C’è un treno, tutte le mattine alle nove, che parte da Termini, e va a Trieste. Buono a sapersi, potrebbe cambiare orario, cambiare itinerario, non credo, i treni partono alla stessa ora per decenni. E dunque, Trieste. Quel giorno lì per caso mi è caduto l’occhio su questo orario, così semplice trovarsi alla stazione alle nove, salire e viaggiare verso Trieste. Non l’ho mai visitata, è lì che aspetta, una città di confine. Perché Trieste. Per via della poesia di Saba, per via della bora che ce ne parlavano a scuola, che a Trieste ci sono dei ganci dove la gente si tiene ferma per non volare via, e io mi immaginavo i triestini fluttuanti a bandiera contro il vento, attaccati a dei pennoni svettanti come parafulmini. Perché c’è il mare, che forse è azzurro, ma potrebbe secondo me essere prevalentemente bianco, come certi marmi, certi blocchi di ghiaccio, ma a Trieste forse c’è anche qualche venatura di grigio, sempre se c’è la bora. E se devono contrastare quel vento, che coraggio avranno i triestini? Che non si sono arresi, e si son fatti le maniglie sull’asfalto per non volare via.
E dunque Trieste.
Forse per quelle campane di San Giusto, che mi immaginavo battagliassero con le rondini, e le ragazze ammucchiate alle finestre, che cantavano, cantano sempre per me queste ragazze di Trieste.
Ricordi infantili, che non vanno via, come la cappa di San Martino che ancora sventola dalle pagine del sussidiario. E c’è sempre dell’azzurro, come nella poesia di Saba, che lo immagino arrampicarsi in cerca della intimità sua con la città che l’ha concepito. Capita a me con Roma, e siccome sono meticcia, con certe immagini delle Novelle di Pirandello, che si confondono con i racconti delle voci amate che hanno respirato su quella terra.
Alle nove, parte il treno. Tutti i giorni. E io no. Sto qui, nemmeno mi avvicino alla stazione. La stazione mi fa una certa impressione, si parte, si smobilita, si rimugina se a casa abbiamo chiuso il gas, il quadro della luce, la porta. Stanziale, forse non è sano, ma alla salute ci ho un po’ rinunciato.
E dunque Trieste. La immagino che scintilla come fosse sotto una cupola di vetro e ai bordi schiumeggia il mare e il sole è alto.
Potrei chiedere a che ora torna il treno, perché so solo quando è il momento di andare. Telefonerò alla stazione e chiederò: c’è un treno che torna da Trieste a Roma?
Alle nove si parte, fa freddo, e non ci sono più i vagoni di una volta, con gli scompartimenti con i divanetti di finta pelle e le mattonelle di plastica raffiguranti paesaggi. Le tendine di cotone spesse e plissè che a qualcuno piace la luce ad altri dà fastidio il sole. I viaggi lunghi dove la gente parlava e si urtava un poco, all’inizio, delle ginocchia che si toccano e del solito sfacciato che si toglie le scarpe. Non c’è più quel treno lì, non credo proprio.
Ed entrare in Stazione a Trieste, mentre si sente quella voce brutale e lontana che dice Stazione di Trieste, e anche se hai solo una valigia ti pare di dimenticarti l’anima sul treno, e come farai senza la tua anima a Trieste? La bora ti soffierà via e tu sarai come una busta di plastica sospesa sui marosi.
Allora telefono, voglio andare verso un confine, un confine che si perde, se c’è una montagna sfumerà verso il cielo, ed il mare, ho come l’idea che il mare di Trieste abbia in sé una nostalgia, come di gente che si è separata.
Dovrei documentarmi, non posso affrontare una città con la poesia di Saba, ma non è forse tutta lì la città? E con la pagina strappata dal sussidiario, e quel mucchio di colombelle coi grembiuli bianchi che cantavano a squarciagola mentre la maestra spagnola pistava il pianoforte: le ragazze… cantan tutte con ardor- Quanta gente, e pensare che una volta per me la gente era solo gente e con il tempo è rimasta sempre così questa cosa, la gente è solo gente. Perché dovrebbe essere diversa la gente di Trieste? La luce? La luce di una città non condiziona il carattere dei suoi abitanti? E la terra, se fosse una terra piena di sassi quella dove si posano i primi passi, non sarebbe diverso che affondare la pianta dei piedi nel soffice della sabbia? E se poi ascende? Se una città si inerpica, non è diverso dal vivere in quel mare disteso delle campagne in Emilia, o nel verde parossistico delle forre?
Io non so niente, ditemelo voi.
E dunque, Trieste. Perché se leggo già solo il nome, mi sembra che la finestra sia aperta, che esista, triesiste, trevolteesiste, l’eventualità che si coniughi al mondo la possibilità della luminosa bellezza, di quella fresca e di poche parole, di quella spiccia assoluta essenziale semplicità, che è il traguardo, la Stazione. Stazione di Trieste!
Alle nove parte il treno. Tutte le mattine si può andare a Trieste. E se il treno non è veloce, meglio. Si pensa di più all’amore quando l’amato non c’è. Si fa lento il giorno, un tunnel è già la notte. Si riflette che al passeggiare per le strade della città si sarà delusi, perché sono le strade come tutte le strade, asfalto medio, case di mattoni, balconate spente, angoli di squallore. Sarà così l’amato? Come tutti gli altri? Sarà così Trieste, come tutte le altre città? E la parola che mi sembrerà di udire per le strade, non mi apparirà straniera? Credevo un tempo che mio padre, di Taranto, fosse uno straniero, e che parlasse una lingua straniera, e solo per un raro prodigio sapesse anche l’italiano.
Parlano la mia lingua a Trieste? Perché è un problema questo, che io scherzo in gergo, ed esclamo in tante fantasiose immagini che mi vengono dall’abitudine romana, o mediterranea, e poi, hanno tutti gli occhi azzurri a Trieste? Prego di applicarvi tutti, perfino i bambini, delle lentine colorate, non si potrebbe deludermi.
Perché ho paura? Alle nove salgo i gradini del treno, se becco subito il binario, se non mi perdo, se riesco a decifrare quegli avvisi, e se non smarrisco gli occhiali o non salta la lente dal mio occhio poco triestino e tutti a quattro zampe sul binario a cercare la lente, e invece mi devo rassegnare e salire mezzo cieca sul treno che va a Milazzo, seppure esiste un treno che va a Milazzo e che alla fine del paese si tuffa in mare e tutti tirano fuori i remi e si voga fino in Sicilia, ma questo è tergiversare.
E si, Trieste. Perché so che alle nove c’è un treno, e non ho mai saputo una cosa con più certezza, ed ogni tanto, quando qui il mare si gonfia, e grandi onde proiettano un’ombra minacciosa, io guardo la porta e penso che posso aprirla e correre a gambe levate alla Stazione, in un’ora in cui la città non s’è ancora intossicata, e pare linda e pulita, e buona. Saltare dunque sul treno giusto, non c’è ragione di sbagliarsi, e buttarsi vicino ad un finestrino e da lì non guardare più indietro, per non diventare di sale immagino, e rimanere a veder scorrere l’Italia, i palazzi che stanno piantati tra la campagna e i binari, i panni trafitti dal freddo stesi alle funi, le balconate senza fiori e quelle più decorose, le luci dietro le persiane quando sta per fare giorno, ma tutto scorre, non senza pena, non senza identificazione. E a sera, perché sarà sera, e il mare sarà nero, e la città segreta, arrivare a Trieste.