Anni di sceneggiate, di proteste, di polemiche. Di “bagni di folla” organizzati da registi versati nel sequestro di persone, tifoserie organizzate scatenate. Accuse allo Stato, ai “politici”. Un obiettivo semplice, anzi, complicato: Di Matteo deve andare alla Procura Nazionale Antimafia a Roma, però deve rimanere a Palermo, perché è “l’uomo simbolo del processo per la Trattativa”.
Deve vincere il concorso perché è “stato condannato a morte da Totò Riina”: l’hanno inteso le guardie carcerarie mentre ne parlava col primo detenuto che gli era venuto davanti. E il Presidente della Repubblica doveva andare a rendere omaggio a Di Matteo, condannato a morte dalla mafia. E tutte le Città Italiane a conferire a Di Matteo la cittadinanza onoraria. Uno così, il concorso deve vincerlo per forza, se no c’è di mezzo un qualche “altissimo personaggio istituzionale” (Napolitano, ora ex, etc.).
Allo stesso tempo il partecipante ad un concorso più piazzaiolo della storia d’Italia rassicurava: sì, devo vincere il concorso a Roma, perché a Palermo la mafia mi ha condannato a morte, ma da Palermo, cari miei tifosi, mica mi muovo: nessuno pensi che lascio il mio posto al Superprocesso del millennio, quello della Trattativa!
Fidenti nella capacità di ubiquità “Agende Rosse”, seguaci del Guru Bongiovanni, “Scorta Civica”, magistrati della “scheggia impazzita” del P.d.M., hanno tenuto duro per anni.
A marzo il C.S.M. è riuscito probabilmente a trovare qualche titolo che non fosse solo la condanna a morte secretata da Totò Riina “all’orecchio” della guardia carceraria ed ha proclamato Di Matteo tra i vincitori del concorso per la Procura Nazionale Antimafia a Roma.
Subito Di Matteo, dopo aver spiegato alla stampa che a farlo bocciare al concorso precedente era stato un “altissimo personaggio”, ha spiegato che rimaneva a Palermo per il processo del millennio che vede imputato lo Stato e per “altre indagini connesse”.
Ho scritto su queste pagine qualcosa per spiegare questa storia curiosa della ubiquità (o bilocazione, come spesso si legge nelle vite dei Santi). E, dato che la mia parola non bastava, è stato proposto a vari parlamentari di chiedere (interrogando secondo i regolamenti) il Ministro della Giustizia sul più clamoroso, bislacco, buffonesco concorso della Storia d’Italia. In vario modo si sono “squagliati tutti”. “Non stuzzicate i P.M. che si dilettano di manifestazioni in loro nome” pare che sia il criterio base del loro modo di affrontare i problemi della giustizia in questo povero nostro Paese.
Ieri è scoppiata la bomba. Non quella confezionata con il famoso “bidone” giunto a Palermo secondo un servizievole pentito, per supportare il concorrente Di Matteo. La bomba, per fortuna metaforica, è il provvedimento del Ministero della Giustizia (bravo Orlando o chi per lui!) che, mentre Di Matteo chiedeva di essere, una volta insediato alla P.N.A. di Roma, immediatamente applicato a Palermo, ha, ricorrendo all’espediente del “posticipato possesso” della nuova carica, semplicemente stabilito che rimanga per ora dove sta e che dell’agognato insediamento a Roma se ne riparli a fine anno. Sembra elementare buon senso.
Apriti cielo. Di Matteo ha subito levato la sua protesta per essergli stato negato di realizzare il suo progetto di “bilocazione”. Avrebbe voluto “fare la spola tra Roma e Palermo”, ma ancora una volta i “poteri occulti” l’hanno fottuto.
Protesta il giornale on line del Guru con la croce dipinta sulla fronte, Bongiovanni, (organo ufficioso della Procura di Palermo, secondo Ingroia). E protesta un buffo personaggio, Mattiello, deputato del P.D. della Commissione Antimafia che, almeno, confessa di non riuscire a capire che cosa sia successo.
Già, cosa è successo? Bilocazione evitata e semplicemente rimasto ancora Di Matteo dov’era, pare che sia sfumata l’indennità di trasferta che, vedete, un po’, sarebbe stata la “materia del contendere” per il P.M. palermitano, per i suoi fans di Palermo e per i Consiglieri Comunali Cinque Stelle delle cento città d’Italia che gli hanno fatto conferire la cittadinanza onoraria.
Ora Di Matteo ed i suoi ritirano fuori la questione della “condanna a morte” e del conseguente diritto oltre che di vincere il concorso, di andarsene effettivamente da Palermo. Cioè, no, di rimanervi, solo però “applicato”, in trasferta.
La mafia, che una volta non ammazzava mai magistrati e sbirri, pare che adesso non ammazzi quelli in trasferta. Anche questo lo avrà detto Totò Riina all’orecchio di qualche guardia carceraria.
Così si spiega tutto questo casino durato anni.
Mauro Mellini