Questo racconto è il frutto di una attenta ed approfondita ricerca storica effettuata da Castronovo Calogero, basato su documenti storici e fonti orali. Il mio contributo è stato solo quello di romanzare la vicenda, sforzandomi di dargli una veste da poliziesco. Entrambi ci siamo preoccupati di precisare la parte del racconto che ha una base di rifermento su fonti certe, come le informazioni tratte dai fascicoli dei procedimenti penali, da cui sono tratti questi racconti, da quella parte che ha come base le fonti orali, spesso non riscontrate. Il nostro impegno è quello di non perdere la memoria di alcuni episodi delittuosi, accaduti nella Provincia di Agrigento, dalla prima metà dell’ottocento agli anni del dopoguerra.
Uno degli episodi che maggiormente scossero l’opinione pubblica favarese nel 1914, fu il ritrovamento di un cadavere orribilmente offeso, in agro di Favara, contrada Grazia. Le storia delle orrende mutilazioni fecero subito il giro del paese, seminando sdegno e paura tra gli abitanti. I sentimenti che suscitò l’omicidio furono amplificati dalla totale mancanza di mezzi di comunicazione e dal dilagante analfabetismo, per cui la notizia si diffuse di bocca in bocca, con tutte le deformazioni fantasiose che produceva questa pratica.
La società favarese dei primi anni del novecento, si basava su una economia per lo più agricola e sulla estrazione dello zolfo, nelle tante miniere disseminate nel circondario. I più importanti mezzi di lavoro, chiaramente, erano gli animali, usati soprattutto nel trasporto delle merci o destinati all’allevamento. Questa economia alimentò conseguentemente i casi di abigeato.
Di fatto vi erano anche a Favara delle bande che si dedicavano esclusivamente a questo tipo di reato. Il reato di abigeato presupponeva anche la consumazione del reato di ricettazione, infatti gli animali una vola predati venivano rivenduti in mercati più o meno leciti. Ma vi erano anche dei delinquenti, i quali una volta rubate le bestie le rivendevano direttamente alla vittima del furto dell’animale, pretendendo un riscatto (il cosiddetto cavallo di ritorno). Vi sono rapporti dei Carabinieri e dei Delegati di P.S., inviati alle autorità giudiziarie, che raccontano casi di codesta natura. Si parla addirittura di un vero e proprio commercio di animali direttamente con la Tunisia via mare, con base portuale a Mazzara del Vallo.
Analizzato il contesto socio-economico, per meglio comprendere l’efferato omicidio è necessario narrare di una giornata primaverile di aprile, in Favara, all’ora del tramonto, quando i contadini ritornavano dalla campagna con gli animali da soma, carichi dei frutti della terra. Nella centrale Via Umberto, in Favara era ubicata la barberia di Giovanni Bruccoleri. Giova aggiungere che le barberie non erano solo i luoghi dove si effettuava la rasatura della barba o il taglio dei capelli, come avviene attualmente, ma si praticavano i salassi, si tiravano i denti e si vendeva il sale. Pertanto questa serie di attività portava diversi clienti dentro i saloni, i quali attendendo di essere serviti, avevano modo di incontrarsi e discutere.
Quel giorno, all’interno della bottega, erano presenti tra gli altri: i fratelli Antonio e Vincenzo Graccione, famosi abigeatari, e un loro affiliato. Dalla pubblica via transitava Giuseppe Morreale, che era pubblicamente riconosciuto il capo della cosca mafiosa dei “Cudi Chiatti”. Come di solito faceva per abitudine, si sporgeva dalla porta della bottega per salutare i presenti. L’affiliato alla banda di Antonio Graccione rivolgendosi al capo della consorteria ebbe la sventurata idea di profferire questa frase: “Antonio sta passando Peppe Morreale a costui le mule e gli altri animali non gliele rubi, perché l’osso da rosicchiare e troppo duro”.
Antonio Graccione, considerato il suo atteggiamento da arrogante sbruffone, accettò la sfida lanciatagli dal suo sottoposto e più per puntiglio che per vera convinzione affermò: “dammi un mese di tempo e a Peppe Morreale e ai suoi fratelli gli faccio sparire tutti i muli”. Questo dialogo non restò circoscritto alla banda dei fratelli Graccione e uno dei presenti, che lo aveva involontariamente ascoltato, si premurò a informare i fratelli Morreale.
Giuseppe Morreale replicò al portatore della notizia da vero capo mafia e con estrema tranquillità dichiarò: “le mie mule e quelle dei miei fratelli sono a disposizione di Antonio Graccione e se li può prendere come e quando vuole”.
Non trascorsero due settimane che lungo la via Umberto di Favara, ricoperta di ciottoli incastrati nel selciato, al tramonto, ritornava dai campi Antonino Morreale, figlio di Giuseppe, ed un suo amico coetaneo, che portava, al rientro del duro lavoro dei campi, due mule ed un’asina. Il padre del Morreale era andato via dalla campagna qualche ora prima e aveva affidato al figlio, appena dodicenne, gli animali da soma da riportare a casa. Era una lenta camminata verso l’abitazione paterna. I ragazzi erano sfiniti da una lunga giornata di lavoro nei campi, anche gli animali sentivano il peso sulla groppa e procedevano lentamente. La madre di
Antonio attendeva il figlio per la cena e le sorelle erano indaffarate a imbandire la tavola. Il capo famiglia era seduto su una sedia, posta esternamente all’abitazione ed anche lui attendeva il figlio che rincasasse per sistemare le bestie nella stalla.
I rumori degli zoccoli degli animali da soma si susseguivano lenti lungo la via del paese, con un ritmo conforme, tanto che i due uomini appostati avrebbero potuto calcolare con buona approssimazione il momento nel quale i ragazzi sarebbero arrivati al luogo dell’agguato. Da dietro il muro di una casa, sbucò una doppietta imbracciata da un uomo con il volto bendato da uno scialle. Lo puntò in direzione di Antonino Morreale e gli intimò: “Lascia le mule e scappa.” Il ragazzo dopo l’iniziale sbigottimento decise di non eseguire l’ordine dell’uomo armato, dando prova di grande coraggio. Dal muro opposto a quello da dove era spuntato il primo uomo ne apparve un secondo, anch’esso bendato e armato di un revolver. Il bandito puntò la canna della pistola alla tempia del ragazzo e anche lui gli intimò di lasciare le redini dell’animale ed allontanarsi. Il ragazzo non diede seguito neanche a questa intimidazione e rimase impassibile con le redini in mano. A quella scena criminosa, intanto, aveva assistito una donna che era posta su un balcone di una casa. La donna alla vista degli uomini incappucciati e delle armi, per la paura si mise ad urlare come una ossessa. Un terzo bandito, posto a copertura dei due, perse la calma iniziale e fece segno ai complici di fuggire. Intanto, il padre di Antonio Morreale, ovvero Giuseppe, alle urla della donna si allarmò, entrò in casa, afferrò il suo fucile, lo caricò, e come un invasato si precipitò per la strada temendo per il figlio. Non fece neanche venti passi dal suo uscio e trovò il ragazzo ancora scioccato fermo con le redini delle mule in mano. La donna continuava ad urlare, altra gente si raccolse e un altro testimone oculare avvisò il capo dei mafiosi della cosca dei Cudi Chiatti su cosa era accaduto. L’uomo furioso, con il suo fucile, andò in giro alla ricerca dei rapinatori, ma la sua azione non ebbe l’effetto sperato. In tutto il circondario non si vide anima viva, tranne che qualche curioso affacciarsi dalla finestra in virtù delle urla della donna. Calmatosi Morreale Giuseppe ritornò sul luogo della rapina, ma non trovò né il figlio né le bestie, che nel frattempo avevano fatto rientro a casa. In quel momento decise di vendicare l’affronto avendo ben chiaro chi aveva commesso il tentativo di rapina.
Non passarono neanche ventiquattro ore ed i fratelli Graccione gli inviarono una ambasciata nella quale specificavano che avrebbero voluto incontrarlo al più presto per comunicazioni urgenti.
L’appuntamento fu fissato presso l’abitazione di Stefano Morreale fratello di Giuseppe. I fratelli Graccione asserirono in quella circostanza che non avevano riconosciuto il ragazzo come figlio del Morreale Giuseppe e che per tale ragione si scusavano dell’errore. Era chiaro che i due abigeatari stessero palesemente mentendo ma Giuseppe Morreale volle metterci una pietra sopra ed accettò le scuse dei due malviventi rassicurandoli che l’incidente si sarebbe chiuso con quella discussione. Il capo dei “Cudi chiatti”, probabilmente non voleva alimentare altra violenza, ed una volta ricevute le scuse da parte dei fratelli Graccione, aveva di fatto ricevuto un attestato che lo voleva come indiscussa autorità all’interno dei gruppi criminali locali.
Dello stesso avviso non fu il fratello minore del capo cosca, ovvero, Stefano Morreale. Il germano vedeva in quell’atto di sfida non punito come un segno di debolezza e di palese mancanza di rispetto da parte dei fratelli Graccione nei confronti della cosca dei “Cudi Chiatti”. La circostanza che non riusciva a digerire fu la palese sfida di Antonio Graccione nei confronti del suo gruppo criminale e la conseguente messa in atto dell’attività criminosa, anche se di fatto, si era conclusa con un tentativo.
L’epilogo della storia si ebbe il 28 novembre del 1914, in prossimità del tramonto1. Antonio Graccione si trovava a casa, così come testimoniò la moglie ai carabinieri, ed espresse la volontà di andare a trovare la madre che risiedeva in via Umberto. Quella visita a quell’ora della giornata era diventata una routine per il Graccione che andava a trovare la madre gravemente malata. Secondo la nostra ricostruzione, ed in base ad alcune fonti orali, che non sono mai state verificate, Antonio Graccione appena uscì dalla casa della madre, dopo una visita durata pochi minuti, ad attenderlo c’erano: Morreale, Bennardo e Chianetta. I tre uomini non erano lì per caso, anche se Graccione non si allarmò nel vederli, poiché il loro capo, Giuseppe Morreale abitava nelle vicinanze.
Morreale col fare da malandrino che lo caratterizzava, spalleggiato dai due sgherri, propose ad Antonio Graccione di andare a vedere degli animali che avevano rubato e che avevano la necessità di rivendere al mercato nero. La vittima designata, abilmente raggirata, si convinse che i tre necessitavano dei suoi servigi di ricettatore per poter trarre un illecito profitto, sperando in un suo personale tornaconto si fece coinvolgere nell’impresa criminale di buon grado.
1 Fonte Archivio del Tribunale di Agrigento, Procedimento penale anno 1914,N°3253-del registro generale dell’ufficio del procuratore del RE .N°1768 Reg. d’Istruzione.
I quattro furono visti allontanarsi dalla via Umberto e si diressero in una zona periferica di Favara.
L’indomani mattina, Salvatore Parlato di anni 40 di Favara, commerciante di generi alimentari, con esercizio commerciale vicino all’ospedale di Favara, fu avvisato da una donna che vendeva uova, di cui non conosceva il nome, che c’era un cadavere a circa duecento metri dalla sua bottega. Poco dopo aver ricevuto quella notizia, ed essersi affacciato sulla strada, vedendo una pattuglia, composta da due carabinieri a cavallo, destò la loro attenzione2. Erano le 7,00 del mattino, ed il commerciante disse ai due tutori dell’ordine che gli avevano segnalato la presenza di un cadavere, e con la mano gli indicò la strada da percorrere. I carabinieri Giuseppe Giordano e Salvatore Morgante, raggiunsero il tratto di campagna indicato dal Parlato, e dopo esser scesi dai loro destrieri, con loro grande sorpresa trovarono il cadavere di Antonio Graccione.
Il cadavere presentava: il ventre squarciato, dal quale fuoriusciva il pacchetto intestinale, una profonda ferita alla testa, anche il naso si presentava completamente distaccato come il mento, la mano destra mozzata, molto probabilmente lo scempio sul corpo era stato effettuato con una accetta. Inoltre si contarono cinque fori sul corpo, provocati da colpi da arma da fuoco3.
Da questo punto in poi il racconto diventa una nostra ricostruzione sulla base di una fonte orale non riscontrata, il fratello della vittima Vincenzo, che aveva chiaro chi fossero i responsabili di quell’efferato omicidio, trascorsi alcuni mesi, avrebbe organizzato un agguato a quelli che egli considerava gli assassini del fratello. Morreale, Bennardo, Chianetta un giorno si trovavano a discorrere tra di loro nei pressi della chiesa della Madonna a Favara. Vincenzo Graccione a altri sei complici si stavano preparando, armati e risoluti, alla vendetta. Il caso volle che il giovane Di Stefano, vedendo e riconoscendo per strada uno degli assalitori, dopo aver scambiato qualche parola, comprendendo le intensioni del suo interlocutore e del resto della cricca, immediatamente avvisò le vittime designate.
I tre componenti della banda dei Cudi Chiatti non erano certo degli sprovveduti, infatti, camminavano armati e gli bastò quell’avvertimento per prendere le contromosse. I tre si appostarono nei pressi della chiesa, in attesa che il Graccione ed i suoi complici, fossero a tiro. Passò meno di un’ora, ed appena gli assalitori giunsero in prossimità della chiesa della Madonna, Morreale e gli altri due iniziarono a sparare. I complici del Graccione, che non si aspettavano quella improvvisa reazione, risposero al fuoco, ma mancando l’effetto sorpresa, l’attentato ai tre solidali alla cosca dei Cudi Chiatti fallì. Nonostante i tanti colpi esplosi fortunatamente nessuno rimase ferito tranne che Graccione Vincenzo, che riportò una lieve ferita al tallone.
I tentativi di vendetta si conclusero quando Vincenzo Graccione, chiamato alle armi nella Grande Guerra, non fece più rientro perché deceduto.
Calogero Castronovo nasce ad Agrigento il 20/05/1972, laureato in Scienze Politiche all’università di Palermo ha già scritto: Favara “L’assassino di Gaetano Guarino” libro sulla vita e l’omicidio del primo Sindaco del dopoguerra di Favara ed “Eccellenza vi supplico” lettere di richiesta di grazia di donne siciliane al Duce, in favore dei loro cari mandati in confino.
2 Esame di testimone senza Giuramento di Salvatore Parlato,28 novembre 1914.
3 Verbale del Delegato di P.S. Eduigio Montalbano e Brigadiere a cavallo Volpe Francesco, 29 novembre 1914