Fin dall’inizio di questa guerra l’incubo al quale si sono voluti sottrarre i governanti occidentali è sempre stato quello dell’invio di truppe di terra in Iraq e Siria. Un’azione militare su terreno per i paesi della coalizione guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico significa subire perdite in termini di vite umane e dovere affrontare un’opinione pubblica contraria all’intervento.
Lo stesso Obama, diventato ormai l’emblema dell’indecisionismo, ha sempre scartato questa ipotesi lasciando ai raid aerei il compito di fermare l’avanzata delle milizie islamiche.
Nonostante gli attacchi aerei da parte della coalizione internazionale che hanno colpito le postazioni di artiglieria e altri obiettivi dell’ISIS, i jihadisti hanno preso un villaggio dopo l’altro fino ad arrivare al controllo di posizioni strategiche in prossimità delle città da catturare.
L’enorme quantità di video e immagini messe in rete dagli stessi jihadisti mostrano le loro tecniche di combattimento che finiscono con il rendere vani i raid aerei che possono al massimo colpire postazioni di artiglieria e mezzi dello Stato Islamico ma che non sortiscono nessun effetto tangibile sui Mujahideen divisi in squadre composte da 10/15 unità che avanzano da più direzioni contemporaneamentee agiscono in piena autonomia nella gestione della battaglia.
Questo garantisce loro la flessibilità e la velocità di reazione, rendendo difficile all’aviazione il poter colpire bersagli tanto ridotti e mobili. I carri armati, dei quali l’ISIS dispone, sono per lo più stati utilizzati come esca per rilevare la concentrazione di truppe nemiche che con armi leggere ne tentano l’attacco, con il risultato di essere facilmente individuate ed eliminate dai Mujahideen.
Una strategia che è apparsa chiara nell’attacco da parte dei fondamentalisti alla città siriana di Kobane, dove la popolazione curda ha contrastato allo fino stremo l’assalto jihadista fino ad arrivare ai combattimenti in strada, casa per casa. I raid aerei si sono rivelati inutili contro l’offensiva di un esercito che agisce come piccoli branchi di lupi, ben armati, dotati di visori notturni e pronti a colpire ed allontanarsi velocemente fin quando, dopo aver minato la resistenza degli assediati, ha trasformato i quartieri cittadini in un campo di battaglia.
Kobane non è soltanto una città curda ai confini della Turchia da dove è possibile controllare 180 chilometri di frontiera. Kobane è un luogo simbolo della coscienza nazionale curda nel contesto del perseguimento del consenso curdo su un supporto unificato per affrontare le tribù arabe agli inizi del secolo scorso ed è in questo che va individuata l’importanza della città per lo Stato Islamico che mira a colpire il progetto nazionale curdo, così come il progetto nazionale arabo.
È proprio la differenza progettuale quello che rende più pericoloso lo Stato Islamico rispetto le altre organizzazioni terroristiche che abbiamo conosciuto finora. L’IS è in grado di pianificare e mettere in atto le strategie di un vero esercito, aggiungendo alle stesse quelle delle formazioni terroristiche in grado di colpire obiettivi molto distanti dagli scenari di guerra, minando la sicurezza dell’intero occidente.
Un aspetto che abbiamo approfondito con Antonella Colonna Vilasi, scrittrice, giornalista e docente italiana, prima autrice europea ad aver pubblicato una trilogia sui temi dell’intelligence, professore universitario in Svizzera, che sull’intelligence tiene conferenze e lezioni in varie agenzie ed università (Tirana, Parigi, Madrid, Londra, New York, Malta, Atene, Bucarest, Il Cairo, Beirut).
“Gli jihadisti sunniti dello Stato Islamico o IS – afferma la colonna Vilasi – sono una sigla di successo del terrorismo islamico internazionale. L’IS è appoggiato da al Qaeda (nel Maghreb Islamico del Nord Africa e nella Penisola Arabica), ed ha il sostegno dei talebani pakistani, importante passo in avanti per la jihad globale e per la creazione di un Califfato Islamico con una gittata geopolitica che superi i territori della Siria e dell’ Iraq. Al Baghdadi si è rafforzato con il supporto delle tribù di Al Anbar, che precedentemente avevano combattuto contro Al Qaeda. L’intelligence Usa ha sottovalutato la volontà dell’IS di combattere. I segnali che lo Stato islamico stava guadagnando forza erano già emersi quando i funzionari dell’Intelligence statunitense avevano espresso allarme anche pubblicamente. A differenza di AQ che è un’organizzazione terroristica jihadista che non ha conquistato sinora territori, l’obiettivo dell’IS è quello di creare un ‘Califfato’. L’idea progettuale alla quale ha dato voce la macchina propagandistica dell’IS che ha l’obiettivo di terrorizzare e diffondere la potenza dell’offensiva contro l’Occidente, ha portato giovani europei di seconda o terza generazione che abbracciano il radicalismo islamico a trasformarsi in guerrieri di una jihad militante, con tutti gli interrogativi sulla sicurezza una volta che ritornano dalla guerra, nei rispettivi paesi europei. Secondo le stime dell’Unione Europea più di 3000 cittadini europei sono partiti per unirsi ai combattenti in Siria ed Irak. Una polveriera che ha portato Papa Francesco a intervenire con decisione ed ad affermare che siamo nella Terza Guerra mondiale. A rendere ancora più efficiente e pericolosa la macchina jihadista, la rete di intelligence dell’IS che è ampia e diffusa e gode di molti consensi, con penetrazioni ed infiltrazioni anche nelle strutture di intelligence occidentali. Secondo una visione ‘complottista’, l’IS è stato agevolato e manovrato dai servizi dei vari Paesi coinvolti. Il militare algerino in pensione ed esperto di lotta antiterrorista Ali Zaoui ipotizza dietro il rapimento e l’esecuzione del cittadino francese Pierre Gourdel i servizi segreti francesi, con la finalità di coinvolgere l’Algeria nella coalizione contro l’IS. Secondo un’altra scuola di pensiero – conclude la Colonna Vilasi – le colpe vanno addossate alla politica di Bush JR: a causa delle molte atrocità perpetrate dalla coalizione a guida americana durante la guerra in Iraq, la società irachena è stato terreno fertile per la predicazione di Al Baghdadi e dei suoi seguaci sunniti, emarginati dall’establishment sciita al potere”.
Il timore di scatenare una guerra di terreno che avrebbe causato molte vittime tra le forze alleate, ha finora favorito la crescita dello Stato Islamico e il consolidamento delle posizioni conquistate, permettendo a quello che era un gruppo terroristico, ritenuto meno pericoloso di al-Qaeda, di trasformarsi in un esercito.
È di ieri l’allarme di Erdogan, il premier turco, secondo il quale l’ISIS non può essere fermato se non con un attacco di terra. Un allarme ribadito anche da Staffan de Mistura, inviato dell’Onu in Siria, secondo il quale la comunità internazionale deve ‘agire subito’ per difendere Kobane sul punto di cadere nelle mani dell’ISIS.
Un’azione che è stata finora rimandata per timore delle perdite causate da un conflitto di terra e da quello di attentati da parte di jihadisti presenti nei nostri paesi, che ci costringe ora ad affrontare truppe ben organizzate e confrontarci oltre che con il terrorismo islamico in casa nostra anche con le reazioni e le proteste dei curdi che si son visti massacrare nell’assordante silenzio della comunità internazionale.
Gian J. Morici