L’Africa mi ha sempre attratto. Prima o poi, l’ho sempre saputo, ci sarei andato. Magari da medico e formatore.
La mia scuola di counseling mi propone di partecipare ad un progetto di formazione rivolto ad alcuni educatori di Nakuru che si occupano di bambini di strada che sniffano colla. Non poteva capitarmi occasione migliore.
E dunque parto, Palermo – Roma – Addis Abeba – Nairobi – Nakuru, dopo una prevenzione vaccinale non obbligatoria ma consigliata: anti-tifica, anti-tetanica, anti-epatite A, anti-meningococco … Pensavo a una prevenzione anti-malarica, che mi hanno consigliato comunque in forma meccanica – uso di magliette con maniche lunghe, eventuale zanzariera, Autan in discrete quantità. Dove vado io è un altipiano tra i millesette e i duemila metri. Le zanzare ci sono, ma sembrano più innocue. È più probabile incorrere in dissenterie da tossinfezione alimentare e da acqua inquinata, soprattutto amebiasi, malattia tipica dei climi caldo-umidi e favorita da condizioni igienico-sanitarie per così dire precarie, di solito con mal di pancia e feci emorragiche. Basterà fare attenzione alla provenienza del cibo e dell’acqua da bere. Che ci vuole? … Sembra tutto così facile, a parole.
Il mio primo approccio reale con l’Africa è all’aeroporto di Fiumicino: file lunghissime, tempi lentissimi. Alle undici di sera imbarco sulla Ethiopian Airlines, destinazione Addis Abeba. Le hostess etiopi sono belle, ma a me sembrano tutte uguali. Il mio compagno di viaggio, Roberto, è un gran organizzatore.
Africa, Africa, Africa a vista d’occhio, pianure immense.
In lontananza sagome di montagna. Addis Abeba. Atterriamo. Sono le cinque e mezzo del mattino. Ammassi e ammassi di persone di tutti i continenti, di tutte le lingue. Gli Islamici prevalgono. Solite file lunghissime aeroportuali. Al cesso qualcuno gestisce le entrate e le uscite. Lì accanto noto spazi di preghiera musulmana. Maschi e femmine rigorosamente separati. Facce antiche. Occhi scuri venati di rosso. Le abluzioni. Passano intese complici negli sguardi furbi di alcuni maschi, che sembrano non curarsi dei loro gesti discreti ma non tanto segreti, quasi abituali: anzi, a te che sei bianco occidentale te li fanno vedere apposta questi sacchettini pieni di una sostanza scura – hashish? – magari ne compri, scambiati da una mano all’altra con piccoli mazzi di banconote. Alcuni cercano di saltare la fila al Gate dell’imbarco successivo per Nairobi. Urla improvvise di protesta. Ho l’impressione di una mega-rissa imminente. Ma tutto invece sembra fermarsi alle parole: è uno stile che non riconosco. Roberto mi induce alla pazienza e alla calma. Noi camminiamo veloci, ma i ritmi qui sono dettati da altre esigenze che al momento mi sfuggono. Tuttavia mi rendo conto che
alla lunga arriva chi ha più fiato, non chi va più veloce.
L’Africa, si vede, è grande. Grande. Gli Africani si siedono e aspettano, quasi indifferenti – gli occidentali si muovono e chiedono continuamente informazioni; gli orientali occhi di mandorla già smanettano sui loro computer portatili, i loro tablet, i loro smart phone. Ma perché il Wi-Fi free sul mio cellulare non risponde? …
Un’ora di fuso orario in avanti, almeno non soffrirò il Jet Lag. Finalmente scopriamo che il nostro aereo per Nairobi dovrebbe partire alle dieci e mezzo, imbarco trentacinque minuti prima, per ora al Gate One. Potrebbe cambiare in ogni momento della mattinata. Su questo gli occidentali stanno sempre all’erta, poiché
in Africa, sembra, le cose cambiano in continuazione.
Il vocio delle lingue incomprensibili.
Volo Addis Abeba – Nairobi. Dopo ore di file, attese e tempi snervatamente lenti, ci fanno imbarcare su di un Boeing 787 ultramoderno. Sinceramente non me l’aspettavo.
Ai bordi della pista, le cornacchie nidificano sulla sommità dei pali che sostengono i fari della notte.
Due ore e atterriamo a Nairobi. È mezzogiorno e mezzo. Viene a prenderci un ragazzo angolano, della missione cattolica che ci ospiterà. Per ora siamo diretti ad un Drop in della stessa organizzazione qui a Nairobi, di cui attraversiamo in macchina le periferie. Secondo me c’è molto traffico, ma mi garantiscono che questo è niente in confronto a quello degli altri giorni, dato che oggi per fortuna è domenica. Il nostro autista si ferma ad un rifornimento per fare nafta alla sua Toyota un po’ sgangherata – la maggior parte delle macchine circolanti sono Toyota. E abbastanza sgangherate, tranne qualcuna. Un litro di nafta costa 103 scellini. 110 scellini al cambio attuale valgono un euro. Ma per i kenioti è lo stesso uno sproposito. Per noi sarebbe un grosso affare, attualmente.
Ci si allontana dalla strada principale a tre corsie autostradali. I matatu si fermano a caricare persone che normalmente passeggiano sul ciglio della strada. Altre attraversano pericolosamente la carreggiata districandosi appena nel traffico veloce. Ho continui soprassalti, almeno all’inizio. Qui si guida a sinistra. Il Kenya è stato colonia inglese. Kenyatta il suo benefattore. L’attuale presidente del Kenya, anche lui Kenyatta, è suo nipote.
La strada si fa subito sterrata. Dal lusso apparente del centro simil-occidentale alle case – case? – delle periferie, alcune ancora costruite con le pietre, altre con legno e lamiera. A parte qualche villetta ben recintata e ottimamente rifinita, con parco ricco di alberi e ben curato, non capisco bene se di proprietà di qualche maggiorente politico, o di eredi inglesi sopravvissuti all’ex colonialismo. Più in là intravvediamo gli slums, da cui ci teniamo strategicamente a distanza, baraccopoli di lamiera le più vaste del mondo. Basta vedere un paio di scatti in Internet per rendersi conto di cosa si tratta. A Kogorocho, lo slum più importante, visse da missionario il Padre Comboni, e alla fine del secolo scorso padre Alex Zanotelli, quello che si batte per evitare la privatizzazione dell’acqua. Ora qui sono presenti solo le suore di Madre Teresa di Calcutta.
Passiamo accanto una bellissima villa, appartenuta alla scrittrice danese Karen Blixen, alias baronessa Karen Christence Blixen-Finecke, nata Dinesen, morta nel 1962, trasferitasi in una piantagione di caffè in questo circondario, autrice del romanzo La mia Africa, del 1937, da cui poi nel 1985 Sidney Pollack trasse l’omonimo film: opera ispirata, come dicono le cronache letterarie, alle esperienze in Kenya, espressione del rimpianto per la perdita di uno stile di vita semplice e autentico, quello del popolo africano. Mah, sarà stata una critica velata al colonialismo? Non saprei a quali sentimenti si rifanno questi geni della letteratura.
Le buche nella strada mi fanno sobbalzare. Numerosi venditori di frutta e carne arrostita per strada, le classiche pannocchie di mais abbrustolito, indumenti contrabbandati dopo essere stati rubati agli aeroporti tra i cosiddetti “aiuti” – cosa si intenda qui con questa parola, sinceramente anche questo ho serie difficoltà a comprendere – lustrascarpe, bambini sporchi e moccorosi, ma sorridenti, sempre sorridenti.
Arriviamo al DROP IN. Qui preti – lo capisci dopo che sono preti – brasiliani, uruguaiani, italiani, ci accolgono, ci danno da mangiare, patate, riso e verdure lesse. Il Drop in è una struttura di contatto, sulla strada, che si propone ai bambini di strada, che così hanno la possibilità fino alle tre del pomeriggio di essere lavati, accuditi, rifocillati. Con l’unico impegno, ovviamente, di lasciare la colla fuori. Sono esseri abbandonati, oppure scappano di casa perché subiscono continuamente abusi e violenze di ogni tipo. Dai padri. Dalle madri. Dai parenti più prossimi. Ma sorridono lo stesso. Per placare l’angoscia – e molto meno la fame – sniffano colla: si trova dovunque e a buon mercato, dura tanto, la si può condividere, a volte riscaldano il fondo del barattolo per fare sprigionare più vapori da inalare, con un sacchettino di carta aperto da entrambi i lati, uno appoggiato sul barattolo, l’altro ben piantato attorno alla bocca, in modo da poterne inspirare in un colpo solo quantità considerevoli: provano quasi la stessa ebbrezza dell’alcool, la stessa forza della cocaina, lo stesso sballo dell’eroina, con effetti allucinatori come la sensazione di volare, e in più un grande effetto anoressizzante: rischiano la fame per questo motivo, rischiano di morire … Al Drop in hanno una piccola possibilità: entrano, sono accolti, passano il tempo a lavarsi e a pulirsi i vestiti e le scarpe così i poliziotti che li fermano li scambiano per bambini “normali” e non li arrestano; altrimenti ruberebbero, poche cose, cibo, o chiederebbero l’elemosina, o farebbero piccoli lavoretti per pochi scellini e potersi così comprare la colla. Alle tre del pomeriggio di nuovo per strada, a sniffare e a darsi da fare per sopravvivere al meglio un’altra notte in strada.
Durante il loro temporaneo soggiorno diurno, nessuno cerca di forzarli, di convincerli: gli educatori, quasi tutti keniani, ma anche italiani – quelli che ho conosciuto io – si propongono e basta, se ne prendono cura finché i bambini non imparano che di loro si possono fidare. Tra le altre attività, gli educatori provano a proporre la visione di cartoni animati, pensandolo coerente con l’età dei bambini. I quali invece protestano perché esigono la visione di immagini forti, con violenza e sangue su tutto, teste mozzate, stupri, gli stessi stupri che subiscono per strada. Per questo la maggior parte di loro si fa apposta i bisogni addosso, per puzzare, e scoraggiare eventuali violentatori.
E tra di loro va molto di moda in questo momento un film che per la prima volta vede rappresentata la cinematografia keniana candidata all’oscar, Nairobi Half Life, violento quanto basta per tenere alta la tensione di questi bambini non-bambini. Mi pare di capire che questo film denunci apertamente le condizioni di vita della stragrande maggioranza dei keniani. Sarà. Mi viene in mente un famoso fotografo di cui qui si parla abbastanza di nascosto, Boniface Mwangi, arrestato perché durante la festa dei lavoratori del Primo Maggio protestava contro il disegno di legge del governo sull’aumento dello stipendio ai parlamentari. Mi ricorda qualcosa. La maggior parte della gente avrebbe in teoria per campare meno di due dollari in media a testa. E senza risorse. Il governo, ben rappresentato in quella occasione dal neo-presidente Uhuru Kenyatta e dal vice presidente William Ruto, si è sentito offeso da questa protesta fuori luogo, e senza alcun appiglio istituzionale, perciò ha fatto arrestare i facinorosi che “attentano con i loro atti terroristici alle fondamenta della democrazia”. Mah. Il terrorismo è sempre stato un ottimo alibi per liberarsi completamente e legalmente dei nemici. È un retaggio colonialista ben radicato anche oggi. Basterebbe assegnare a ogni famiglia un pezzo di terra, che qui è rigogliosa, piove molto, siamo in alto, cresce molta roba commestibile. Ma la terra, al solito, è in mano a pochi, i pochi e riconoscibili potentati politici, e qualche Lord inglese che qui possiede migliaia di ettari di proprietà terriera. Anche se in questo caso, bisogna dirlo, almeno c’è una organizzazione del lavoro che garantisce la sopravvivenza a centinaia di famiglie senza le devastanti conseguenze della violenza sociale abituale.
E a questa violenza tentano di sfuggire queste centinaia e centinaia di bambini che ogni giorno, chi più chi meno, frequenta i Drop in, dove spesso ritornano. Molti di loro, per fortuna, dopo un mese di frequentazione diurna assidua, decidono di rimanere, adeguandosi a delle semplici regole: lasciare innanzitutto la colla – e spesso ci riescono – e inserirsi nelle comunità di recupero che così li accoglie stabilmente, 24 ore su 24, prendendosi cura di loro, lavandoli, nutrendoli, vestendoli, riunendoli in piccole “famiglie” in cui due educatori – uomo e donna, figure simbolicamente parentali – sono responsabili di una decina di bambini, o maschi o femmine, che frequentano la scuola in cui seguono le lezioni di una teacher, coltivano l’orto, curano l’allevamento di conigli, galline, qualche maiale, a volte persino di api, raccolgono le verdure che i bambini stessi preparano, pulendole e usando grossi coltelli affilati per tagliuzzarle, con una maestria incredibile: chissà lo scandalo da noi, ovviamente, a vedere un nostro bambino con in mano un coltello di quel genere.
A Nakuru ci avviamo in macchina nel pomeriggio proprio in un ranch di recupero. Sonnecchiando, sento i discorsi dei miei compagni, volontari e responsabili. Di tanto in tanto incontro con la fotocamera del telefonino la realtà della strada, quella che nessuno riprende. Quella che nessuno sa.
Riprendo anche lo spettacolo della Rift Valley, la culla dell’Umanità, passando letteralmente sulla linea dell’Equatore.
Penso di essere un eroe, a star qui, ma quando incontro gli educatori keniani, e mi rendo conto del tipo di lavoro che fanno, nella realtà sociale in cui operano, dei bambini di cui si occupano, mi sento piccolo piccolo.
Ci sono situazioni che non si possono affrontare se non si ha l’animo disposto. Credo che l’opulenza occidentale abbia imparato a star lontana da queste situazioni per difesa. Nel frattempo si creano veri e proprio abissi tra le varie parti del mondo. Ho appena saputo che qualche settimana fa Barak Obama è stato in Tanzania. I Keniani se ne sono risentiti un po’, dato che l’uomo più potente della terra è proprio di origini keniane – la nonna ancora viva abita qui, da qualche parte. Sembra che gli USA non riconoscano il Kenya tra le nazioni “affidabili”, per così dire, a causa di questa strana democrazia che in realtà tende implicitamente alla dittatura. Non lo so. In Tanzania la Bill & Melinda Gates Foundation ha lasciato quattro milioni di dollari in beneficenza – credo regolarmente scaricati dalle tasse! – Un buon modo per farsi pubblicità. Sembra, ma è solo un’illazione, che ne abbiano usufruito qualche politico e qualche associazione umanitaria.
Ai poveri si dà direttamente il pesce. La canna da pesca la si tiene nascosta.
Un buon modo per spendere al meglio i propri soldi è regalarli a qualcuno che si vuole mantenere nel sottosviluppo – non so per quale motivo e con quali intenti – piuttosto che insegnargli a come sfruttare al meglio le proprie risorse sviluppando le competenze e le professionalità più adatte a farlo.
L’Africa è degli Africani.
Dovrebbe essere degli Africani. E le persone oneste, e le organizzazioni che fanno capo a queste persone oneste, mirano a
ridare l’Africa agli Africani.
Chissà quali interessi di quali multinazionali vengono prima degli Africani. Veramente, non lo intuisco nemmeno.
Abissi ancor più scavati da queste donazioni che impediscono letteralmente una reale emancipazione sociale. Ma si tratta solo di una impressione ingenua: i soliti discorsi, i soliti pensieri e azioni xenofobe. Eppure percepisco, malgrado tutto, che anche qui serpeggi una sorta di razzismo nei confronti dei bianchi cui non sono abituato: il razzismo che non ti aspetti, molti neri sono razzisti nei confronti dei bianchi per risentimento, anche nei confronti di quei bianchi che cercano di aiutarli in ogni modo. I keniani sono stati colonizzati dagli inglesi, parlano l’inglese come prima lingua insieme allo Swahili, e ciò che è rimasto loro è il senso di essere stati tremendamente sfruttati e violentati. A parte qualche edulcorata versione storica ufficiale sui Mao Mao, facilmente reperibile in qualche sito Internet. [La rivolta dei KIKUYU (Mau Mau) del Kenya: “In realtà, la colonizzazione del Kenya, a differenza di altre colonizzazioni inglesi, era stata una colonizzazione di popolamento, per cui l’immigrazione conseguente aveva sottratto progressivamente agli autoctoni le terre più fertili e coltivabili, respingendoli nelle aree più aride e inospitali, riducendoli quindi in miseria. Quando agli inizi degli anni ’50 scoppia la rivolta degli africani, il Kenya è un gioiello della colonizzazione inglese, un vero paradiso per i coloni ed un inferno per i Kikuyu, cacciati dalle loro terre, costretti a vivere in riserve e ridotti a manodopera semi-schiavile per gli Inglesi.” (http://www.comidad.org)].
Dopo essersene andati nel 1963, anno della proclamazione di indipendenza del Kenya sotto la guida di Kenyatta, gli Inglesi lasciarono in eredità alcuni malcostumi che attualmente alimentano una diffusa corruzione: la Polizia intanto non esiste. Per meglio dire: esiste ma con altre funzioni ben lontane dal garantire la sicurezza della popolazione. Il Kenya non è luogo in cui, se hai bisogno di essere tutelato nei tuoi diritti fondamentali, conviene chiamare la Polizia. È un sistema di piccole ma diffuse corruzioni che sviliscono il nostro senso moderno, per quanto ancora poco sviluppato, del vivere civile, e rende la gente tremendamente insicura e sfiduciata. Non so che merito abbiano in tutto questo i vari governi che si sono succeduti dal 1963 ad oggi.
I Matatu (in Tanzania credo si chiamino Dalla dalla) circolano incessanti lungo le grandi strade di comunicazione. Sono grossi pulmini che effettuano servizio di trasporto passeggeri privato a pagamento. Io e Roberto lo abbiamo usato per spostarci una sera verso il centro abitato di Nakuru: 15 posti regolamentari, ho contato … 25? … no, 27 passeggeri effettivi, noi compresi; e i grossi fagotti sul tetto. Pendeva tutto da un lato, con la sensazione fastidiosa che da un momento all’altro si sarebbe ribaltato!
I conducenti fanno bene attenzione ai posti di blocco della Polizia. Cercano di evitarli, ovviamente. Tuttavia, c’è un listino prezzi: bastano da 100 a 200 scellini al poliziotto di turno per ritornare a circolare. Circolazione alquanto varia e pericolosa, calcolando i limiti di velocità imposti, di circa 80 km l’ora, e il modo incredibile che hanno i kenioti di guidare: il sorpasso nelle strade periferiche è un vero e proprio azzardo. Quando un’auto o un matatu soprassano, quasi sempre rischiano l’impatto con un veicolo che sta tentando il sorpasso nell’altra corsia, ma stranamente, e in maniera diametralmente opposta ai nostri costumi, nessuno si incazza, si segnala semplicemente con i fari e ci si sposta sulla banchina quasi sempre sterrosa, continuando tranquillamente la propria corsa. In italiano si dice: Mi pigliavu tanti di ddi cacazzi!
Una multa per eccesso di velocità è una bella cifra, eppure se non paghi lo stesso la mazzetta ai poliziotti, vai in galera. In galera ci portano anche i bambini abusati. Ma il più delle volte, a onor del vero, è per proteggerli, in attesa di inserirli in qualche comunità che possa almeno consolarli e prendersi cura delle loro devastazioni interiori, ma sempre con un atteggiamento del dono. Sembra brutto dirlo, perché noi siamo in grado di DONARE, quindi vuol dire che c’è qualcuno che è DESTINATARIO dei nostri doni, che HA BISOGNO dei nostri doni. Nessuna retorica, nessuna polemica. Tuttavia a volte percepisco una spocchia, in alcuni atteggiamenti di chi lascia gli OBOLI per sentirsi a posto con la propria coscienza! … Ma lavorare qui – sono costretto a dirlo, ad ammetterlo quasi con amarezza, perché mi assale un senso di ribaltamento inaspettato – il DONO è per me.
Nel frattempo i poliziotti ti fermano, ti dicono che hai superato il limite di velocità, se non è vero contratti, magari sì, magari no: 100 scellini? 200? … Ok, il poliziotto addetto li accetta e te ne vai. Se invece ti hanno bloccato con una specie di fotocellula che dimostra la tua infrazione, ti portano direttamente in prigione, il giudice ti fa il processo per direttissima, stabilisce la multa che devi pagare, ritorni in prigione, deve venire qualcuno dei tuoi a pagare la multa in banca, ma prima che riesci a metterti in contatto! … oppure prometti la solita mazzetta al poliziotto di turno, che in giornata ti fa fare il pagamento e tutto è a posto. In questo i poliziotti devo dire si dimostrano davvero onesti, mantengono la parola e ti lasciano andare. I camion fanno la stessa trafila ma con più sistematicità, non sono mai in regola, una vera manna per i poliziotti.
100 scellini, già: l’equivalente di circa 90 centesimi di euro; costa così poco corrompere. 100 scellini che i poliziotti non tengono tutti per sé, no: c’è tutto un sistema piramidale di controllo e di incasso che alimenta la corruzione, perché tutto il sistema di sicurezza sociale è corrotto, dai più bassi vertici di polizia ai più alti livelli della gestione politica: i politici più importanti ne sono i beneficiari principali. Mentre chi lavora onestamente, chi è bravo imprenditore, chi sa organizzare le risorse e le dà in mano ai giovani valorizzandoli, e non partecipa al sistema di alimentazione dal basso della corruzione, muore ucciso.
Per questo la gente, esasperata, tende a farsi giustizia da sé: nel centro occidentalizzato e ricco di una grande città come Nairobi – poca gente, a dire il vero, una middle class non è nemmeno lontanamente pensabile – un ladro è stato inseguito e bloccato (ladro di che? Di qualche borsa con relativo contenuto, probabilmente). La gente comune ha cominciato a picchiarlo di brutto. Per fortuna la Polizia era lì vicino. Ha salvato il ladro dal pestaggio punitivo. Forse con una mazzetta se la caverà.
Nelle periferie povere i ladri fanno una brutta fine. Se vengono catturati dalla gente, sono pestati a sangue. Uno addirittura è stato bruciato. Della Polizia, nelle periferie, nemmeno l’ombra. Non c’è granché da guadagnare.
Spesso però il borseggio è bene organizzato a danno di bianchi, per lo più: una catena di accordi che ha come scopo derubare senza che la Polizia lo sappia, altrimenti richiederebbe anche per lei la sua parte, riducendo l’eventuale guadagno.
Il Kenya è una terra di grandi risorse, l’acqua è facilmente reperibile nel ricco sottosuolo, soprattutto sugli altipiani. Ma manca l’organizzazione. L’Africano è proprio vero che l’acqua lu vagna e lu ventu l’asciuca, come direbbe lo zi’ Giuanni, mio archetipico riferimento siculo. Le imprenditorie locali sono per la maggior parte straniere – indiane, per la precisione – e ovviamente osteggiate.
Qui è vietato tutto. Persino fumare in strada. Se la Polizia ti becca, ti conviene preparare la mazzetta: stavolta sono 300 scellini. E tutto si risolve.
Un epilogo.
I bambini che sniffano colla sono abbandonati a se stessi. Ho notato qua e là missioni, sacerdoti, volontari che se ne occupano, con pochissimi mezzi finanziari ma davvero con grande amore e competenza, due cose che spesso insieme non vanno tanto d’accordo, riducendosi il primo a mero assistenzialismo, il secondo a mera esperienza filantropica. Qui la Chiesa è davvero quella del Nascondimento, quella della Carità che condivide, sforzandosi comunque di essere molto più che assistenzialismo e filantropia. Qui i preti missionari e i volontari si sbracciano per insegnare agli Africani come mettere in gioco le loro risorse, fisiche e umane, l’unico vero modo per emanciparsi dai modelli colonialisti occidentali, e recuperare un relativo benessere in confronto al disagio, a volte aperto conflitto sociale attualmente prevalente. Qui la Politica è figlia ed erede del colonialismo, che sa come usare al meglio la corruzione e mantenere il degrado sociale per alimentare il proprio dominio esclusivo ed alimentare a dismisura i suoi privilegi assurdi: che importa se la maggior parte della gente vive ormai ammassata nelle metropoli urbane, i pochissimi privilegiati nei centri lussuosi, tutti gli altri a popolare le più grandi baraccopoli del mondo, gli slums, un’accozzaglia di lamiere, senza acqua né elettricità, fogne a cielo aperto e montagne di immondizia, dove un formicaio di indigenti scava per trovare vestiti e rimasugli di cibo.
La realtà della maggior parte dei bambini di strada è questa.
Per non parlare delle donne, già considerate in passato merce di compravendita dalle culture autoctone, e spesso vittime di una storia di stupri e di violenze familiari e sociali visibile nei loro sguardi profondi e tristi, dove intuisci spesso terribili segreti.
Adesso però il governo di Kenyatta appena insediatosi, ha assegnato alcune deleghe ministeriali a delle donne, una persino affetta da nanismo distrofico: le farebbe ancora più onore essere donna che sta imparando a gestire il Potere di Governo. Con consapevolezza. E responsabilità.
un’esperienza notevole, io sono tornato dal kenya ad aprile, sicuramente nulla di piu’ bello nulla di piu’ autentico. La vera vita vissuta secondo per secondo minuto per minuto si puo’ trovare solo in kenya. Bellissimo il racconto tutto vero, qualsiasi gesto ti colpisce, anche un sorpasso azzardato(avvolte fanno davvero paura). hakuna matata.
Bellissimo! E assieme spaventoso ma avvicinabile perché lo racconti lasciandoti attraversare. Si vede Nairobi, i bambini, il traffico e i poliziotti come fossero davanti agli occhi. Però fa venire i brividi pensare che siamo nel 2013 e il mondo è in queste condizioni …