L’aspetto della campagna, quella mattina in particolare,era secco e stoppaccioso.
La casa a due piani si trovava sull’alto della collina, sotto si snodava la strada provinciale, ma sembrava remota, inghiottita a tratti dai vigneti o semplicemente dalle radure incolte, verdissime in primavera ed ora gialle e asfittiche. Non gli andava di entrare in casa. Suo padre stava steso su quel letto da giorni, e non c’era verso di trovare il medico perchè era in ferie. Ma si sarebbe ripreso, forse il troppo caldo e poi i vecchi non bevono mai. Ogni tanto provava ad offrirgli dell’acqua, ma suo padre lo guardava con quegli occhi annebbiati, lontani, che lo facevano rabbrividire. Preferiva starsene fuori, ad aspettare un po’ di vento, quando c’era. Non si accorgeva della bellezza distesa della valle, la geometria dei verdi, la luce rabbiosa già alle dieci del mattino. Fumava appoggiato alla ringhiera della scala esterna, dieci gradini in tutto che lo separavano dall’ingresso al piano rialzato dove c’era la cucina e il soggiorno. Al piano superiore la stanza di suo padre. Pensò di spalancare le finestre, dare un po’ di luce, ma tutto sommato preferiva la canna che stava consumando. Era già abbastanza nervoso così, non gli ci voleva proprio quello spettacolo, il letto sfatto, suo padre immobile, con un vecchio pigiama stinto e piuttosto sporco. Chissà se aveva voglia di un po’ di colazione. Nei giorni passati lo aveva fatto impazzire, lo chiamava anche di notte. Ora stava zitto. Forse lo aveva sgridato duramente, ma gli aveva veramente rotto le scatole con quel lamento che gli usciva continuamente dalla bocca semiparalizzata. Certe volte ci pensava, e ultimamente più spesso: per quanto ne avrebbe avuto il vecchio? Speriamo per molto, altrimenti lui non sapeva davvero dove andare a sbattere la testa. Erano scappati da Roma per colpa dei debiti, dei suoi debiti, non certo quelli del padre, che era un uomo regolare. Sorrise al fumo. Regolare. Che colpo per lui. Ridacchiò e a malincuore gettò la canna sulla terra secca sperando che l’erba calpestata prendesse fuoco. Con calma rientrò in casa e preparò un piatto di pasta, abbondante. Una volta condita ne separò un quarto con la forchetta e lo rovesciò in un piatto di carta. Portò al piano superiore il piatto per suo padre.
-Tirati un po’ su, mangia qualcosa. Ho fatto la pasta. C’è puzza qua, potevi chiamarmi.- Spalancò la finestra. Entrava un sole ardente, un calore doloroso. Neppure un filo d’aria. Il vecchio socchiuse gli occhi. Era stato grande il vecchio, un vero campione nel suo lavoro. Un uomo meticoloso. Aveva provato a trasmettergli il suo mestiere, ma lui non ce l’aveva fatta. A lavorare con i preti proprio no. C’erano delle regole, degli atteggiamenti, una roba da leccaculo e proprio non gli andava. Certo, gli avrebbe rimproverato suo padre, sempre meglio sarebbe stato essere deferenti con Monsignore che strisciare davanti al boss del quartiere. Ma figurati, strisciare lui. S’era messo in proprio. E’ che era stato sfortunato.
Il padre non reagiva. Teneva gli occhi chiusi, il piatto gli stava poggiato sul busto che quasi non si sollevava. Ma che è morto? Pensò. Finì di mangiare la sua, di pasta, in piedi, vicino alla finestra carica di sole. Non ti va? Chiese al padre, non hai fame? Va bene, la mangio io, sennò va sprecata.
C’era silenzio, forse il respiro di suo padre, forse il risucchio degli spaghetti che sparivano nella sua bocca. C’era silenzio. Come nei cortili d’estate nell’ora del dopo pranzo. Sua madre gli diceva di riposare e lui scivolava sulla ringhiera delle scale e scendeva in cortile, pieno di zone d’ombra fresche, tanto quanto erano umide e muffite d’inverno. Lo stesso silenzio, la stessa luce. Poi sua madre era morta, lui aveva cominciato a drogarsi. Tirò via il piatto di carta, giù dalla finestra ancora mezzo pieno. Lo seguì con lo sguardo finchè non lo vide sfracellarsi sulle scale d’entrata. Il padre emise un breve mugolio. Coglieva tutto, quello stronzo, non si faceva mai i cazzi suoi. Anche adesso gli faceva solo venir voglia di sfasciare la stanza, tanto per dire. Ma era stanco, si buttò sulla poltrona accanto alla finestra e si accese un’altra canna.
-Vuoi un caffè, lacchè della corte papale?- chiese a suo padre. Quello girò gli occhi verso il soffitto e sospirò. Mentre il fumo invadeva la stanza, pensò a quali grandi occasioni aveva perso a causa di quello sfigato di suo padre. Perché non dimentichiamocelo, suo padre lo aveva fatto arrestare.
-Per salvarti la vita, per salvarti l’onore- mormorò in falsetto-Ma di che cazzo stai parlando eh?- urlò al padre. Il vecchio strinse gli occhi.
-Lo sai, no? Lo sai che adesso comincio a ricordare, e tu mi devi ascoltare, e zitto- Ma faceva troppo caldo, e si sentiva sonnolento. Ci vorrebbe un caffè, pensò.
-Mi hai trascinato qui, in questo buco di culo, sempre per salvarmi, sempre per redimermi. Ah, crepa- Infine aveva chiuso gli occhi, la testa gli stava abbandonata sul cuscino lacero della poltrona. Gli piaceva arrivare a questo, stare sospeso e freddo, senza problemi e senza pensieri. Il vecchio lo guardava, apprensivo. Intanto passavano sicuramente le ore, e ogni tanto sollevava le palpebre verso la finestra e la luce rimaneva fissa, il sole nella stessa posizione. A tratti sentiva freddo e si chiedeva se lo sentisse anche suo padre. Voleva alzarsi, rimboccargli le coperte, immaginava di farlo.
Finchè, risvegliandosi, non si trovò di fronte ad un astro mutato, gelido, in un cielo frastagliato percorso da nuvole azzurrine. Era notte. Una notte fredda, quindi profonda. Non si chiese che ore fossero, pensò subito che si era dimenticato di suo padre. Chiuse la finestra e lo chiamò:
-Servitore pontificio, ci sei?- Gli sembrò di non decifrare bene i suoni della stanza, il respiro breve del vecchio, il ticchettio di una sveglia anteguerra, il cigolio della rete sotto il peso di suo padre. La luna illuminava di traverso la stanza e teneva in ombra per un quarto il letto. Vi si avvicinò a tentoni, sbadigliando.
-Vuoi un po’ di latte caldo? Hai bisogno di qualcosa?-
Ma gli sembrò che dormisse, e bene, senza lamenti inopportuni che lo facevano sentire come sempre si era sentito, inutile.
Suo padre lo aveva portato via dal giro, era proprio il caso di dirselo, nel momento migliore, quando lui stava diventando qualcuno. La prigione aveva moltiplicato le sue possibilità, potenziato i suoi contatti. Perché non lo aveva lasciato perdere? Era venuto a fargli dei discorsi, su come avrebbero pagato i suoi debiti, come lui avrebbe potuto chiudere con quella vita. La cosa che più gli interessava, al vecchio, era di mantenersi vivo suo figlio. -Eccomi qua-, pensò, -ti sembro vivo?-
Avevano venduto la casa di Borgo Pio, un bel posto per farci degli affari, pagato i debiti, ceduto quel po’ di potere che aveva raggiunto, ai nuovi padroni. Solo suo padre poteva davvero credere che la partita con quella gente fosse finita. Pure lassù, su quella collina di provincia, erano venuti ad obbligarlo: poteva solo essere un gregario, con quel padre sul collo, uno da ricattare tutta la vita.
Si sentiva debole, non aveva fatto altro che fumare tutto il giorno. Mangiare poco. Alla riscossione della pensione di suo padre mancavano cinque giorni. Aveva la delega. I soldi erano già belli che finiti. Non si sa come gli scivolavano via dalle mani. Non c’era quasi più niente da mangiare. E poi non è che avessero tutto quell’appetito. Gli sembrava che avrebbe potuto vivere solo di caffè e canne, in mezzo un lungo sonno. Eppure la sera era elettrica, come se la luna così gonfia e attraente lo tenesse sveglio e irrequieto. Gli sembrò di dover attendere un silenzio più chiaro, più lucido. Allora prese la mano di suo padre. Ed era inerte. Sospirando si rannicchiò contro la sponda del letto. Non gli veniva da piangere. Aveva solo un gran terrore in mezzo al petto.
Quando inevitabilmente entrò nella stanza la luce del mattino, già sapeva cosa avrebbe fatto. Andò in bagno a cercare una bacinella e una spugna. Spogliò suo padre e cominciò a lavarlo. Almeno questo, pensò, lui che ci teneva tanto. Ma per concludere quell’operazione aveva bisogno di fumare. Lasciò tutto e andò in camera sua a cercare nei cassetti. Ma non trovò niente. Non reagì come al solito. Lasciò la stanza intatta, scrollò la testa. Tornò da suo padre e cercò di darsi una mossa con quel lavacro, perché già era difficile maneggiare quella salma rigida e infelice. Cercò nell’armadio qualcosa di decente da mettergli addosso, ma non trovò niente che facesse al caso suo. Allora prese un lenzuolo pulito, di quelli che erano stati del corredo nuziale di sua madre. Ci avvolse il padre. Oh gli sarebbe piaciuto, era un cultore della semplicità, della santa semplicità. Eccoti accontentato. Gli mise tra le mani una immaginetta consunta della Madonna che teneva nel cassetto del comodino. Poi decise che era troppo, lo lasciò lì e andò a prepararsi un caffè. Ma gli tremavano le mani, e l’aria già gli sembrava soffocante, e il corpo nudo di suo padre, tutta quella vecchiaia, tutta quella decadenza, tutta quell’immobilità, a ripensarci, gli davano la nausea.
Uscì di casa muovendosi lentamente, come se avesse la febbre. Salì sul motorino e si diresse difilato al paese più vicino.
Al caffè c’era il solito movimento di anziani villeggianti e popolo reso indolente dal caldo e dall’inedia. Doveva occuparsi del funerale, ma francamente non sapeva come lo avrebbe pagato e dubitava che qualche becchino della zona gli avrebbe mai e poi mai fatto credito. –Doveva morire- pensava- proprio ora doveva morire senza darmi il tempo di rialzarmi. Ah si che mi ha annichilito mio padre, si è sempre messo di mezzo- intanto fumava quel poco che aveva infine trovato nella dispensa di casa sua, fumo vecchio e inacidito.
Di fronte ai tavolini del bar stavano sballando un nuovo frigorifero gigantesco. Svoltolavano metri e metri di pluriball, metri e metri, pensò lui, di immacolato cellophane a pallini, come nuovo. Gettò la canna a terra e si diresse con noncuranza verso il garzone del bar che si stava sfinendo in quell’operazione, sotto il sole di un quasi mezzogiorno.
-Ti serve una mano?- chiese, e senza aspettare risposta e prima che quello potesse metterlo a fuoco, cominciò a riavvolgere l’imballo. Quando il frigo vide la luce, lui chiese al ragazzo se poteva tenere quel cilindro di pluriball, che poteva servire a suo padre per avvolgerci gli album con le collezioni di francobolli, quelli del Vaticano,sai? ne ha una pila, sono preziosissimi-
L’altro annuì senza guardarlo e cominciò a scrutare verso il bar nella speranza che qualcuno sarebbe finalmente venuto ad aiutarlo a spingere il frigorifero dentro al negozio. –Secondo voi gliela faccio da solo?- urlò in tono polemico verso la vetrina spalancata. Prima che qualcuno venisse in aiuto del garzone, lui se l’era già filata con il suo imballo tra le braccia.
La salita fuori del paese, sotto il sole, con quell’ingombro in bilico sulle gambe, lo aveva stremato. Prima di rientrare in casa si era fermato nel box sotto l’abitazione e aveva cercato dello scotch da pacchi. Era lì da quando avevano fatto il trasloco da Roma. Faticò a trovarlo perché da quando suo padre si era ammalato seriamente, nessuno in realtà aveva mai messo ordine nella casa né tantomeno nel box. Uscendo urtò contro un sacco di cemento abbandonato lì dal tempo che avevano rimaneggiato la facciata della casa.
Suo padre era steso di traverso sul letto, avvolto in quel lenzuolo ricamato di mezzo lino. Con molta fatica cominciò ad avvolgerlo nei fogli di pluriball che poi fermava con lunghe strisce di scotch marrone. La stanza era soffocante, ma alla fine il risultato fu una enorme crisalide che a stento aveva trascinato a sedere su uno sgabello, la schiena rivolta al muro. Scese in soggiorno a recuperare un ventilatore. Lo azionò davanti alla goffa impacchettatura.
Tornò giù per farsi un caffè e buttarci dentro qualcosa di forte. Gli sembrava che tutto avesse un odore schifoso. Il suo corpo, il mobilio, l’aria immobile e soffocante, le pareti macchiate di grasso da cui pendevano larghi festoni di ragnatele. Ingurgitò il caffè e scese di nuovo al box. Si caricò i mattoni di tufo accatastati sotto una incerata dietro l’automobile di suo padre. La macchina non funzionava più da tanto tempo, ma l’avevano tenuta, una vecchia fiesta amaranto. Qui è tutto inutile, tutto morto, mormorò tra i denti. Il sacco di cemento pesava, i mattoni pesavano, dovette fare una decina di viaggi ed era stremato. Pensò che il vecchio ce l’avrebbe fatta a farlo schiantare quel giorno stesso, a portarselo all’inferno con lui.
Aspettò il tramonto. Ma anche dopo il tramonto, per almeno due ore, il sole continuò a fare gli straordinari. Era impossibile muoversi. Non si alzava un alito di vento. Le pale del ventilatore smisero di ruotare con un cigolio incerto. Morte pure loro. Verso mezzanotte iniziò a lavorare. Lentamente, inesorabilmente, il muro intorno a suo padre prendeva forma. –Non sei contento, meglio dei papi, meglio dei re, invece che in qualche fetida tomba a pagamento, resti qui, a casa tua.-
Sussurrò prima di mettere l’ultimo mattone e chiudere la partita con suo padre, per sempre.
Quando gli sembrò che tutto fosse a posto scese nel box, aprì lo sportello della macchina e si buttò dietro, sul sedile posteriore. Entravano i raggi della luna, lievemente più esile della notte precedente, appena meno pressante. Era stanco, disgustato. I muscoli gli serravano le costole, e non gli sembrava di poter respirare. E in quel leggero stato di anossia, steso con la fronte verso il tetto della macchina, si ricordò di quando tornavano in automobile dalla Messa di Natale con i suoi. Era notte, le strade solitarie del dicembre romano erano illuminate dai lampioni e dai decori luminosi, e lui, disteso come ora, guardava con occhi spalancati e desiderosi, senza sonno, senza ansia. I suoi erano silenziosi, la macchina sembrava guidarsi da sola, era una astronave e lui solo nel tempo e nello spazio vedeva scorrere le immagini di un mondo alieno. Quante volte si era sentito completamente estraneo alla sua casa, alla scuola, alla sua stessa stanza? Pure sua madre gli sembrava come la cometa, quella che attaccava al presepe, una che ti cammina sempre avanti e si ferma in mezzo al cielo, mostrandosi come un enigma irrisolvibile.
Doveva farlo. Di suo padre nessuno chiedeva mai niente, doveva farlo. La pensione gli serviva. Ormai aveva quarant’anni, era debole, malaticcio. Gli venne, a questo pensiero, una certa commiserazione. Cominciò a piangere, stavolta girato verso la spalliera del sedile, che aveva lo stesso odore di quando era un ragazzino e pensava che nella vita avrebbe fatto grandi cose.