Cosa vorrà dire, quando un muscolo decide di muoversi da solo, un breve sobbalzo, un fremito. O una sezione di ciglia si contrae e un unico occhio balbetta. La risposta è abbastanza facile, pensavo, significa che non ne puoi più. Mia moglie mi stava ruvidamente accanto, in quel viaggio indesiderato verso la terra dei miei avi. Non avevano un vero diritto, i miei avi, di essere esistiti. Come non ne avevo io veramente, agli occhi di questa graziosa quarantenne di almeno novanta chili. Esistevo in realtà io? Avevano per caso diritto di cittadinanza le mie paure, le mie indecisioni, la mia ineluttabile paura del vuoto, ad esempio? Potevo esprimere desideri, come, andare ad un cinema e vedermi un film in santa pace sgranocchiando un bidet di pop corn? Decidere di stare un giorno da solo, andare verso il mare, che lei non sopportava, probabilmente da quando aveva capito che invece nutrivo per il medesimo uno sconfinato desiderio? Radunare i miei pensieri nelle brevi pause in cui non ero costretto dal suo continuo richiamo, dal suo lamento sofferente, dalla sua fame urgente e dai malanni susseguenti? Certo, certo che ne hai diritto, ma ci mancherebbe altro, se hai bisogno di parlare quando mai ti ho negato l’ascolto? Risponderebbe la giunonica. Quando mai? Appunto mai. Mai avuto ascolto. Nel bel mezzo di un discorso mi accorgevo che lei non c’era, magari cominciava a telefonare, o passeggiava via per la casa lasciandomi ad urlare sempre più forte per farle giungere il mio racconto. Fino al silenzio. Ridotto al silenzio. E il mio silenzio era riempito dalle lunghe baldanzose tirate di cantanti verdiani che scoppiavano di salute e di adipe come lei, e che si strangolavano da qualche vecchio settantotto giri. E così tra ripetizioni di strofe all’infinito emesse da ugole tracotanti, e il suo andirivieni verso il frigo, il tramestio delle sue mascelle e le telefonate con il viva voce perennemente in funzione, lo spazio anche solo per pensare si era pericolosamente ridotto. Fino al giorno in cui ero impazzito. Non freddamente, non in maniera studiata, che la cicciona lo avrebbe capito, abituata com’era a prevenire ogni mia legittima richiesta con ragionamenti che la rivoltavano in illegittima e pretestuosa. Ma letteralmente impazzito, in maniera plateale, alla Lucia di Lammermoor, che a furia di sentirla qualcosa del suo andirivieni forsennato si era impossessato di me. Era iniziata una mattina. Una mattina senza senso. Mi ero svegliato nel mio ridotto quarto di letto e avevo atteso al buio che le fessure delle persiane iniziassero a diventare viola e poi grigie e infine liquide di sole. A quel punto, di solito, ricomincio a respirare, ed anche a sperare, mi aggrappo febbrilmente a qualche briciola di contentezza e soddisfazione che la giornata potrà portare, e resto attaccato alla vita, mi alzo, faccio colazione, mentre il quasi quintale mi ronfa vicino. E invece, quella mattina, no. Quella mattina per quanto frugassi, non c’era nulla che mi permettesse di tirarmi dritto in piedi contento di essere vivo. E così rimasi nel letto, con un groppo in gola e un muscolo nella coscia che saltava a ritmo regolare trafiggendomi il nervo sciatico. Fin qui niente di rilevante, fino a che mia moglie non si svegliò, e notata la mia apparente immobilità, che comportava una inquietante novità nel rituale dei suoi risvegli, cominciò ad insultarmi, credendo così che mi sarei lanciato fuori del letto se non altro per non sentirla. Invece rimasi fermo e cominciai a battere i denti. E poi, avendo ottenuto solo una sua occhiata di disprezzo, iniziai ad urlare, e insieme a radunare i lenzuoli in una specie di vortice intorno al mio petto, mentre tutto il vuoto in cui ero caduto si mostrava nella mia gola spalancata.
Non so quanto durò ma segnò l’inizio della mia riscossa, un ribaltamento che da sveglio, da sano, difficilmente avrei potuto sostenere. Lasciai che navigasse nella sua deriva alimentare senza parteciparvi più, senza arrabbiarmi o ragionare con lei perché si limitasse. Era questo impossibile per lei: accettare un limite. Uscii di casa nelle ore meno congrue, a volte pur di non vederla dormivo in macchina, e d’estate mi infilavo da solo in qualche cinema. Rimanevo almeno due ore distrutto a guardare lo schermo, piangendo anche di fronte a film divertenti, singhiozzando sulla fine della mia vita senza giustizia. Fino a quando non piansi più, e tornando a casa dichiarai che sarei partito per le vacanze tra due giorni esatti, e che se voleva venire con me doveva essere pronta e preparare le sue cose. La sua faccia mi disse che mi temeva. Fece di si con la sua capocciona spettinata, che una volta era stata delicata e bionda, e non aggiunse altro. Telefonava ora bisbigliando, ma io la trascuravo. Non era una tecnica la mia, sentivo così, ero occupato a tenere tranquillo quel dolore sordo e nebbioso. I cantanti verdiani giacquero nelle loro frittate nere ormai rigate dalla mia furia. Lei cominciò a mangiucchiare di nascosto e poi smise. A volte mi chiamava per il pranzo, e con la coda dell’occhio intravedevo una tavola decentemente apparecchiata al posto di quei scoraggianti incarti unti che sbatteva di solito sulla tavola nuda. Ma non avevo fame, non avevo sonno, solo in mente l’idea di viaggiare, in silenzio, andare con la mia macchina e qualche valigia verso l’Isola, incontro al mio destino.
Eravamo ancora insieme, in questo viaggio in discesa, poco ci eravamo detti, ed escludevo che ci saremmo detti altro. Lei stava spiaggiata sul sedile accanto al mio e un po’ mi impacciava la sua gamba. In grembo aveva un paniere con qualche bene di conforto, e la vista di quegli involti di pane soffocati dalla pellicola trasparente mi stomacava. Cosa vorrà dire, dunque, che man mano ci avvicinavamo all’imbarco, tutti i muscoli sembravano impazziti e l’occhio mi vibrava come un motoscafo? Da lontano già indovinavo il pallore dell’orizzonte e la linea del mare che vi confina. Finalmente il traghetto ci inghiottì e cominciai a sentirmi al sicuro. Lei arrancò stupita verso il ponte e rimase su un sedile a guardare il tratto di mare che aveva tagliato l’Isola quasi fuori dal tempo, in una dimensione protetta, così come l’avevo custodita io, un luogo sempre parlato ma mai visitato. Perfino lei smise di mordere il suo panino, che intanto s’era liberato della pellicola come da una bava di medusa, appena l’Isola si mostrò, nella sua posa aspra, perentoria e a tratti magnifica. Rimase imbambolata, con gli occhi alle terre nascenti che il traghetto costeggiava per poi poter entrare in porto. In quanto a me, una volta di nuovo sulle strade dell’Isola mi parve davvero di perdere la ragione, perché mi vennero incontro, come una folla spiritata, le innumerevoli visioni che i racconti di mio nonno avevano a suo tempo suscitato, ed erano tutte veritiere, perfino i contadini, o le persone ferme nei campi all’interno, mi apparivano come le foto che a volte, nella mia solitudine, andavo a scovare in una scatola. Su tutto il sole roteava implacabile ma asciutto, e a tratti dalla campagna si passava al mare, e di lato la montagna, e dall’alto baie luminose come sogni. Era un fuoco che mi conduceva e nel quale viaggiavo. Il silenzio tra di noi era coperto dal fragore delle immagini. Finalmente mi arrampicai verso una frazione di un paese che invece scintillava in prossimità del mare. In alto trovai case dove il mio cognome era ripetuto, e infine mi fermai in un giardino, e qualcuno mi venne incontro. Ecco, qualcuno mi venne incontro. Non riuscivo a muovermi per la commozione di essere atteso. Mi abbracciarono senza avermi mai conosciuto, mi strinsero, mi guardarono compiaciuti, mi dissero che ero bello, che somigliavo a tizio, che ricordavo Caio, le donne tra anziane e giovani mi magnificarono. Non è di questo che ha bisogno un uomo? Poi si accorsero di mia moglie e mi delusero. La complimentarono senza tregua, che era “bedda”, il
ritratto della salute, che simpatica, che colori magnifici, e falsità di questo genere. Questo mi amareggiò, pensai che erano solo cortesie. Mia moglie era grassa, anzi obesa, mal vestita in quel sacco verde foglia, come i suoi occhi del resto. Quando tolse il cappello le scesero i capelli disordinati sulle spalle, e allora gli uomini ammutolirono e le donne più anziane giunsero le mani, e dissero che era bionda come la Madonna. Le lasciai fare, perché lei si aprì al sorriso, socchiuse le labbra, per una volta non per trangugiare né per ferirmi, ma per sorridere. Una volta all’interno della casa, fresca, ci invitarono a mangiare, e ci presentarono una tavola così bella, così esagerata che mi parve di svenire. Pure la camera ci avevano preparato questi miei parenti sconosciuti, e prima di salire al piano di sopra, agguantai un compare e lo abbracciai. Furono felici della mia commozione, erano gente incline al superlativo, si capiva, e io mi ci ritrovavo, dopo il gelo in cui avevo dovuto comprimere i miei sentimenti. Mia moglie salì cercando di mostrarsi leggera e aveva ancora quel sorriso sulle labbra quando aprì la valigia e tirò fuori un’altra tunica, stesso sacco ma di colore diverso, per cambiarsi per il pranzo. Si pettinò e perfino si diede un colpo di matita lungo la linea della palpebra, quella bella linea a mandorla che tanto mi aveva attratto e che ora risultava più gonfia che oblunga. Sapevo tutto di lei, di come era stata bella e spiritosa e di come poco a poco invece di parlare con me aveva preso a parlare con il frigorifero. Era di me che non sapevo più nulla. I contatti si erano persi dalla prima colica di mia moglie, dietro ai suoi svenimenti, al suo grasso, all’imperiosità delle richieste, alla malattia. Mi affacciai alla finestra. Attesi che lei fosse pronta e scendemmo. Vedendola in carne le riempivano il piatto, e guardandole un po’ tutte le donne, lì, erano belle floride, non ai livelli della mia signora, ma insomma se la battevano. Lei sembrava trovarsi a suo agio, fu molto gentile e discreta, affettuosa, e badò a non essere spiritosa, perché non tutti apprezzavano la sua causticità. La lasciai con le donne e me ne andai in paese con i miei parenti maschi, a riallacciare una familiarità costruita attraverso racconti e foto. Poi finalmente rimasi solo e andai al mare, a ricongiungermi. Rimasi finchè non fu tutto nero, e le stelle cominciarono a riflettersi nell’increspatura dell’acqua e a chiamarmi per il bagno di mezzanotte. Scesero anche i miei parenti e mia moglie. Immersi, incantati, io finalmente in pace, sollevato nell’acqua da dove provenivo, parlottavamo senza eccitazione, sembrava il mare una chiesa sotto una volta oscura, un velo di elettrica bellezza. Nel buio qualcuno mi cinse ma io rimasi con il viso al cielo, in silenzio. Cosa vorrà dire quando uno si trova sospeso lontano dalla sua vita e improvvisamente si accorge che ogni pensiero corrisponde ad una specie di preghiera, ne costituisce la sostanza? Per cosa pregavo io, mentre intanto prendevo il ritmo delle bracciate, della mia forza di uomo, del mio corpo carico di muscoli dimenticati, della mia virilità offesa dalle umiliazioni, dalla vita contraria, dalla malattia di chi amavo, dal senso di colpa per i no di troppo che avevo detto all’amore, per il delirio che aveva preso il posto della realtà, per cosa pregavo, mentre mi inabissavo cercandomi su un fondo poco illuminato, in rincorsa di quell’uomo che si era perso? Lo sapevo bene cosa invocavo, volevo il perdono.
Fuori del pelo dell’acqua ancora avvertivo qualche bisbiglio, qualche sospiro d’amore coniugale, e tenere risate, i miei cugini si amavano, ed è difficile anche su una terra così bella, forse peggio di fronte alla terribile originalità di quella natura. Fare il bagno nudi a mezzanotte, come mia nonna quasi un secolo prima, come mio padre scomparso nelle onde, un giorno, in un mare dal colore più modesto, più glaciale. Qui i piedi toccano a stento il fondo. Mi mantengo in piedi verso l’orizzonte senza luna. Sono rimasto solo in acqua. E sembro solo nella vita. Devo risolvere questa questione, perché c’è un’onda più pericolosa di questo mare. Cerco nell’oscurità la sagoma di mia moglie, ma si avviano sulla spiaggia forme delicate, avvolte in asciugamani bianchi, come anime, come vele.
Qualcuno mi intercetta e viene verso di me, che non sono così lontano dalla riva. La bella voce di mio padre, mi sembra, con il dialetto sciolto e carezzevole:
-Veni, pane schittu e spinsirato- mi dice, e mi tira per il braccio. Mai mi hanno conosciuto, e ora questo cugino mi porge la mano. Mi avvio dietro di lui. Le coppie, compresi i vecchi che sono solo venuti a passeggiare, ancora scherzano tra di loro, in dialetto stretto, che non comprendo, e mi sembra di essere in sogno. Raggiungo mia moglie e le prendo la mano. Al buio mi accorgo del colore luminoso dei suoi capelli, del profumo leggero di mare. Mi stringe, con timidezza, e mi dice: Perdonami.