Pulite” che risultò la più colossale di tutti i tempi, addirittura con la fine della Prima Repubblica e l’avvento di un simulacro di Seconda.
C’è poi la “specializzazione” per “materia”: a Torino reati “ambientali”, a Potenza reati dei “VIP antipatici”.
Al momento direi che il culmine della “specializzazione”, quello nell’uso di certi articoli del codice, è raggiunto da Cosenza. Dove dei magistrati hanno scoperto le norme del codice di procedura penale che consentono l’interdizione temporanea da funzioni, cariche, professioni, etc.
L’uso che se ne fa a Cosenza può essere valutato quantitativamente (e, implicitamente, qualitativamente) in base a dati statistici.
Pare che a Cosenza si siano disposte più “interdizioni temporanee” (sempre però per il massimo, un anno) più che a Milano e a Roma.
L’accanimento nell’estendere l’uso della “sospensione” e del “divieto di esercizio” comporta necessariamente la caduta in errori che, magari, finiscono col sapere di grottesco.
Questa “affezione” per i provvedimenti interdittivi porta a concepire errori madornali per applicarli “sempre e dovunque”, secondo il motto che una volta era dell’arma di Artiglieria. Così a Cosenza, città primatista dell’uso di questa “arma” si è verificato ora un altro caso: il caso Scarpelli, un illustre medico sospeso dalla sua professione di specialista “neonatologo”, incriminato per essere stato direttore generale delle ASP di Calabria prima, però che questa deliberasse l’assunzione, ritenuta illegittima per difetto dei requisiti di gran numero di “precari”. Sospeso dalle funzioni, quelle, però del nuovo incarico di primario nella Azienda Sanitaria di Cosenza, che in quella vicenda dei precari aveva avuto solo parte nientemeno che per aver trasmesso le domande degli aspiranti a quella nomina. Qualcosa di assai poco diverso dalla parte avuta dall’Ufficio Postale.
C’è la tendenza ad interdire, più che una determinata funzione effettivamente connessa col reato la partecipazione alla vita sociale del soggetto. Una punizione anticipata della “capacità a delinquere”.
E, quando si profila l’applicazione di certi provvedimenti distorcibili in funzione della loro capacità invasiva, di altro potere pubblico, provvedimenti di cui i magistrati di una determinata sede sono ferventi “aficionados”, si tende a passar sopra quisquiglie come la competenza per territorio. Cosa avvenuta nel caso Scarpelli.
Tutto ciò non rappresenta che la grottesca conclusione della spinta, che ha origine in un atteggiamento culturale della magistratura che, minoritario negli anni sessanta-ottanta del secolo scorso quando veniva proclamato apertamente, oggi dà i suoi frutti velenosi non solo nella magistratura, ma anche in una ad essa succube attività legislativa.
Il fenomeno, accanto all’abbattimento della separazione dei poteri, importa un gravissimo scadimento della qualità della giustizia, cioè dell’esercizio del potere che, invece, è proprio e legittimo della magistratura stessa.
Un’analisi puntuale, coraggiosa e senza reticenza dei “casi” di giustizia ingiusta (penso all’impegno di Patrizio Rovelli per l’Osservatorio della giustizia e la banca dati sulle baggianate giudiziarie) è quindi attività che si traduce anche in difesa dei principi fondamentali dello Stato libero e democratico. E’ con tale attività di puntuale e, magari, puntiglioso studio ed analisi e di denunzia delle patologie giudiziarie che si fa seriamente la battaglia non solo per la Giustizia Giusta, ma per quella della difesa delle libere istituzioni nel loro globale ed inscindibile complesso. E che si distingue dalle vaghe predicazioni di certi profeti di sé stessi comodamente scambiati per innovatori, di nostra conoscenza ed esperienza.
Non diciamo altro che: continueremo finché avremo fiato e forza per farlo.
Mauro Mellini