Lo vidi la prima volta. Vederlo è una parola grossa. Diciamo che l’ho intuito.
Il vero effetto sorpresa è quando il suono arriva prima dell’immagine. E quel giorno fu così.
La gelateria del Foro Italico, Palermo. Celebre per un gelato che faceva ridere come nome, pezzo duro, adesso fa sorridere per il tempo che è passato, magari il sorriso è sghembo, ma si sa non si può avere tutto dalla vita, figuriamoci quando vegeta.
Chi non sapeva cosa lo aspettasse rimaneva a dire poco spiazzato, non oso pensare a quanti miocardi ha fatto saltare con la velocità di un flipper bolso.
Aveva un talento naturale nel cercare il punto in cui potesse essere visibile da tutti.
Portava i suoi costumi di scena, ma non lo notavi, continuavi a parlare come nulla fosse.
Poi tirava fuori la parrucca riccia per cantare Riccardo Cocciante, o meglio massacrarne il repertorio.
Poi prendeva un casco che suo insindacabile modo di vedere era quello di Goldrake e iniziava a cantare. “Uforobò, uforobò..”
Il metodo canoro era sempre uguale, se lo si deve per forza definire in maniera accademica era “degenerante”. Iniziava con un largo sorriso, impanato in una barba incolta ma molto da intellettuale. Ottimismo e atteggiamento di chi è scafato, puzza di palco e performances canore. Il tutto mischiato con una pazzia a ettolitri.
Iniziava la canzone conoscendo le parole, almeno di questo voleva convincerti, terminava farfugliando e chiudendo in puro lamento cantato.
Mettiamo il caso cantasse “ventiquattromila baci”. Iniziava la sua personalissima compenetrazione del personaggio dinoccolandosi come il molleggiato.
Anche se a chi lo guardava dava più l’impressione di essere stato colpito da una pallottola di precisione all’improvviso all’arteria femorale.
E attaccava facendo finta di avere un microfono.
“Con ventiquattromilabaciii, veloci passano le oree e con un falefefolliaaaa nanananavadoviaa”. E via ad libitum. Un trionfo di nonsense di un paio di minuti.
Ma non c’era canzone che non fosse corredata da una coreografia, da una parrucca, un oggetto che riportasse visivamente a quello che cantava. E poi se lo incrociavo dopo qualche settimana magari mentre ero in un altro locale, rimanevo basito, in poco tempo era capace di aggiornare il suo repertorio canoro con le canzoni del momento, se usciva l’ultimo tormentone estivo, lui lo aveva già scaricato nel suo immenso database completamente sciroccato. Facile, potrebbe pensare un superficiale, inventava le parole, che ci vuole ad aggiornare il repertorio?
Non è così, bisognava vedere la passione con cui si dedicava al suo “mestiere”, che come tutto ciò che avvampa cuore e stomaco fa scordare la cosa fondamentale, che bisogna pur campare di quello che si fa. Lui non chiedeva nemmeno la carità, non la chiese nemmeno quella sera, non voleva soldi.
Nemmeno quando faceva il suo bis, quello che nessuno sospettava, che aveva il suo romanticismo talmente irruento che frantumava ventricoli.
Faceva finta di andarsene dopo aver cantato, lasciava il suo pubblico. Ognuno riprendeva le sue faccende, qualcuno che non aveva molto da discutere con i suoi compagni di consumazione, quelli che magari definiva amici non si sa in base a che criterio, lo prendeva anche in giro, almeno così si riusciva a tirare un’altra ora sperando che qualche amica ubriaca per quella sera mollasse inibizione e qualcos’altro.
Lui colpiva allora.
Faceva finta di dileguarsi, ripiombava il solito vociare da gelateria.
Non era andato via. tornava con metodo inondatorio tra la folla ignara, da dietro un cespuglio, con in mano una scimitarra di plastica e un turbante sulla testa, già questo metteva una ilare inquietudine, ma se qualcuno non si accorgeva che era alle sue spalle era la fine. Era da terrore puro.
Perchè arrivava vicino allo sventurato urlando. La famosa sigla: SANDOKAAAAAANNNNN!!!.
Inevitabilmente seguita dalle “stime” (auguri di eventi funesti) di tutti coloro che non se lo aspettavano.
Quando lo vidi, passato u’ scantazzu, la paura, fu la tenerezza il primo sentimento, fu una enorme ammirazione per l’incoscienza e la convinzione di essere davvero uno che calca assi da palcoscenico.
Fu la sensazione che ci vuole follia e pochi minuti per entrare nelle esistenze altrui.
Perchè se un giorno la mia anima andasse in pezzi io non vorrei dimenticarlo, lui, lui e il suo Sandokan da infarto.
Quando ci sono delle calamità naturali come un terremoto e vanno in pezzi opere d’arte si cerca di applicare il metodo dell’anastilosi. Consiste nel ricostruire cercando di recuperare il materiale originale pezzo per pezzo con pazienza e profonda e certosina passione.
Se qualcuno si occuperà di recuperare la mia anima eventualmente andata in pezzi, cerchi per favore questo piccolo pezzettino risalente a quella sera, la sera in cui il cuore stavo per vomitarlo per lo spavento di un pazzo, un dolcissimo pazzo che mi ha urlato SANDOKAN!!, a tradimento. Facendomi capire una lezione.
Ci sono esistenze equilibrate, ed esistenze in equilibrio, le prime non sgarrano, le seconde vivono sul filo del disturbo mentale con quel fastidioso gracchiare che ti avvisa quando il mondo va in una direzione che affoga nella pece viscosa della normalità, che si spegne in occhi che pur essendo vivi, non vivono. I pazzi forse dilapidano amore, lo prestano senza fare gli usurai, non si chiedono quando glielo ridarai indietro, i pazzi fanno equilibrismi pur non essendo equilibrati, solo per un tuo sorriso, perchè tu per un attimo possa deragliare dalla rotaia del nulla in cui la vita credi di scopartela e invece ti scopa lei piena di angosce. I pazzi, ci fanno credere davvero di aver sbagliato tutto, per questo li evitiamo. Per non fare della nostra vita un catino di consapevolezze, un mazzo di rischi e passioni non seguite, per non ammettere a noi stessi che le voci esterne hanno contato più della persona che avremmo dovuto amare davvero per quella che era, prima che il golem dell’inquadramento la cambiasse. Noi stessi.