Con un occhio al mondo arabo e un altro all’Europa, è arrivato il momento di cercare di comprendere le ragioni della cosiddetta ‘Primavera Araba’ e le sue conseguenze nel resto del mondo. A prescindere da teorie più o meno complottiste, una seria analisi dovrebbe partire dal perché popoli di varie nazioni, di diverso credo religioso o politico decidono improvvisamente di sollevarsi contro i propri governi. Se la crisi globale ha portato a disordini comunque controllabili in Europa e negli Stati Uniti, ben diverso è quanto accaduto nel mondo arabo, dove i regimi totalitari hanno da sempre regolato le economie del petrolio.
Una crescente concentrazione del potere nelle mani di poche lobby affaristico-politiche-mafiose, ha portato ad un maggiore divario tra le classi sociali più ricche e quelle più povere, annientando quella che una volta poteva essere la media borghesia dei piccoli imprenditori, dei professionisti e del ceto impiegatizio, e il proletariato operaio, portando queste ultime al di sotto della soglia di povertà. Una realtà non dissimile da quella europea e in particolare da quella italiana, dove, abbandonati progetti seri di sviluppo economico, stormi di avvoltoi travestiti da politici, imprenditori, burocrati e banchieri, hanno saccheggiato le finanze pubbliche.
A differenza del mondo occidentale, il mondo arabo dispone di risorse naturali il cui sfruttamento è servito a finanziare i debiti delle cosiddette nazioni industrializzate, lasciando che ad arricchirsi a livello locale fossero i leader politici dei paesi produttori di gas e petrolio.
Centinaia di miliardi di dollari per progetti, partecipazioni in aziende private e da riciclaggio, sono così finiti nelle tasche di pochi. Con la scusa di privatizzare per snellire la burocrazia, in molte nazioni si è dato il via al saccheggio del bene pubblico, lasciando che ad arricchirsi fossero uomini d’affari collegati ai governi. Mentre aumentavano così gli oneri a carico dei cittadini, attraverso le imposte indirette, mentre si riducevano servizi e sovvenzioni statali con la scusa dell’austerity, si chiudevano gli occhi sulla corruzione e i governi varavano leggi mirate allo sgravio fiscale per gli appartenenti alle classi più ricche. Una situazione non diversa da quella italiana e più in generale da quella europea.
Un ruolo determinante alla nascita delle rivolte, è stato quello del diffondersi di un moderno pensiero democratico di sinistra, non in senso partitico, che vede nel popolo la fonte del potere, elevandone la sua sovranità al di sopra di ogni altra che sia individuale, partitica, militare, religiosa o dinastica.
Infatti, ad eccezione della Siria, dove la sinistra nazionale, rappresentata da singoli o da piccoli gruppi di potere, si è schierata dalla parte del regime di Assad, nel resto del mondo arabo, in Egitto, nello Yemen, in Tunisia, ad occupare e presidiare le piazze, protestando contro i governanti, sono stati i giovani dei movimenti di sinistra, che, abbandonata l’autocommiserazione e l’autocritica, hanno deciso di percorrere la via del cambiamento. Anche a costo di farlo con la forza, la forza di quei popoli stanchi di vivere senza un presente e senza la speranza di un futuro, ma, soprattutto, stanchi di vedere una minoranza arricchirsi in danno di una stragrande maggioranza di poveri.
Giovani, disoccupazione, assenza di servizi, sono il mix esplosivo che ha infiammato il mondo arabo, condannando il neoliberismo dell’ordine capitalistico globalizzato. Un dato accettato anche dal Fmi e dalla Banca mondiale, che dopo le rivolte hanno dovuto ammettere come alla crescita del Pil non corrispondesse la risposta occupazionale e la qualità di vita delle popolazioni arabe.
La distrazione dei governi e dei partiti, ha portato all’abbandono di progetti sociali, lasciando spazio a interessi individuali o di piccoli gruppi. Un errore che ha dato l’imput alle rivolte popolari, che ispirandosi a quel quasi concetto di ‘sinistra’ di libertà e di uguaglianza, hanno portato allo smantellamento dei regimi dispotici e alla loro parziale sostituzione da parte di istituzioni più democratiche.
Ma se il mondo arabo ha compreso che il regime capitalista non è l’apice dello sviluppo umano – nonostante le conquiste del capitalismo stesso – e che oggi ha raggiunto uno stadio che ne permette il suo superamento, in paesi come il nostro, quanto ci vorrà ancora? Ormai tutti noi abbiamo la consapevolezza di come il solo dieci per cento dei più ricchi al mondo, sarebbe sufficiente a soddisfare i bisogni fondamentali di tutta l’umanità, in termini di occupazione, salari, servizi. Un dieci per cento di quello che molti hanno rubato ai popoli, facendo man bassa delle finanze pubbliche, chiedendo o accettando tangenti, favorendo gruppi di potere economico-imprenditoriale con i quali dividere i proventi di speculazioni economiche in danno della collettività.
Il vero problema delle rivolte, quantomeno per i paesi dove le stesse sono già avvenute e dove il popolo ha spinto in direzione di una maggiore democrazia, sta nell’interesse che altre nazioni possono avere nel preservare i regimi o nel cooptare i rappresentanti delle nuove forze politiche, favorendo la sostituzione delle cricche al potere, pur di tutelare interessi geo-strategici favorevoli alle loro politiche economiche.
Strategie che possono realizzarsi a due sole condizioni:
1) che la trasformazione democratica non venga realizzata dal popolo e per il popolo stesso;
2) che quello che accade nei paesi arabi non accada nel mondo occidentale.
Se infatti la protesta dovesse dilagare in Europa o negli Stati Uniti, sarebbe veramente difficile mantenere l’egemonia delle multinazionali, proteggendo le oscene ricchezze di quel 1% dell’umanità che sopravvive grazie a meccanismi disuguali di scambio e di sviluppo, generando un mondo di nuovi schiavi.
Gian J. Morici
Cercare di capire la trama di un film da un solo fotogramma è alquanto arduo, se non impossibile. Questi primi anni del XXI secolo altro non sono che la continuazione degli squilibri geopolitici del secolo precedente.
Aumento del costo dei generi alimentari di prima necessità, squilibri eccessivi nelle bilance dei pagamenti delle più grandi potenze del mondo, uno sviluppo delle tecnologie di comunicazione senza precedenti, ritmi insostenibili di domanda sia pubblica sia privata finanziata quasi esclusivamente attraverso il debito, aliquote fiscali marginali scandalosamente basse verso l’alto, sono le cause (ma l’elenco potrebbe anche allungarsi) di questo malessere globale.
Le risorse naturali dei paesi arabi sono state la “maledizione” di questi stessi popoli. Finita l’epoca delle “sette sorelle” , le dittature locali di ogni specie si sono sostituite alle multinazionali del petrolio (anche se accreditate spesso come democrazie), incapaci di cambiare il loro modello di sviluppo economico, accumulando ingenti riserve all’estero dalla vendita del petrolio ed affamando la popolazione locale.
Grazie alle nuove tecnologie di comunicazione, le ultime generazioni hanno potuto conoscere le differenze negli stili di vita con i loro coetanei occidentali; quali opportunità stavano per perdere.
Squilibri che sono stati cercati e voluti anche dal resto del mondo occidentale, dove da oltre vent’anni imperversa una dottrina economica che da teoria scientifica si è tramutata in fede religiosa: dogma che non deve dimostrare la sua validità.
In questa precisa fase della contingenza, le rivolte di piazza della primavera araba, gli scontri in Grecia, le manifestazioni spagnole o della grande mela, sono i segnali di qualcosa di veramente pericoloso.
Il rischio è che qualche nuova ideologia totalitaria cavalchi l’onda della disperazione, riportando indietro le lancette della storia.
Come non preoccuparsi se oltre la metà dei siciliani non è andata a votare.
Alfonso Albano