A distanza di pochi giorni dalla notizia, diffusa dal giornale on line del Guru Antimafia (ché oramai, non credo si possa più considerare nemmeno organo ufficioso della Procura di Palermo tanto è evidente la “devianza” estremista) e del costituendo partito giudizial populista, della opposizione di Don Ciotti alla richiesta di archiviazione di un procedimento per “tentate o, almeno, concepite minacce” nei confronti di Totò Riina, intercettato in una conversazione con un altro detenuto nel Carcere di Opera, aveva espresso, in sostanza un augurio di morte violenta per il prete “antimafia”, è giunta quella della sentenza della Corte di Cassazione, I Penale, che ha accolto il ricorso dei difensori del vecchio (87 anni) ergastolano relativo all’impossibilità di sottoporlo, data l’età e le malattie, al regime carcerario.
Che quella sentenza la Corte ha ritenuto di dover annullare la decisione del Giudice di Sorveglianza che respingeva sbrigativamente la richiesta di sospensione della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare per le condizioni di salute, che sarebbero agli estremi, oltre che per l’età avanzatissima. La Cassazione ha affermato che a nessuno, quale che sia stato il suo ruolo criminale e la sua pericolosità, può essere negato almeno il diritto ad “una morte dignitosa”. Parole di alto valore morale ed umano, che ci ricordano che, di fronte almeno alla morte, la carità e la pietà debbono prevalere su ogni altra considerazione.
E’ impossibile non mettere a confronto i due diversi atteggiamenti: quello della Corte “laica” e quello del prete, arrampicato su una tesi giuridica impossibile, che gli consentirebbe di proclamarsi anche lui, al pari del P.M. di cui egli è dichiarato tifoso, “condannato a morte da Totò Riina”. Quindi assai più importante.
Ma non è solo questione di carità e di considerazione delle umane miserie.
La Cassazione non ha, ovviamente, deciso sul merito. Ma, se è ricorsa ad espressioni e giudizi come quelli riportati dalla stampa, è certo perché il Tribunale di Sorveglianza di Bologna (Riina credo sia detenuto a Parma) aveva preso in considerazione patologie del vecchio boss di entità e gravità estreme. Che già da tempo, devono essere state gravissime. Ed allora un’altra considerazione è d’obbligo: la “condanna a morte” che avrebbe reso circonfuso di luce antimafiosa il P.M. Di Matteo, tanto da autorizzare (si fa per dire) i suoi tifosi ad emettere ingiunzioni al Presidente della Repubblica perché “gli renda omaggio”, il ruolo di leader del giudizial populismo cui oramai apertamente sembra aspirare, le “cittadinanze onorarie” procurategli dai solerti Consiglieri Comunali “5 Stelle”, le allocuzioni alle scolaresche fatte venire da lontane regioni etc. etc. è null’altro che la rabbiosa espressione di un’insofferenza, non certo concepita dal solo Riina, ma da questi espressa nell’unico modo in cui, in anni per lui migliori, era capace di farlo. Certo alla vigilia del grande trapasso, indipendentemente dalla fede nell’al di là, sarebbe bene che tutti gli uomini fossero capaci d’altro che di coltivare certe visioni di violenza. Ma se è logico che dovrebbero essere i magistrati ad insegnare diversi sentimenti ai criminali, è penoso dover constatare che, invece, ci sono magistrati e, magari, anche i loro cappellani e padri spirituali (!!!) che impongono, pretendono un’inestinguibile attualità della capacità di farsi portatori di violenza e di morte, per potersi vantare del loro trionfo sulla barbarie.
Non riesco ad immaginare Don Ciotti che legge le sue brave pagine del Breviario Romano. Lo farà di certo. Aggiunga, ogni tanto, la lettura della sentenza della Cassazione. E cerchi di capirla.
Mauro Mellini