Non c’è nessuno più in cammino di chi è sempre fermo. E pensa. E dopo si accorge che era andato troppo lontano e risuscita al presente. Non male, non male, pensa. Ma c’è sempre una certa tristezza, mentre si alza e va a preparare la cena. Ha consumato il suo giorno tra quei mattoni, e il suo spirito, tornando, si sente costretto. E’ come essere giovani in riva al mare e scordarsi di esistere. Si torna quando ti chiamano, ti tirano il pallone, ti invitano a giocare. O ti abbandonano. Scende la sera e sei di fronte all’acqua, ancora, e la luna ti guarda dal fondo. Ti sollevi a malincuore e torni a casa. Ma di possibilità ne hai ancora tante, e sotto i lampioni continui ad immaginare, senza lucidità, in una piacevole confusione, della vita che avrai.
Ora non c’è poi così tanto tempo. La sola cosa da osservare è l’orario, in cui quel tempo va suddiviso così da non sembrare illimitato ma neppure così breve. Solo illusione, che la luna stia ancora sul fondo del mare e non invece al posto suo. La coppia del piano di sotto è rientrata, comincia a litigare. Anche questo segna il tempo, meglio dell’orologio sulla mensola, che ogni tanto si incanta. E’ l’ora di riempire d’acqua la pentola e metterla sul fuoco, e così esegue, mentre loro si rinfacciano le stesse cose, da almeno cinque anni, calcola, da quando sono venuti ad abitare lì sotto animando il silenzio della palazzina.
Tacciono solo per mangiare e lavarsi i denti, suppone, mentre lui parla a se stesso, con una voce sommessa, ragionevole.
In strada i ragazzini rientrano vociando alle loro case, riportandogli in qualche modo l’odore della sera, dei giochi, e dei progetti. Gli piacerebbe ancora sedersi alla tavola dei suoi, in estate, al lampioncino fioco del balcone, e mangiare i pomodori conditi e l’uovo sodo. E’ ancora una buona idea, e prende due uova e le mette a bollire. Non che abbia fame, ma è l’ora, bisogna onorarla. Suona la campana il tocco della sera. Si illumina, nel cielo ancora azzurro, Venere. Non ha preghiere da esprimere. China il capo sulla sua cena, ascolta i merli rincorrersi, qualche cornacchia lancia il suo richiamo. E’ quasi notte, ed è Estate.
Scende il buio, e non si distinguono i casamenti se non per le luci che li punteggiano. Qualcuno mangia all’aperto e poi accende una sigaretta. Forse non parlano molto, forse sorridono. Gli sembra di essere al centro di un anfiteatro dove ogni giorno si consumano tragedie, ma con grande dignità. Li avvolge ora un po’ di fresco, e un chiarore lunare. Era qui, su questo terrazzo profumato, che le ha chiesto di rimanere. E’ andata bene. Possiamo dire così. Dopo il fresco della sera non c’è che il vuoto del letto, e la lettura incomprensibile, non riesce più a concentrarsi, di nuovo si sovrappone l’immaginazione. Quello che avrebbero potuto dirsi ancora lui lo ridiscorre ogni sera.. Non importa, è andata così. Si dà tempo di rigovernare con lentezza, e la sua età lo giustifica. In luogo delle mani forti della sua gioventù, ora ci sono due attrezzi magri ma ancora intelligenti.
Il tempo di fare notte, e poi quello per fare mattina. Il tempo per nulla. Suonano alla porta. Gli duole distaccarsi dalla cucina e dalla finestra sul terrazzo, entrare in casa, nel silenzio, nel buio che fa sconosciuta la casa. Accende la luce e apre senza prima guardare dallo spioncino. E se ne pente. Di fronte a lui c’è Antonietta, quarto piano. Ormai le persone le classifica così, rispetto allo spazio che occupano, al luogo dove le ha viste per la prima volta, in questo modo riesce a ricordare.
“Adesso scendo, prendo le chiavi, chiudo la porta.” Scende senza sentire umido tra le gambe e macchia le scale. “Devo chiedere al secondo piano, al vecchio. State buoni piccoletti, buoni, i biscotti, dopo!” Fa confusione, le tre porte sul pianerottolo non vogliono stare ferme. Infine chiude gli occhi e si attacca a un pulsante. “Questo è rimbambito, non apre, ora vado via, oh bella, questo braccio non lo muovo, ma quale braccio è. Piove, il pianerottolo è bagnato” Si apre la porta e vede il vecchio, lo vede a metà “ah ah, ho il braccio cieco” dice, e gli crolla sullo stuoino. Ancora lo vede, il vecchio, che rimane a guardarla. Poi finalmente lui si piega e lei crede di allungare le braccia.
Invece è un corpo morto, e fa un cattivo odore, e il vecchio non sa come prenderla, e così chiede aiuto. Suona i campanelli delle porte accanto. Si sollevano di scatto le coperture degli spioncini e poi ricadono di colpo. Nessuno apre. Ai piani superiori i cagnolini di Antonietta abbaiano. Sembra passare del tempo, lei che fissa il vecchio ma quasi non lo vede più e lui che la guarda stupito. Allora lui rientra e torna con un telefono, chiama l’ambulanza. Le porte restano chiuse, e al vecchio viene da pensare: -Aiuto-
Dopo, gli sembra che la notte non sia più così silenziosa. Chiude con scrupolo la porta della sua casa e segue Antonietta nell’ambulanza.
-Lei è un parente?-
-No, sono un vicino-
-Non potrebbe salire-
-Allora me ne torno a casa-
-Va bene, facciamo un’eccezione-
Si richiudono gli sportelli, con fragore. Lui si siede e guarda Antonietta. Che è bruttissima. Passi quando la incontrava per le scale che ancora si dava una sistemata, ora è terribile. Ha pochi capelli mezzo bruciati dalla permanente, e un accenno di trucco nero infilato nelle rughe intorno alle palpebre.
Pensa che anche lei un giorno doveva essere stata graziosa, e cerca di guardarsi nel riflesso del finestrino dell’ambulanza. Non è più il ragazzo che conosceva, la sua immagine muta rapidamente.
Il dottore controlla i parametri di Antonietta.
– E’ già capitato che fosse in queste condizioni?-
Lui alza le spalle. Non sa. Non si frequentano, si incontrano per le scale, a volte sul portone. Forse non ha familiari.
Il suono della sirena all’interno è una specie di incubo. Avrebbe preferito non salire più su una autoambulanza. Guarda fuori, la città scorre veloce, riconosce il quartiere ed anche porzioni di una zona limitrofa, ormai completamente cambiata. Finalmente la sirena si spegne e arrivano a destinazione. Si chiede perché mai ha seguito questa qui. Vedere l’ospedale non gli fa bene. Ne ha paura. La metteranno nello stesso reparto dove ha perso sua moglie. Prima di entrare nel pronto soccorso alza lo sguardo verso il cielo. La sagoma nera dell’edificio ostacola la luna. Segue Antonietta sulla lettiga, e poi si ferma. Lo pregano di aspettare. Lui si siede e Antonietta scompare dietro una porta. La sala è semicircolare, ci sono parecchie persone. Chiude gli occhi, il neon delle lampade è troppo fastidioso. Non gli importa molto di Antonietta. Spera solo di non sentirsi male. E’ tardi, dovrebbe essere a letto con il suo libro fermo a pagina dodici, e tutti i pensieri che lo tengono su quel foglio che è simile ad un tappeto volante. Lui va lontano, indietro, spesso. Avanti non c’è niente. Si strofina il viso con le mani e poi si guarda intorno. Lettighe, sedie a rotelle, bambini in braccio ai genitori, telefonini che stridono in quell’atmosfera frigida, al neon, sono tutti lividi, stanchi. Qualcuno esce e lo cerca:
-La signora ha avuto una ischemia, piuttosto importante, ora la portiamo a reparto.-
Le stesse parole, vorrebbe picchiarli tutti. Come si permettono di dirgli le stesse parole. E’ passato poco tempo, quegli anni brevi, quella corsa brutale, e ritrovarsi di fronte alla stessa sentenza. Annuisce. Che fare? Portarle della biancheria. Due asciugamani. Conosce bene l’elenco. Torno domani. Conosce gli orari. Sa tutto. Si ritrova sul piazzale dell’ospedale. Non c’è neanche un taxi al posteggio. Va verso la pensilina degli autobus. Chiederà, per sicurezza. Si siede sotto il tetto a conca che ripara il sedile. L’aria dà più sollievo. La zona è buia, e il cielo ha una tonalità di argenti. E’ fragile la sua tranquillità. Non sarà mai più al riparo, crede.
E’ sveglio prima del mattino. Si lava e si veste e poi va a suonare al quarto piano, dalla vicina di Antonietta.
Le spiega cosa è accaduto, e chiede alla donna se per caso ha delle chiavi di riserva, così da trovare della biancheria da portare all’ospedale. Lei va a prendere le chiavi e gliele porge senza parlare. Non chiede molto, ha fretta di congedarlo. Il vecchio armeggia con la porta di Antonietta, mentre dall’altro lato i cani ringhiano, poi abbaiano, infine guaiscono. Quando apre loro corrono a nascondersi. La casa non ha le tapparelle abbassate e la luce del mattino penetra rischiarando i pavimenti sporchi e le sedie allineate lungo il corridoio su cui sono ammucchiati degli abiti. Lui chiama i cani, con voce pacata. Escono fuori con la coda tra le zampe. Va verso la cucina per vedere di sfamarli. Trova delle scatolette di pessimo cibo e gliele versa nelle ciotole. Cambia l’acqua. Sorride. Sono affamati. Sono due piccoli cani ricci, molto buffi, piuttosto brutti. Va verso la camera da letto e rimane sorpreso dal terribile disordine. Non apre i cassetti, sono già aperti, ma non si distingue bene la biancheria sporca da quella pulita, e lascia perdere. Mentre esce, i cani scodinzolano. Va verso il grande magazzino sulla strada di fronte e compra un pigiama, due paia di mutande, due magliette di cotone. Si accorge di aver cercato la misura di sua moglie, mentre Antonietta è molto più bassa e magra. Si fa consigliare dalla commessa. Mentre ritorna verso casa incontra l’amministratore della palazzina. Abita anche lui nel palazzo, precisamente sul suo stesso pianerottolo. Si chiede, dopo che il vecchio gli ha riferito le notizie, se non sia il caso di affidare i cani all’ufficio d’igiene. Lui non risponde. E’ troppo sorpreso. L’uomo continua a scodellare preoccupazioni, per concludere che poi questa Antonietta è proprio un problema. Intanto hanno raggiunto la fermata e lui si ferma per aspettare l’autobus che lo porterà all’ospedale. L’altro va via, ha la macchina in garage e sta facendo tardi.
C’è molta gente che aspetta, il traffico è già intenso, l’aria frizzante, anche se un velo di umidità rende aggraziato l’orizzonte sopra le case, il cielo e le strade sembrano tremolare come in sogno.
Passa il tempo, molte macchine, si accende di rosso e di verde il semaforo all’angolo. Finalmente arriva il bus e tutti si ingegnano di salirci sopra, comprimendosi il più possibile. Per due volte le porte non riescono a chiudersi, poi qualcuno sale sui piedi di un altro e l’auto parte. Ci sono tanti odori, e facce, e chiacchiere, e movimento. E’ tutto così diverso dalla lentezza della sua giornata. Molti sono abbronzati e la sua mano che si aggrappa al mancorrente è bianca, attraversata da lunghe vene interessanti e grigie. Le sue mani non accarezzano da tanto tempo, né gesticolano per parlare. Stanno appese alla fine di braccia lunghe e sconfortate. Tiene stretta la busta di carta che gli ha consegnato la commessa. In vista della sua fermata cerca di farsi spazio per poter scendere. E’ quasi divertente quell’acciottolio di corpi, quel rotolamento di spalla in spalla, quella spinta per essere espulsi dall’auto come si dovesse rinascere. Si trova davanti all’ospedale e ricomincia ad avere paura. Ripercorre la strada che faceva tutti i giorni per vedere sua moglie. Ma siccome non è lei che va a trovare, ha lo stomaco libero da quel ferro che lo attraversava tutte le volte che praticava quella salita. Chiede alla caposala di Antonietta. E lei gli dice di aspettare un attimo, il dottore gli parlerà tra poco.
Allora il vecchio cerca con gli occhi una sedia e ci si lascia andare. Guarda la busta che tiene ancora stretta e sa che è inutile. Pensa ad un abito per Antonietta, pensa che non lo cercherà tra le sue cose, ne comprerà uno nuovo. Pensa al silenzio e alla solitudine della notte di Antonietta. Agli occhi che lo guardavano senza contemplarlo. Pensa ai cani. Ai campanelli suonati a vuoto. Pensa al deserto, così bello, luminoso e nobile, e alla disperazione delle loro vite.
Quando esce dall’ospedale il sole è già secco, imperioso, in mezzo alla città. Uscire in strada gli dà l’idea di entrare in una voragine e trema. Riflette che sono poche fermate e che andrà a piedi. Vuole camminare e vedere di trovare un negozio di abiti. Deve compiere molte azioni, è esperto. Una volta nell’atrio fresco della palazzina si dirige al quarto piano e apre la casa di Antonietta. Dà di nuovo da mangiare ai cani e poi cerca i guinzagli. Sul portone c’era un foglio stampato al computer dall’amministratore che indiceva una riunione straordinaria, e all’ordine del giorno c’erano i due cani puzzolenti di Antonietta, il rinnovo dell’amministratore, le pulizie delle scale da affidare ad una nuova ditta. I cani sono felici di uscire, scodinzolano, lo controllano di continuo con occhiate ansiose, uggiolano. Li porta ai giardinetti, raccoglie i bisogni. Una volta a casa scova i loro cesti, li mette all’aria, sistema delle pezze pulite sul fondo delle cucce. I cagnolini si accoccolano. Lui li accarezza e loro gli leccano la mano. Consulta la rubrica di Antonietta e telefona a tutti quelli che hanno lo stesso cognome. Qualcuno c’è, un lontano cugino. Cerca, con delicatezza, di dirgli che lei non c’è più. Il cugino non ne vuole sentir parlare, gli dispiace, ma è tanto che non ha più contatti con questa parente. Gli altri non rispondono, e francamente i numeri sembrano obsoleti. Guarda i cani, hanno gli occhi socchiusi e non sono poi così brutti. Controlla l’abito che ha comprato. Un bel tallieur leggero, celeste come gli occhi di Antonietta. Fa una carezza ai cani ed esce. A casa sua scrive in carattere stampatello un messaggio per i condomini.
Se sono passate delle ore non se ne è accorto. Non erano state ore felici. Forse utili. Domani sera prenderà la parola alla riunione di condominio: sottoscrizione per il funerale di Antonietta, nuova casa per i cani, la sua, e decadenza dell’amministratore. Lui si che è un problema.