Il “nuovo Egitto” nato dalla Primavera Araba da molti considerata come la panacea del mondo islamico, ritorna ad ospitare la violenza più feroce, senza esclusione di colpi. L’inizio di una vera e propria guerra civile fra quanti si oppongono al ritorno di Mohammed Mursi, il primo Presidente egiziano eletto e quelli che sostenitori del Presidente islamista, pronti lottare fino alla morte.
L’Esercito da sempre fedele al deposto Presidente Mubarak e vicino agli Stati Uniti dai quali riceve sostanziosi aiuti economici, ha ripreso il potere e, notizia dell’ultima ora, sono stati derubricati i reati più gravi attribuiti al deposto Presidente al quale sono stati concessi gli arresti domiciliari.
Il fanatismo religioso dell’estremismo religioso si riaffaccia per le vie del Cairo ed a differenza di due anni orsono dilaga nel deserto agevolato dalla presenza di tribù di beduini attestati nel Sinai e vicine ad Al Qaeda.
La situazione non lascia presagire nulla di buono e va ad intaccare il ruolo di stabilizzazione che l’Egitto ha sempre rappresentato fin dal 1973. Un centro di gravità intorno al quale negli anni si sono concentrati gli equilibri dell’area islamica moderata portando agli accordi di Camp David ed alla smilitarizzazione del Sinai a vantaggio dell’esistenza stessa di Israele.
La situazione attuale è sempre meno chiara e minacciata dalla volontà dei militari di mettere fuori legge i Fratelli Mussulmani. Un errore irreversibile se ciò avvenisse con conseguenze gravi per la stabilità dell’intera area e con ripercussioni negative in tutto il mondo islamico, africano ed asiatico.
Per ora, l’Occidente come sua abitudine si limita osservare . Gli USA non si sbilanciano, solo moderati accenni ad un’immediata riduzione degli aiuti militari dimenticando che a Leopolis vicino all’aeroporto internazionale del Cairo, l’Egitto gestisce una delle più attrezzate e moderne fabbriche di munizionamento ed armamento da cui attingono anche Paesi soggetti ad embargo delle Nazioni Unite.
L’Europa conferma la sua struttura di holding economica piuttosto che di Unione di Stati. Riconferma il proprio approccio esasperatamente burocratico limitandosi a gestire improvvise ed altrettanto improduttive riunioni dei propri Ministri degli Esteri, senza concretizzare iniziative efficaci ma limitandosi di preannunciare il taglio degli aiuti economici.
Un’Europa che ha sempre guardato con distacco a quanto avviene in aree strategiche a ridosso dei propri confini meridionali, rispettando un modello applicato per la prima volta nel 1992 in occasione delle vicende dei Balcani.
Un’inerzia che potrebbe avere conseguenze gravissime per l’intero Occidente e per l’Europa in particolare. Si sta rischiando di perdere anche un altro alleato fedele, l’Egitto, con un conseguente inasprimento dell’isolamento di Israele e lasciando che forze emergenti dell’estremismo islamico si avvicinino sempre di più a Suez.
Ancora una volta, quindi, chi ancora si ostina a definire questa nuova alba di guerra civile in Egitto come una nuova “rivolta per il pane” dimentica che l’integralismo islamico rappresentato dalle minoranze sciite potrebbero approfittarne per prendere il sopravvento sui sunniti e riportare al potere le dittature nepotistiche del passato.
Una situazione complicata che peraltro coinvolge due Premi Nobel per la Pace che non sembrano impegnarsi più di tanto nella loro missione morale. Obama che sta regalando sempre di più l’egemonia Medio Orientale ad Iran e Turchia e l’egiziano Mohamed El Baradei, ex Direttore dell’AIEA pronto a dimettersi dopo un mese da essere stato nominato vice premier del nuovo governo, che, invece, dovrebbe impegnarsi per dimostrare al mondo che in Egitto non vi è stato un golpe, ma è avvenuto qualcosa che ha portato un premier a dimettersi.
Il quadro di situazione è tale che qualsiasi ritardo di un impegno della comunità internazionale potrebbe risultare catastrofico e portare alla definitiva destabilizzazione dell’Egitto, che di fatto è già in atto. Il fronte che ha portato al rovesciamento del governo Mursi ha iniziato a spaccarsi ed nel suo ambito si confrontano per interessi di parte. Liberali, giovani, copti ed ex mubarakiani con idee differenti rispetto al ruolo di cui si sono appropriati i militari.
L’esercito fino ad ora ha un sostegno di una parte significativa della popolazione, che, però, non sarà destinato a durare a lungo. I primi segnali già arrivano con il ricompattamento del vecchio fronte di opposizione al regime militare nel quale stanno confluendo i giovani membri del Tamarrod, coloro che per primi hanno organizzato la prima manifestazione per la deposizione di Mursi.
In questo contesto l’Islam politico sembra più compatto ma non è certo che rimarrà tale e molto dipenderà dall’evoluzione delle vicende. I salafiti, islamisti conservatori, hanno immediatamente accettato il ruolo dei militari, ma nello stesso tempo hanno iniziato a condannarne la violenza e difficilmente faranno passi indietro rinunciando al loro peso politico.
L’islam politico è destinato, dunque, a rappresentare una componente rilevante del futuro Egitto con il rischio che un’eventuale uscita della Fratellanza dal percorso democratico potrebbe favorire l’affermazione di posizioni più estremiste riproponendo fatti come quelli che avvennero il 18 novembre 1997 aLuxor, con la strage di turisti nella Valle delle Regine.
Tre quarti d’ora di fuoco: poi i terroristi, finite le munizioni, usarono i pugnali.
La maggioranza della popolazione si colloca fra queste fazioni ed è favorevole a un compromesso, ma da sola è incapace di influenzare significativamente il corso degli eventi. Il popolo è pronto a mobilitarsi e tale mobilitazione sta diventando uno strumento di legittimità ma è necessario con assoluta urgenza trasformare le manifestazioni di strada in una pratica politica che accetti e consolidi le regole del gioco democratico.
La nuova fase della transizione egiziana non sarà sicuramente breve ed avulsa da conflitti. Non per questo però si deve pensare che l’Egitto sia tornato ad una situazione di partenza in cui il ruolo dei militari sarebbe determinante.
Entrambe le parti devono comprendere che non possono andare avanti solo sparando sull’avversario, unico modo per allontanare sempre di più condizioni di democrazia reale.
In questo contesto l’Occidente ed in particolare le Nazioni Unite hanno il dovere morale di intervenire immediatamente con un’attenta e costruttiva azione diplomatica che allontani definitivamente il pericolo di un’implosione interna che potrebbe rimettere in discussione la labile stabilità di tutta l’area geografica.
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