Allora io ti aspetto. Sto qui, e aspetto. Il pensiero si costruisce le sue impalcature, disegna un tanto di costruzioni, a volte concrete a volte connotate da qualche favolosità. Poi smette e racconta. Poi vede e immagina. Sembra sia passato tanto tempo e di essere alla fine.
E invece, abbiamo appena cominciato a giocare.
E’ davvero, quello che ci costringe, il sapere che non siamo eterni. Totalmente fingiamo di credere che sia serio questo campo di battaglia dove schieriamo eserciti di soldatini di plastica, disponiamo bandierine, ci attardiamo ad aggiustare un cannone, un modellino, e quando è tutto sistemato, ci chiamano per il pranzo. Dobbiamo andare via, lasciare lì ogni cosa
Io ti aspetto. E’ in fondo un compito anche l’attesa. Purtroppo arriva questo pensiero, è alla sua stazione più temuta. Scende, prende posto su di una panchina, mentre passano treni che scorrono senza importanza. Questo far finta che sia tutto vero, e non è che uno strato di nebbia. Se io ora cammino su questa banchina è per allontanarmi. Ed anche se il mio aspetto è concreto, il tempo lo cancellerà.
Seppure procedo per i campi, e la natura mi consola di tanto vuoto, di tanta breve esistenza non so rassegnarmi: che la spiga muoia, che il sole cada all’orizzonte, che la luna impallidisca, che gli astri mi rimproverino della mia gelosia per la loro interminabile vita, sempre quel pensiero mi segue, si infila nel mio cappotto, al caldo, o mi percorre come un brivido, e se tu mi interroghi, rispondo che è il freddo.
E’ la fine del gioco che dà senso al gioco? Che il gioco non sarà interminabile? Che sarà a volte stato vano enunciare le regole, pianificare le mosse, preparare la scena, fare le prove con gli attori, immaginare, quanto lungamente ogni sequenza, e poi scoprire che già quello solo era il gioco, ora via, il Tempo si ferma. O meglio, continua senza di te. Allora non vorrei essere io il tempo, e scorrere come questo fiume che non aspetta nulla? Che va senza occhi forse per la sua strada, che è il per sempre che ci fiorisce ad ogni istante a fior di labbra e subito ci mortifica con la sua menzogna?
Sto qui, e non posso fare altro. Questo paesaggio ora mi include, sono quel punto scuro accanto alla collina, il cielo ci circonda, l’erba è alta. Domani non sarò qui, è così questo stato di continua impermanenza a segnare sia la stasi che il percorso.
Una natura senza cicli, una natura immobile nella sua salute, una natura senza la morte. E’ questo il punto, è questa la domanda che sta ferma alla stazione, mentre ti aspetto, e le mie gambe si muovono all’intorno portando in giro quel fardello vulnerabile, quella carne che muta, quell’aspetto costretto ad essere fotografato per rimanere al mondo.
Credo che alcune parole non sarebbero mai nate. Speranza. Disperazione. Forse novità, festa, scoperta inesauribile, nessuna paura, nessuna paura, quella principale. Nessun turbamento, in un tempo indefinibile, in un tempo posseduto, che non scorre, che non sfugge, che non trascina, che non porta via, che non dà dolore.
Corrono via i volti ai finestrini dei convogli. Le nubi color del ferro li rincorrono alle svolte, dove il globo curva e trattiene a sé come una calamita tutto quel che gli circola sopra. Ai lati delle rotaie stoppie secche e qualche fiore. Questo ci appartiene. Niente altro.
Finalmente arrivi. Soffocheremo la sostanza del momento con qualche convenzione. Perché il momento si ripeterà all’infinito, ad ogni stazione di una vita senza fine. E non è così. Invece di tenersi le mani, e solcarsi con gli occhi, diremo poche parole, che non abbiano peso più di questo che ci sta sul capo, e cioè che ci lasceremo.
Mi stringo nel soprabito, e tu mi interroghi.
Rispondo: -E’ il freddo-
Sara Milla