
La gatta vide il padrone che si avviava. Come sempre decise di assecondare il suo dna indubbiamente canino. Lo avrebbe seguito ovunque. Non lo avrebbe lasciato andare da solo. Un umano non va mai lasciato da solo, troppo fragile, troppo esposto al mondo con poca voglia di indulgenza e perdono. Lei che era gatta sapeva come vivere con pelo sullo stomaco e non solo, con pelo in tutto il corpo, di certo non avrebbe lasciato quel bambinone da solo. Perchè lei sapeva un segreto. Non sono gli uomini ad adottare i gatti, ma il contrario.
Lei stava per bussare, guardava i fotogrammi di un film che aveva rivisto troppe volte, immaginava le scene, lei si spogliava, facevano l’amore, anzi, il più delle volte faceva l’amore anche per chi si spogliava con lei, conosceva ogni stanza, ne guardava i particolari, a volte erano alberghi, a volte casa sua. A volte uomini che le promettevano un eterno che finiva di fronte al non voler crescere, al non aver coraggio. Uomini, fonte di promesse eterne, dispensatori di confini netti non appena la favola finisce. E spesso le favole vengono al dunque col venire di lui. E si chiudono. Con il suo rivestirsi. Forse non la prima volta, non la seconda. Lei è stanca di questo temporeggiare. Come un filo che porta alla fine dell’acrobazia senza rete. Abbiamo rischiato, insieme. Ora tanti saluti. Non voleva arrivare ai saluti. Meglio andare prima. Meglio non impiegare amore a recesso unilaterale. Il suo. Per salvarsi.
Il negoziante li tagliava già a brandelli poco prima che entrassero. Erano già sotto tiro, la pistola sotto il bancone. Se avessero sparato loro, lui uno di sicuro lo avrebbe comunque bruciato. L’altro forse sarebbe scappato, ma se fosse rimasto doveva sparare meglio di lui, che aveva insegnato a centrare una lattina a distanza siderale, anche alla figlia di pochi anni. All’improvviso decise di guardarli in faccia. E vide qualcosa che lo bloccò.
Lei si diresse verso l’auto, il rifugio precario di una angoscia atavica, ventre materno in lamiera. Rischiare è un verbo da abolire dopo tante botte. Come infilarsi al buio in una stanza piena di fantasmi, ma sapendo che ci sono e che spaventeranno e che tormenteranno. Nessuna insana voglia d’amore altrui porta a questo. Era stanca di accudire chi non sapeva prendersi cura di lei. Era stanca della sua autonomia scambiata per forza interiore. Era stanca di fare aperture di credito a uomini che già partivano debitori solo inducendola in tentazione e non liberandola dal male. Amen. Ma stavolta prima di provare. Così sia, ma stavolta prima di essere.
La gatta si sentì dire dal padrone che non sarebbe andata con lui. Stavolta no. -oggi ho qualcosa di importante da fare in un posto in cui non ti fanno entrare- disse. I suoi occhi felini chiedevano quale cuore umano, inumano, abbia potuto concepire un mondo in cui i gatti non possono entrare ovunque. Ma avevano idea questi esseri umani che il rispetto parte da chi ti guarda dal basso? Parte dalla base. Dai gatti, dai bimbi, dai cuccioli, da chi non arriva in alto. Che i cuori di chi guarda dal basso hanno capacità di arrivare alti? Che ignoranti questi umani. Un velo di disobbedienza la prese. Lo seguì. “L’istinto di una gatta varrà certo più di una parola di quel dissennato del mio padrone” si disse. E corse in mezzo alle automobili.
Il negoziante vide che erano ragazzi, smarriti, impauriti, rapinatori per la prima volta. Possibile carne da macello per sempre. Era troppo. Si accorse che non avevano un fucile ma una fiocina. E un fucile subacqueo carico. Il carabiniere era riuscito a chiamare rinforzi non visto e adesso con calma andava a bloccare quello che aspettava fuori. Se avesse provato a scappare all’arrivo dei colleghi. Il negoziante si avvicinò ai due a distanza di profonda insicurezza per loro. Per sicurezza la pistola era accanto a lui pronta comunque a sparare. Uno dei due fece un gesto improvviso. Da non fare.
L’uomo scese da casa. Riuscendo a raggiungerla. Aveva visto dalla finestra che lei era tornata indietro verso la macchina ripensandoci. Lei lo guardò. Gli disse: “sono stanca di promesse”. L’uomo prese un libro dalla tasca e glielo diede, era un libro di poesie che lei cercava da tempo e da polvere di scaffali di librerie. “Me ne avevi parlato di sfuggita la prima volta che ci siamo incontrati, sono riuscito a trovarlo su internet, è fuori catalogo”. Ammorbidì i suoi muscoli, almeno con quel gesto lui aveva dimostrato di averla ascoltata. Si disse che anche quello era un buon presagio. Lui le disse “ho capito, io sono avanti, tu sei indietro, tu conti le tue ferite, io vorrei amare di nuovo come pensavo di saper fare. Perchè amare è un mestiere, brutto da dire ma è così. Si migliora esercitando amore. È una forma d’arte, e nessuna forma d’arte si sgrezza da sola. Ma io non posso chiederti di esercitarti con me se non vuoi. Posso solo dirti che queste sono le mie chiavi di casa, sto facendo il caffè. Se andrai via mettile nella buca delle lettere. Altrimenti usale.
La gatta inscenò una protesta che definire rumorosa è un eufemismo. Il palazzo davanti a cui miagolava come se non ci fosse un domani era quello dove era entrato il suo padrone. Le macchine la sfioravano e lei nemmeno si spostava. Un urlo vibrante da diritto negato, da vita da non continuare. Inammissibile. Lei che si sarebbe buttata nel fuoco per quell’uomo, messa da parte così, come un quadro che non piace più alla parete. Il suo padrone era diventato consigliere comunale e doveva andare alla prima assemblea. Vi pare che potesse portare un gatto? Ma la micia tradita non sentiva ragioni. Il fedifrago doveva uscire a prenderla. Finalmente il disgraziato udì le urla disperate provenienti da fuori e si chiese se fossero quelle della sua gatta. Rispondendosi di si.
Il negoziante vide arrivare la macchina dei carabinieri, i due avevano capito che li avrebbero arrestati. Sembravano bimbi persi dai genitori, mentre si attardavano a guardare i giocattoli da una vetrina. Il negoziante capì che non erano adatti a questa vita. Non avevano pelo sullo stomaco. Non avevano nemmeno stomaco. Il carabiniere stava dirigendosi verso di loro, il negoziante arrivò prima. Disse svelto: “siete venuti a comprare una borsa per il vostro fucile subacqueo vero?”. Loro tolsero il giornale e risposero con rivelazione cosmico-mistica-universale: “si, si, esattamente, per quello, si!”. Il carabiniere guardò stordito il negoziante, lui guardava loro. Congedò il carabiniere con un sorriso beffardo, “lasciali stare, ora me ne occupo io, non lo faranno più”, non ascoltò le velate proteste del suo amico tutore della legge. Più che velate proteste per la verità sembravano parolacce a voce sguaiata.
Lei si chiese come mai facesse caso a che la propria pelle può diventare veicolo di profumi altrui. Sentire sapori e sensazioni nuove l’aveva fatta arrendere. Ma non era abbastanza. Doveva esserci una ragione più profonda di quel cedere a chi adesso dormiva con la stessa sua mancanza di protezione. Una tutela a cui entrambi avevano rinunciato dopo averla chiesta invano. Abituati a dover rispondere alle aspettative, senza pretendere. Mai nessuno che dicesse “mi prendo cura di te, credendo in quello che fai, lasciandoti vivere come sei.” Una libertà non concessa. Sembrava che nel loro cercare ci fosse scritto “fine pena: mai”. Sembrava. Lei capì perchè si era arresa a quella casa, a quelle pareti, a quel silenzio tardo-pomeridiano che metteva serenità e appetito. Perchè aveva lasciato aderire quei profumi al suo. Lui era come lei. Erano simili, ammaccature diverse, anima sbilenca ma viva e attenta. E ora in lei provocava un indigeribile stupendo, dolce, malinconico desiderio di poche parole e tante pareti che non sapessero più di precario. Quando a crollare prima era la fiducia e poi la relazione, le mura perdevano colore e lei doveva andare. Lui si svegliò, lei lo guardava a metà tra chi sa di innamorarsi e chi si dice “e io ora che ci faccio con te?”.
La gatta corse tra le braccia del proprio padrone, ora tutto sapeva di casa, di famiglia, potevano anche stare in una discarica, ma quelle mani erano strumento di fusa e dispensatrici di cibo e amore. Le sue orecchie puntute percepivano le proteste del padrone, “ma cosa ti è venuto in mente pazza? Ma come devo fare con te? Io non posso andare in comune con una gatta, ora come facciamo?, o mi dimetto, o tu ti abitui a stare a casa quando devo venire qui”.
I due ladri che poi non erano più ladri, uscirono dal negozio, con un sacchetto. Dentro c’erano due magliette e una borsa. Non solo non avevano rapinato nulla, ma il negoziante ci guadagnò pure. Era riuscito a vendergli qualcosa. A tutti resta il dubbio di una farsa involontaria, ma va bene così. È un lieto fine.
La gatta si lecca i cuscinetti delle zampe. Lei non lo sa, ma ha fatto tutto il percorso che farebbe chiunque in Italia, ha protestato per provare a ottenere qualcosa. Se non sei nessuno puoi solo alzare la voce. Lei ha miagolato forte. Per paradosso possiamo dire che grazie alla sua manifestazione gattesca ha ottenuto un posto in comune. Una sedia per la precisione. Tutti i consiglieri comunali si sono inteneriti e hanno votato senza nemmeno mettere a verbale. All’unanimità. La gatta può avere una sedia accanto al suo padrone per tutte le sedute del consiglio comunale. Nel suo caso lei partecipa come può, magari si appisola volentieri, invidiata da chi vorrebbe essere al posto suo, piuttosto che ascoltare vecchi politicanti tromboni che pontificano per ore. È un lieto fine.
Lei ha deciso di provare a fermarsi, ma vorrebbe ancora un presagio. Lui la guarda, lei chiede cosa l’ha portato a volerla. “Vorrei amare un’anima che è riuscita a rimanere intatta, anche se ha traghettato troppa gente da cui è stata abbandonata”. Lei lo guardò, con una punta di cinismo e dolcezza si disse che avrebbe masochisticamente creduto di nuovo ai presagi. E si appoggiò a lui. Non è un lieto fine. Perchè è solo l’inizio.
A nota di tutto va solo detto che sono tre storie vere. Tutte apprese in una terra che sa essere magica e stregata, bella e maledetta. La Sicilia.