L’Italia è il paese delle bandiere, quello nel quale o stai all’ombra di uno dei mostri sacri oppure il “bavaglio” è assicurato.
Sicuramente le associazioni e i personaggi che si battono per sensibilizzare su tali temi o per proporre soluzioni hanno i loro meriti che non vanno messi in discussione, ma è assurdo, se non ridicolo, pensare che siano i “blasonati” gli unici detentori di verità assolute.
Il panorama dei Totem è vasto. Li vediamo in tv, pronti ad intervenire su qualsiasi argomento, compreso quelli dei quali non hanno conoscenza; intervistati quotidianamente dalla stampa; sui manifesti di eventi che patrocinano, quando si tratta di associazioni.
A volte hanno grandi meriti e valore, altre volte sono soltanto uno dei tanti volti di un business che sfrutta le emozioni del momento. Utilizzano come testimonial dei loro eventi i nomi e i familiari di vittime di mafia dei quali conservano la “memoria”, salvo poi dimenticarsene una volta conclusa quella che spesso si rivela essere soltanto una sterile passerella.
E mentre i Totem sacri vengono venerati, quasi fossero in odor di santità, decine, se non centinaia, di piccoli uomini e donne svolgono nel più assoluto silenzio ed anonimato la loro opera di contrasto ai fenomeni mafiosi, correndone i rischi e impiegando tempo e risorse economiche per diffondere la cultura alla legalità.
Padri e madri di famiglia, impiegati, operai, piccoli imprenditori, professionisti, un piccolo esercito di persone motivate, che hanno molto da comunicare e che meritano il massimo rispetto e considerazione. Un rispetto conquistato sul campo con le loro storie personali, con il loro impegno sociale e a volte anche con il sangue che hanno versato direttamente loro o i loro familiari in nome di un impegno morale assunto verso la società civile.
I nomi di alcuni di loro, specie se dovessero subire le conseguenze delle loro scelte, i loro sacrifici e la loro storia, diventeranno il nuovo emblema di chi li utilizzerà ancora una volta per “ricordarli” e farsene vanto.
Ovviamente, lo stereotipo che l’antimafia rappresenti un vantaggio sociale per chi la sbandiera, se non addirittura soltanto un beneficio economico, sarebbe ingiusto nei riguardi delle tante persone e delle associazioni che non ricevono un solo centesimo di contributi e che si impegnano quotidianamente nelle loro attività senza velleità alcuna se non quella di poter contribuire adun cambiamento culturale che possa un giorno metter fine alle mafie.
La storia dell’informazione non é diversa da quella sopra descritta. In questo caso le medaglie da appuntarsi al petto sono rappresentate dai nomi dei giornalisti uccisi. Nomi che vengono ricordati dalle associazioni antimafia, ma anche dagli appartenenti alla categoria che non dimenticano mai nel corso di convegni, o altro genere di manifestazioni, di far parte – come mi disse un giornalista ad un convegno antimafia al quale ero invitato come relatore – alla categoria che in Sicilia ha pagato il più alto tributo di sangue; quanto, se non più, di quella dei magistrati.
Cosa c’è di vero in questa parole? Tolti i nomi di alcuni giornalisti che effettivamente fanno inchieste serie scrivendo di interessi di mafia e di come la stessa abbia permeato la società civile, il mondo politico, quello imprenditoriale e persino le istituzioni, per il resto la storia non è diversa da quella di quelle associazioni antimafia che per dar lustro alla propria storia che senza quei nomi sarebbe meno brillante, utilizzano i nomi di chi è morto innocente.
Senza per questo generalizzare, diceva bene il caporedattore di Giancarlo Siani, ucciso nel 1985 perché da “collaboratore senza titoli” investigava nel mondo della camorra, nel film ricostruzione “Fortàpasc, quando affermava: “Ci sono giornalisti impiegati e giornalisti giornalisti, l’Italia non è un Paese per giornalisti giornalisti”.
Nel buio dell’informazione siciliana, costantemente martoriata da buona parte dei media, quasi fossero de facto associati a soggetti legati ad ambienti oscuri, spiccano come piccoli fari i nomi di coloro che hanno pagato a caro prezzo il coraggio di fare informazione.
Giornalisti iscritti all’Ordine la cui attività professionale è stata intralciata dagli editori e che hanno trovato in alcuni “colleghi” i loro peggiori detrattori, ma anche giornalisti non iscritti o la cui iscrizione è stata postuma, quasi che in Sicilia per essere iscritti ci si debba prima far ammazzare.
Del resto, chi iscriverebbe mai – o come si potrebbe iscrivere – chi non ha padroni e non intende sottostare a quella legge dell’omertà che impone di non divulgare talune notizie, pena le minacce di querela e i vergognosi attacchi da parte di alcuni giornalisti il cui strabismo, fin troppo evidente, li porta a vedere il peluzzo inesistente negli occhi dei nemici e a non vedere il trave negli occhi degli amici?
Giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia:
Cosimo Cristina, ritrovato morto il 5 maggio del 1960. Corrispondente da Termini Imerese (PA) del quotidiano palermitano L’Ora. Collaboratore dell’Ansa, del Corriere della Sera e del Giorno, nonché fondatore e direttore, insieme al collega Giovanni Capuzzo, del periodico Prospettive Siciliane. Aveva condotto un’inchiesta giornalistica su alcuni delitti di mafia avvenuti nella zona. L’omicidio era stato archiviato dai magistrati come suicidio, fino a quando, anni dopo il questore Mangano riaprì le indagini sostenendo la tesi dell’omicidio di mafia. Era iscritto all’Odg.
Mauro De Mauro, sequestrato il 16 settembre del 1970. Giornalista d’inchiesta de L’Ora. Nel 2005 il tribunale di Palermo chiuse l’inchiesta attribuendo la scomparsa e l’omicidio di De Mauro al clan dei corleonesi. Il suo corpo non venne mai ritrovato. Era iscritto all’Odg.
Mario Francese, ucciso nel gennaio del 1979. Cronista giudiziario del Giornale di Sicilia, venne ucciso da Leoluca Bagarella. Francese aveva indagato a fondo sulla mafia e seguendo le vicende della ricostruzione del Belice dopo il terremoto del ’68 allargò il suo campo d’investigazioni sulle provincie di Trapani, Palermo e Agrigento. Avendo scoperto gli affari che portavano allo scontro interno a Cosa Nostra, legati costruzione della diga Garcia, pubblicò un’inchiesta in sei puntate dalla quale venivano fuori i nomi di collusi, a diversi livelli, le storie di corruttele legate alla realizzazione della diga e, per la prima volta, il nome di Totò Riina e delle società a lui collegate che presero parte alla gara d’appalto. Ucciso nel corso delle sue indagini sulla mafia, i proprietari del giornale misero in dubbio la matrice mafiosa del delitto, senza che ciò suscitasse reazioni da parte del mondo dell’informazione siciliana e da quei tanti colleghi e associazioni antimafia che oggi ne ricordano la figura. Mario Francese, era iscritto all’Odg.
Giuseppe Fava, ucciso a Catania il 5 gennaio 1984 Fu direttore responsabile del Giornale del Sud e fondatore de I Siciliani. Per il suo omicidio sono stati condannati alcuni appartenenti al clan mafioso dei Santapaola. Era regolarmente iscritto all’Odg. Del suo funerale viene ricordato come sindacato e l’Ordine dei giornalisti erano assenti.
Giornalisti uccisi dalla mafia, non iscritti all’Odg:
Giovanni Spampinato, ucciso il 27 ottobre 1972. Scriveva da Ragusa per L’Ora e per L’Unità e fu fondatore de “L’Opposizione di sinistra”, nato come “strumento di informazione, o di controinformazione, indispensabile dato l’assoluto, incontrastato monopolio a livello locale della stampa borghese mistificatrice, asservita a precisi interessi di classe e di gruppi di potere” [L’Opposizione di Sinistra, 1969 cit. in L. Mirone, Gli insabbiati]. Ad ucciderlo fu Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale di Ragusa, vicino ad ambienti neofascisti e coinvolto nell’omicidio di un antiquario, che si costituisce la stessa notte portando con sé la pistola con la quale aveva commesso l’omicidio. Giovanni Spampinato fu uno dei primi giornalisti a scoprire l’esistenza di “Gladio”, un intreccio che vedeva coinvolti servizi segreti di varie nazioni, estremisti di destra e collegamenti con ambienti mafiosi. Ad indagare sulla morte del giovane giornalista, anche Carlo Ruta, giornalista e saggista italiano che ha pubblicato “Morte a Ragusa”, passando al vaglio numerosi documenti sull’uccisione di Spampinato, al quale ha fatto seguito “Segreto di mafia. Il delitto Spampinato e i coni d’ombra di Cosa Nostra”. L’omicidio nasce da una notizia data in assoluta solitudine dal giornalista e pubblicata da “L’Ora” e “L’Unità” . l’Ansa, che pure l’aveva data con il titolo «Sotto torchio il figlio di un magistrato», riferito a Roberto Campria, coinvolto nell’omicidio dell’antiquario, l’aveva subito tolta. Giovanni Spampinato non era iscritto all’Odg. Il tesserino di pubblicista gli fu rilasciato dopo la morte.
Peppino Impastato, trovato morto il 9 maggio 1978. Da Radio Aut, una radio privata, attaccava il boss di Cinisi Gaetano Badalamenti, denunciando le collusioni tra mafia e politica. Fatto saltare in aria con l’esplosivo, lungo la linea ferrata che collega Palermo a Trapani, la sua morte, grazie anche ai tanti depistaggi da parte di apparati istituzionali e con la complicità, più o meno consapevole, di molti media siciliani, venne fatta passare come l’incidente occorso ad un terrorista rimasto vittima dell’attentato che stava perpetrando. Soltanto a distanza di tempo venne dichiarato che si era trattato di un omicidio di mafia. Impastato, diventato anche lui un simbolo dell’antimafia e del giornalismo d’inchiesta, viene oggi ricordato tanto dalle associazioni quanto dal mondo dell’informazione. Nel 1978, i rappresentanti del sindacato e quelli dell’Odg non presero parte ai funerali. Non avendolo tutelato da vivo, da morto divenne bersaglio di molti colleghi che lo dipinsero sulla stampa come un terrorista. Impastato non era iscritto all’Odg.
Mauro Rostagno, ucciso il 26 settembre del 1988. Fondatore di una comunità di recupero per tossicodipendenti, fu il direttore di RTC, una televisione privata di Trapani. Rostagno conduceva indagini giornalistiche su vari aspetti della vita quotidiana del paese e intrecci tra mafia e politica. Prima di essere ucciso stava battendo la pista di un viaggio di viaggi di Licio Gelli in Sicilia, dove, a Trapani, era stato ospitato dai boss mafiosi Mariano Agate e Natale L’Ala. Per anni il delitto fu coperto dal più fitto mistero, fino a quando il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori non ne indicò la pista mafiosa. La sua morte era stata decretata dai vertici delle famiglie mafiose del trapanese. Dichiarazioni confermate successivamente da altri pentiti e dai risultati di della perizia balistica su un’arma utilizzata per commettere omicidi di mafia. Ai suoi funerali non erano presenti rappresentanti dei sindacati di categoria né dell’Odg, visto che Mauro Rostagno non era regolarmente iscritto.
Beppe Alfano, ucciso nel gennaio del 1993. Corrispondente de La Sicilia, conduceva la trasmissione “Filo diretto” per l’emittente Telenews, dell’editore Antonio Mazza, ucciso pochi mesi dopo Alfano. Il giornalista indagava su affari che vedevano coinvolti uomini politici e mafiosi. Il giudice che indagava sul suo omicidio, trovò difficoltà persino a farsi consegnare dal giornale gli articoli scritti da Alfano e li ottenne solo dopo aver minacciato il ricorso a mezzi legali. Alfano non era iscritto all’Odg, iscrizione che ottenne soltanto dopo la sua morte.
Quattro non erano iscritti all’ordine. Qualcuno venne iscritto solo dopo essere stato ucciso. Eppure, associazioni antimafia, di categoria, colleghi ed editori, si gloriano oggi di questi otto nomi di giornalisti che in vita vennero abbandonati, isolati, denigrati e lasciati uccidere senza che nessuno muovesse un solo dito per scrivere una parola. Nei casi più vergognosi, il linciaggio e i depistaggi operati da taluni soggetti appartenenti al mondo del giornalismo e dell’editoria, continuarono anche dopo la morte di chi aveva coraggiosamente toccato quei temi che in terra di Sicilia sono come l’alta tensione. Ne tocchi i fili e muori!
Cosa è cambiato da quei delitti ai nostri giorni? A livello nazionale c’è sicuramente una maggiore attenzione e una maggiore tutela nei riguardi di chi è esposto. Quello che non si dice e non si scrive a livello locale viene seguito da giornalisti, associazioni di categoria e dallo stesso Ordine a livello nazionale. Difficile che qualcuno domani possa dire “non lo sapevamo”. A livello regionale è cambiato ben poco. Al bavaglio delle leggi sulla libertà di stampa, si aggiunge quello posto dagli interessi personali degli editori. E a livello locale? Non è cambiato nulla! Bravi giornalisti, e ce ne sono, costretti a passare sotto le cesoie di redattori che devono rendere conto agli editori e che finiscono con il fare a pezzi il pezzo (perdonatemi il gioco di parole), affinchè esca, se proprio si deve, il minimo indispensabile per dire che si fa informazione.
Chi invece è apparentemente libero di scrivere, o forse proprio perché in realtà lo è, non soltanto si auto imbavaglia, ma si diletta a colpire chiunque non sia soggetto a controlli da parte di poteri forti e, pertanto, rappresenta il nemico da abbattere. Fortunatamente, almeno fino a questo momento, i killer delle parole non sono passati all’uso di armi ben più micidiali. Cosa aspettarsi? Staremo a vedere…
Sull’argomento, torneremo a breve con l’intervista ad un Giudice fautore di una legge che taglia la testa alla collusione mafia-politica. Una storia che dovrebbe campeggiare quotidianamente sulle prime pagine dei giornali. L’avete mai letta?
Gian J. Morici