Ho pensato ai piccoli angeli di Roussy.
E a mio padre.
No, non è vero. La prima immagine che mi è venuta in mente quando sulla home di Facebook mi è apparso l’appello per la piccola Sofia è stata quella di Eluana Englaro. La sua immagine e quella di suo padre.
Fa strane associazioni la nostra testa, inspiegabili a volte, anche perché se avessi dato ascolto a quell’immagine, a quel suggerimento della memoria, probabilmente mai avrei ceduto a quello che invece in qualche modo la pancia, sì, la pancia – è lì che stanno le emozioni, quelle che restano, che il cervello mette via per fare spazio, selezionare, catalogare, archiviare – mi diceva.
E con la pancia ho letto e firmato.
Che non avevo visto la TV, le Iene, Celentano, e letto cento articoli e pro e contro e. Avevo visto una bambina e una speranza. Neanche di guarire, non diceva molto quell’appello, di provare, anche soltanto quello, di provare ancora. Finché c’è vita.
Perché in Eluana non c’era. E’ questo che la pancia le ha risposto alla testa, tipo, Sai hai sbagliato.
E invece no. No perché era stata solo più veloce, corrono le sinapsi, si fa fatica a inseguirle, me lo ha spiegato dopo cosa voleva dirmi, mostrandomi Eluana.
Che per lei suo padre chiedeva di lasciarla andare, che era spenta, e non aveva senso tenerla lì, per quanto poi? E lo Stato no invece, lo Stato stava lì ad impedirglielo di andarsene, che doveva essere lei a sceglierlo, e a farlo anche, nessuno al posto suo ed Eluana non poteva scegliere.
L’art. 3 della Costituzione Italiana sancisce il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona, quali diritti individuali inalienabili.
Sulla base di questo principio lo Stato italiano, non avendo diritto alcuno sulla vita dei singoli cittadini-individui, e a tutela di tali diritti, condanna la pena di morte. Con essa ha di recente espresso parere contrario all’eutanasia, non solo, ha ritenuto inapplicabile lo stesso diritto alla libertà in caso di autodeterminazione, giacché dovendosi l’eutanasia, al contrario del suicidio, applicare da terzi, finirebbero questi per essere di fatto dichiarati “padroni” della vita di un altro, vita che non appartiene ad altri che al singolo e di cui lo Stato non può disporre. Lo Stato dunque, a tutela della vita del singolo individuo, non può disporre per lui della vita né della morte.
Così Eluana doveva vivere. Di accanimento terapeutico assolutamente vano. Non vivere.
E’ stato sempre in uno strano circolo sinaptico che devo aver pensato invece a quello che è un reato, a tutti gli effetti perseguibile e perseguibile, l’istigazione al suicidio, del quale, a mio parere, ma non mi pare solo mio, lo Stato si è in tanti modi e numerose volte macchiato, in questi tempi infelici in modo esponenziale, attraverso ogni forma di assenza, abbandono, disinteresse, cecità, incapacità a gestire il disagio sociale di larga parte della cittadinanza. Ma questo è altro.
Eluana doveva vivere perché lo Stato protegge la vita. Sofia no. Sofia doveva morire perché lo Stato tutela gli ammalati.
Che è un principio giustissimo e sacrosanto.
Tranne che.
Tranne che a un certo punto lo Stato dice Non c’è più niente da fare.
Ecco è per questo che ho firmato. Di pancia. E di testa evidentemente.
Perché quando non c’è più niente da fare, per lo Stato, nessuna cura, validata, sperimentata, protocollata, autorizzata, certa, cosa sei esattamente?
Non sei Eluana. Non ancora.
Non ti si può tenere artificialmente in vita con dei tubi che fuori dal tuo corpo fanno quello che tu non fai più, che il tuo cervello è spento, non ti si può curare, che di cure non ce ne sono, non sono pronte, non è certo che funzionino. Però sei vivo. E devi aspettare di morire. Ed è strano. Perché anche ai vecchi ormai si da di tutto per restare in vita a lungo, per restarci meglio, ma a un malato no. Al limite si può cercare di non farlo soffrire. Come si fa qua in Italia però. Che la terapia del dolore da noi rasenta la follia. Nel rispetto dell’ammalato.
Non sei morto.
Non sei malato, perché un malato si cura.
Beh allora ho letto tutto.
Ho visto i video delle trasmissioni, letto gli articoli, quelli pro e soprattutto quelli contro, quelli che a chiunque si schierava per Sofia, venivano metodicamente opposti. Gli articoli scientifici, quelli dei medici. Della deontologia e del giuramento di Ippocrate. No, non mi schiero contro. E neanche dico sono italiani. C’è logica in quegli articoli, da vendere. Li ho apprezzati in questo e nelle argomentazioni. Eppure.
Eppure vedevo adesso i piccoli angeli di Roussy. E mio padre.
Perché è a Roussy che lo abbiamo portato quando qui in Italia ci dissero non c’è niente da fare.
Nel borgo parigino dove vivono i fantasmi, dove la vita e la morte fanno a pugni notte e giorno e le vedi, le vedi che aleggiano insieme in quel mondo sospeso a un filo, che è la speranza, e l’amore.
A Roussy dove nessuno per la strada sorride, se è da solo. Ha gli occhi spenti, persi nel vuoto, e l’ansia addosso del tempo da impegnare mentre passa il tempo. Dove invece tutti sorridono a quei visi delicati e pallidi, su quelle teste tonde e lucide, su corpi sempre più minuti, le madri, i padri, i medici, gli infermieri, gli inservienti, sorridono e parlano a un fiume di bambini che chiede solo di poter giocare. O agli adulti, che chiedono invece solo di poter tornare, non per loro, per i loro figli.
Lo abbiamo portato a Roussy e lui ci venuto per noi. Contro sé stesso forse, che non ci ha mai creduto, lui si è arreso, succede sai, e non è un bene, quando ti dicono che non vale più la pena neanche di provare, e contro i medici, contro suo fratello, che, da medico e ricercatore, italiano, in coscienza e conoscenza, secondo legge ed etica e secondo amore, diceva non lo lascio andare, che non consentirò che su di lui si faccia sperimentazione. Intervento, terapia “sperimentale”, trapianto. Su protocolli che in Italia erano impensabili, sperimentali, da cavie.
Ecco allora ho letto ancora. E ho scaricato fiumi di pubblicazioni e dati da siti americani e svizzeri e israeliani e russi, per capire.
Per capire.
Prima ancora di capire quale perverso meccanismo burocratico può sospendere, come è successo per Sofia e per altri, un trattamento, evidentemente autorizzato, svolto da una struttura pubblica, e in prima istanza non da un tribunale, non su basi mediatiche, non come cura compassionevole (che vuol dire terapia, estrema ma terapia, della quale sia sperimentata una qualche utilità e comprovata la non dannosità), non come palliativo, ma come terapia, terapia avanzata, quella che si basa sull’applicazione di farmaci ancora non pronti per la commercializzazione, cui si sottopongono pazienti, sì anche in Italia, su decreto, oggi in via di modifica in seguito ai fatti occorsi, per le cui malattie non vi è disponibile in commercio alcun farmaco.
Prima ancora di capire come un accertamento igienico sanitario può determinare la chiusura di un centro autorizzato – su raccomandazione? Autorizzato resta, l’attività l’ha svolta in quanto tale – e per conseguenza determinare la sospensione della produzione di quello che fino al giorno prima veniva somministrato e prescritto come terapia.
Prima ancora di chiedermi di cosa si parla in Italia quando si parla di igiene nelle nostre strutture sanitarie; da cittadina informata, da figlia, sorella, madre di utenti di queste strutture; da utente ipermedicalizzata: che non solo dell’igiene ha fatto esperienza, ma anche della tanto decantata informazione al paziente, che è entrata in sala operatoria per un intervento al cuore senza che nessuno le avesse detto che prima di un’anestesia non si fuma, e ha fumato, come un condannato, così mi sentivo, che nessuno mi ha rassicurato con grafici, tabelle, nozioni, con un sorriso, sì, da fortunata, che ero raccomandata, sennò anche l’intervento non lo avrei avuto, che importa se poi dovevo vivere a metà, non fare sforzi, non avere figli, non arrabbiarmi anche, non volare, in aereo intendo, dal balcone, per mia scelta, nessuno me lo impediva; che sul secondo intervento, sulle vene queste volta, nessuno le ha spiegato, davanti alla necessità, benefici zero, quindi inutile parlarne, delle conseguenze, certo non necessarie, mica succede sempre, a me è successo, come è successo di non poter dormire sette giorni e sette notti dal dolore, e avere pace solo quando un medico italiano, che ha scelto davanti a questo, ai “diritti dei pazienti” di andare altrove a rispettarli, ha fatto sì che un medico più giovane, e un amico, mi prescrivesse qualcosa di adeguato a quello che mi stava capitando.
Prima di soffermarmi sui commenti all’articolo di un sedicente – quanto attento comunicatore – medico ginecologo, della cui buona fede, correttezza, scienza e conoscenza, assolutamente non dubito, mai potrei, come dei propositi, nessun fine e nessuna gloria poteva derivargli da quanto argomentava, e tuttavia da questi, dai commenti, e dalle di lui risposte, dalla fermezza, dai toni, dalla ironia e dalla arroganza anche, dalla crudezza nell’apostrofare i dubbiosi o i fiduciosi, mandrie dal cuore tenero manipolate dai potenti mezzi della comunicazione del dolore, e da quell’invettiva ferma, sicura, sprezzante, contro l’”inventore” della terapia, il ciarlatano, la strega, il cinico vampiro di speranze, non medico, non scienziato, non abilitato a quella attività – e guai a porsi e porre la legittima domanda, Come poteva allora? Guai a rispondersi, Forse c’era chi per lui, e lui la terapia l’ha solo presa in carico, da chi? Che forse è per questo che non ci ha pensato al Nobel, che c’è già chi queste cose le sta facendo, da tempo, sta seguendo protocolli, qui no, non c’era nessuno, l’ha portata lui, magari chiedersi perché, questa era un idea, ci è passato, lui o chi per lui? – da questi è emerso insieme: il limite chiarissimo della nostra medicina, della nostra scienza, della nostra ricerca, chiusa tra muri altissimi fatti da un lato di “sistema” ed educazione, dall’altro di leggi controverse, di interessi, di casta anche, di rispetto, di osservanza e rinuncia, di rassegnazione a volte, a spegnere la passione, di consuetudine; la prepotenza, l’uso delle parole contro le parole, perché laddove i media, le Iene nella fattispecie, parlavano al cuore, eppure ci provavano, lo fanno sempre, a non parlare solo a quello, e poi i social, dannati social, campane che riecheggiano a moltiplicare all’infinito un mare di realtà distorte (neanche si può obiettare tanto a questo), la scienza si impegnava a parlare alla ragione e per farlo nulla poteva se non adoperare lo stesso mezzo, la violenza del giudizio contro la violenza della compassione.
Prima di chiedermi tutto questo ho cercato e letto e studiato. Con le mie poche nozioni certo, scegliendo gli articoli più discorsivi, divulgativi, le tabelle.
Ed è vero la malattia di Sofia, questa terribile patologia degenerativa del sistema nervoso, la leucodistrofia metacromatica, non ha cura. Non ha cura certa. Ci sarebbe la prevenzione, la diagnosi prenatale. Ma siamo in Italia, anche per questo. Eppure. Eppure a cercare trovi che sono diversi i centri – basta googolare, in inglese, possibilmente, è questa la lingua della ricerca e della scienza (ah qualche cosa interessante si trova su sito dell’ospedale veterinario San Michele di Lodi, si, avete letto bene, veterinario, la ricerca senza troppe barriere a volte si muove meglio, le barriere servono, sia chiaro, ma; se ci andate attenzione ai termini, i cani soffrono di SLA non di MLD, allora bisogna leggere dove si parla di mielina, di alleli, diventa complicato, ma rende bene l’idea sulle ricerche, e sulle staminali, quelle mesenchimali soprattutto) – dove su questa, proprio su questa, e su altre nefaste patologie neuronali, come la SLA, si stanno testando, non solo su cavie, su gruppi di soggetti umani, che non sono cavie, sono persone, che vogliono vivere, vogliono provarci, loro e o chi per loro, con loro, le cellule staminali. E non cellule staminali a caso, o quelle “vietate” in Italia. Da una legge controversa e contraddittoria che da un lato vieta da un lato consente, in nome di un’etica che viene insieme tutelata e raggirata. Cellule staminali mesenchimali. Autologhe o da trapianto eterologo compatibile, una madre, per intenderci. Sono cellule adulte, presenti in misura diversa nel midollo, nei tessuti, nel sangue persino, nel grasso. Trattate, ovviamente, in funzione dello scopo. E trattate in modo diverso, anche questa è sperimentazione. Nulla si è dunque inventato Vannoni o Stamina, e se lo ha fatto in malafede, per lucrarci, pure è stato autorizzato a farlo, se non il prosieguo e l’applicazione di una ricerca. Di una ricerca che dice che i risultati sono minimi, quando ci sono, in parte ci sono, sono pochi ancora, il tempo di analisi è poco, ma, cosa importante, importantissima, le infusioni non provocano danni, riducono il dolore, producono lievi miglioramenti, dalla persistenza incerta, non rimettono in piedi, ma. Ci provano.
Si chiama speranza. E non è una brutta parola.
Si chiama speranza, tempo, amore.
Mio padre non ce l’ha fatta.
Ha vinto qualche mese, lo abbiamo vinto noi. Poco più di un regalo.
Un regalo che ci fa dire oggi non abbiamo fatto tutto. Abbiamo fatto di più. Senza togliergli niente.
Il ministro Balduzzi sull’onda emotiva prepotente dei media e delle masse ha ceduto e ha autorizzato prima Sofia, poi tutti quelli come lei con un trattamento in corso, sospeso in seguito alla chiusura dei laboratori Stamina, a completare i cicli prescritti dai loro medici. Con quel farmaco illegale. Solo loro però. Finché la sperimentazione non darà prove certe ed evidenti di riuscita. Su chi?
Ecco è questo che mi chiedo.
Su chi?
E’ troppo facile ricondurre le memorie al metodo Di Bella e al suo fallimento. Come è troppo facile sostenere, come dice sulla Stampa il professore Mercuri, del Policlinico Gemelli di Roma, Noi medici saremmo i più contenti di tutti se nascessero cure definitive per queste malattie così difficili. Però, senza dati certi, ogni terapia che promette miracoli è solo un modo di ingannare l’opinione pubblica, delegittimare i medici e far pericolosamente trascurare i corsi di cura normali. Che non ci sono, lo dice stesso lui, se non all’estero, sperimentali.
Può esser giusto dire, a sperimentazione chiusa e fallita, come per il metodo Di Bella succitato, se vuoi seguirlo, disperato, seguilo, ma fallo a spese tue. Puoi vietarlo, se uccide. Ma se non cura e non uccide non puoi neanche vietarlo. Se è l’ultima speranza di chi non ne ha, se regala un’ora, un giorno, un mese in più, dopo che la Medicina ha detto basta, mi arrendo. Perché non c’è stato il tempo, o più semplicemente in Francia non si sono arresi, fino alla fine, perché sennò anche lo sciamano, il mago, e Gesù Cristo. Perché un figlio forse no, che il genitore non glielo consente, ma una madre si strappa anche il cuore dal petto e con le mani se serve a suo figlio. Ci va dallo sciamano. Se i medici italiani, francesi, europei, americani, gli hanno detto basta, ci arrendiamo.
E il fatto è che non siamo allo sciamano.
Ma siamo avanti a qualche cosa che, sotto autorizzazione si stava praticando.
Che altrove si sta sperimentando e praticando.
Che ora si autorizza ancora. Per un po’ però.
Perché “senza dati certi, ogni terapia che promette miracoli è solo un modo di ingannare l’opinione pubblica, delegittimare i medici e far pericolosamente trascurare i corsi di cura normali”.
Dati certi dal cielo.
Come quelli che hanno riportato a casa tanti angeli di Roussy che oggi sono quasi uomini.
Non so perché nella mia mente adesso sono altre le immagini che si affastellano, immagini dai libri di scuola, quelli delle medie addirittura, parlavano più al cuore forse. L’immagine di uno scienziato – o un uomo? – davanti ad un bambino condannato dalla rabbia, lui e il suo vaccino appena testato su qualche randagio. O quella di un chirurgo, davanti a un padre che ha appena perso in un incidente la moglie e sta contando gli ultimi minuti della vita di sua figlia, che sa che non può salvarla, ma può provare a salvare qualcun altro per il quale non c’è più nessuna cura.
Cinzia Craus