È l’Italia dei veleni. Quell’italietta i cui politici s’interessano dei grandi opifici industriali solo quando il rischio della loro chiusura minaccia i posti di lavoro, che, come da sempre risaputo, rappresentano un importante bacino di voti per chi riesce a detenerne il controllo. Dopo il processo che ha portato alla cosiddetta sentenza Eternit, che ha visto condannati a 16 anni di reclusione gli ultimi proprietari dell’azienda per disastro doloso permanente e omissione dolosa di misure antinfortunistiche, suscitando il plauso dei parenti delle 2.900 vittime; dopo la condanna dell’ENI, costretta a risarcire le vittime del disastro ambientale di Gela; l’Ilva di Taranto, un altro colosso dell’industria al centro di inchieste e polemiche da troppi anni, dopo aver distrutto la vita e la salute dei cittadini, finisce nel mirino della magistratura che, con l’accusa di disastro ambientale, ne sequestra gli impianti a caldo imponendo il risanamento dell’area.
A levare gli scudi contro la decisione della magistratura, Pd e Pdl. Pier Luigi Bersani chiede che il governo faccia chiarezza sulla situazione dell’Ilva di Taranto, sostenendo che la confusione attorno al più grande stabilimento siderurgico d’Europa farà presto il giro del mondo, mentre Angelino Alfano sottolinea come la politica industriale la fa il governo, non la magistratura e non può essere un atto giudiziario a dire la parola definitiva sull’industria dell’acciaio in Italia. Secondo il segretario nazionale del Pdl dunque, nonostante ci si possa trovare dinanzi reati in danno dell’ambiente e della salute dei cittadini, a decidere dovrebbe essere il mondo politico e non chi istituzionalmente ha il compito di perseguire tali reati. La stessa teoria, potremmo estenderla anche a tutti i reati che interessano la Pubblica Amministrazione e che spesso vedono proprio i politici al banco degli imputati, con accuse che vanno dalla corruzione, alla concussione, al peculato. Una simile riforma del nostro ordinamento giuridico, siamo certi che porterebbe allo snellimento degli iter processuali e all’assoluzione d’ufficio per tutti gli imputati.
Ma i politici, dove si trovavano quando si veniva a creare l’emergenza ambientale e sanitaria causata dall’Ilva e che ha oggi portato ai provvedimenti giudiziari? E mentre la popolazione veniva esposta alle emissioni inquinanti provenienti dallo stabilimento, i sindacati, oggi così pronti a scendere in campo in difesa dei lavoratori (della salute dei cittadini no?) cosa facevano mentre dalla grande fabbrica fuoriuscivano i veleni? Assistiamo così il balletto di una classe politica inadeguata che non ha saputo predisporre e imporre misure atte a tutelare la salute dei cittadini; al sindacato, pronto a scendere in campo per tutelare il posto – ma non le condizioni – di lavoro degli operai; ai lavoratori esasperati e disperati per le prospettive di chiusura di alcune grandi fabbriche; ai cittadini, ai quali non resta altro che sperare di non finire con l’essere un numero statistico delle stragi causate dalle fabbriche dei veleni.
A far riflettere sulla consapevolezza di come taluni opifici industriali si siano trasformati da sogno economico in fabbriche di morte, il fatto che i primi a ricorrere all’autorità giudiziaria chiedendo il riconoscimento di malattie professionali o il risarcimento del danno a seguito di patologie gravi, sono proprio coloro che nelle fabbriche della morte hanno lavorato.
Così, mentre abbiamo assistito alla giusta battaglia condotta in difesa dei lavoratori dell’Italcementi di Porto Empedocle (Agrigento), nessuna voce abbiamo sentito levare in favore della difesa della salute dei cittadini quando dalle pagine di questo giornale – ma non solo da qui – denunciavamo il trasporto, lo stoccaggio all’aperto e l’utilizzo del petcoke, alla stessa maniera in cui in altre località (Isola delle Femmine e oggi l’Ilva di Taranto) ha portato al sequestro delle aree destinate allo stoccaggio dei minerali utilizzati dalle fabbriche della morte.
Nonostante la pubblicazione delle immagini, nessuna reazione si ebbe dal mondo politico e sindacale. Il petcoke venne poi fortunatamente rimosso senza colpo ferire (nè sequestri, nè processi). Ma siamo erti che anche per la salute dei cittadini sia stato “senza colpo ferire”? E’ giusto morire di lavoro o morire per chi lavora?
Gian J. Morici
Monserrato aspetta ancora risposte.