Mi trovo perso. Perso tra i miei pensieri, è una contraddizione ma mi piace, trovarmi e perdermi, tanti si trovano credendo di essersi persi. Io mi perdo nelle mie voglie, a volte difficili nella loro realizzazione. Stavolta no.
Sono a camminare con una voglia di bermi una birra. La taverna lo sa e mi aspetta fiduciosa, non mi sono reso conto di quanto un processo mentale mi abbia fatto allontanare, in effetti fatico a realizzare dove mi trovo. Quando entro, sembra di stare in una confraternita. Un ordine templare con regole e codici noti solo agli adepti. Io evidentemente non lo sono. L’’ho capito dallo sguardo cumulativo che mi lanciano. È lo sguardo che non perdona, quello che uccide sussurrandoti “tuquidentrononcentriuncazzo”.
Loro sanno, di vino e tempo passato a familiarizzarci. Sanno di storie e tempo passato ad annacquarle, anzi avvinarle. Ma piccole. Insignificanti per chi ha il mondo a cristalli liquidi e immagini ad alta definizione. Mi trovo a entrare e già mi sono perso, nel tentativo di recuperare l’ultima storia che avrei voluto creare ma so che me ne manca il coraggio, oggi non ho voglia di giocare con le parole. Ho paura dei fantasmi che evoco quando scrivo. Ultimamente non riesco a tenerli a bada e se li lascio parlare troppo sono pericolosi. Mai avere confidenza con gli spettri che ti si muovono dentro. Io li considero fonte di ispirazione, ma non voglio una amicizia con loro. Ti adescano, ti invitano nei loro sotterranei, mostrandoti la parte di te che meno ti aggrada.
Così trovo conforto in questo nido etilico. Non un locale né un pub né un night. Una taverna, come quando andavo a prendere il vino con mio padre, ambienti improponibili come negozi, gestiti più da una famiglia che da veri e propri negozianti, quell’essenza che entrando ti rendeva già ebbro. Con un odore a metà tra un bianco leggero e aceto.
I presenti mi hanno squadrato, appena entrato, cercando di darmi una collocazione nel loro archivio. Fini psicologi in gusci di ubriachi. Quando il mondo lo capisce meglio un brillo che un sobrio.
Per loro sono una testa di minchia, inaffidabile, passo sicuro, non incerto verso il bancone, come di chi consuma male e in fretta, l’ubriacone abituale ha il passo esitante, la suspence ballonzolante ma l’esperienza di chi sa cosa scegliere. Mi guardano come si guarda un ragazzino che non sa nemmeno spogliare una donna. Per loro il vino è una donna. Forse alcuni di loro non piacerebbero nemmeno a una donna, o non vogliono piacergli più, oppure non vogliono pensare a come l’hanno persa. Ma il vino lo amano, posseggono e concupiscono tutte le sere che Dio manda in terra.
Io non ho la loro ars amatoria, si vede, non mi accolgono nel gruppo. Non so nulla di preliminari, non so spogliare una bottiglia, fare scaldare il contenuto carezzando delicatamente il bicchiere.
Non mi accolgono, non mi fanno cenni d’intesa, uomini in canottiera che sfumano accanto a gessato costoso, uomini di diverso ceto, di diversa famiglia, con gli stessi casini, ognuno col portafoglio pieno di paura, con figli da sfamare o a cui togliere l’ennesimo capriccio di un giocattolo nuovo.
Ognuno con moglie, fidanzata o convivente scassacazzi, che fa a gara col datore di lavoro altrettanto scassa cazzi , in gara anche con chi il lavoro lo vorrebbe e li guarda con un misto di odio e gratitudine quando arrivano con lo stipendio e offrono da bere, ma c’è anche chi vive di espedienti, chi ha appena rubato un motorino con cui tirerà su l’ultima dose, c’è un ragazzo appoggiato a una colonna che sembra proprio essere lì per questo, Pasolini avrebbe finito di cercare la faccia giusta per un film.
Sono tutti uguali, niente censo, niente 740, niente confidenze personali, lì si va per dimenticare e se qualcuno ha la sbornia malinconica si fa finta di ascoltare, ma in fondo, neanche tanto in fondo lo si manda a cagare. I gradi etilici come la Livella di Totò. Innalza gli animi dei più abbrutiti e abbassa e svilisce chi ha la puzza sotto il naso.
Io guardo, anche se non troppo, vedo ragazzi che scherzano con uomini fatti, colgo in quel camionista la malinconia nel guardare un ragazzo con troppo passato e incerto futuro, intento a scherzare con lui, dopo l’ennesima moto rubata. Io guardo ascolto e vedo tentativi estremi di far finta che tutto finisca lì dentro a quelle ore passate a fuggire al sole che tramonta e che domani si presenterà implacabile.
Nessuno ascolta tutti parlano, calcio, donne, vita. Fino a che entra lui.
Cosimo.
Qualcuno comincia a descriverlo, forse a vantaggio mio che non so chi sia. Il mito, l’uomo con un carniere pieno di donne, cute lentigginosa, viso cotto dal sole che sembra reduce dal mare che lo ha visto duellare ad armi pari con un pescespada. Ma lui è lì col pesce stramazzato tra le travi dell’attracco, stanco, morente e ammirato, orgoglioso di essere ucciso da un uomo con due palle cubiche e facilmente girevoli. Due cubi di Rubik.
Cala un silenzio che onorerebbe tutti gli dei e tutte le religioni. Cala un silenzio in cui anche le travi del pavimento si danno di gomito e si raccomandano tra loro di non scricchiolare troppo per non rompere l’atmosfera e la sacralità. Uomini primitivi che guardano come davanti al primo fuoco, avvocati con troppe cause perse che pregano un Dio stanco di far in modo che Cosimo si decida a parlare.
Ma Cosimo non parla. Pettina con la mano i suoi capelli radi e grigi, almeno così la luce li fornisce al quadro impressionista del momento. Io intuisco che è meglio non innaffiare la mia gola, il mio pomo d’Adamo potrebbe bloccarsi per la tensione che si respira. Sono sicuro che qualcuno dei presenti telefonerebbe a Ennio Morricone, commissionando una buona western soundtrack adatta a onorare lo sguardo carico di storia di Cosimo.
A una rapida occhiata il momento è grandioso per un estraneo che guarda per la prima volta, per uno come me.
Non sta fermo all’ingresso, Cosimo entra e quasi non inciampa tra il suo bastone da passeggio e i suoi mocassini che chiedono pietà per quei piedi a lungo sopportati. Ascoltando bene credo invochino proprio una giusta e pia sepoltura nel cimitero delle scarpe presso il settore della classe millenovecentodiciotto.
Quella che in penombra sembrava una giacca di pelle è un vestaglione di flanella di fantozziana memoria. Penso che sia solo un povero vecchio che raggiunge gli amici, ma non è così. A me sembra così. Ma i presenti non perdono quella alea di rispetto che io invece mi sto già mettendo in tasca.
Non perde niente tutto il momento, io sì, pensavo di poterci passare sopra di mettermi di spalle a ripensare ai cazzi miei, ma mi trovo costretto a rincorrere gli accadimenti a cercare di capire che cosa ha questo vecchietto di così interessante.
Si siede lentamente, i pantaloni che sembrano aver vissuto con lui un legame morboso, a pelle e a odore, nessuno dei due si è mai staccato dall’altro e ha tradito con un sano bagno la relazione.
Colore indefinito, ovviamente tendente al marrone pastello di macchie di cibi forse di sapore antico. Cucinati, mangiati in parte, in parte viventi cibandosi a loro volta di stoffa.
Si siede e tutti fanno capannello, si forma una cupola più stretta e impenetrabile di quella di Cosa Nostra.
Io sono curioso, ma impaurito, dovrei farmi spazio, spingere qualcuno, approfittare delle sedie che ancora residuano per accomodarmi, per capire che cosa deve dire Cosimo, di così importante da calamitare occhi, bicchieri e sguardi. Sembra davvero un magnete cui nessuno può resistere.
Lo vedo,ma lo vedo sempre meno, il mio è un punto precario per osservare, perderò presto.
Fa cenno di volere qualcosa da bere. Il camionista si alza, il meccanico, per quanto sbronzo gli fa spazio e tiene occupata la sedia con la gamba, l’avvocato dice al camionista che stasera tocca a lui pagare, il ragazzo dice che gli è andato bene un affare, ha piazzato un ricambio di un’auto rubata e vuole festeggiare. Il geometra e il disoccupato si chiamano fuori subito dalla competizione. L’oste acchiappa un rosso pregiatissimo, lo intuisco dalla polvere e dalla sua posizione lontana da artigli di clienti abituali e cattivi pagatori. “faccio io”. Sentenzio, levandogli la bottiglia e mettendo venti euro in mano all’orco in grembiule e infradito. Mi guarda come si guarda un trancio di bue da squartare. Poi gli occhi smettono di fiammeggiare, ho guadagnato il mio lasciapassare per l’uditorio, mi conquisto anche l’ammirazione e il consenso temporaneo degli altri prendendo altre due bottiglie di vino per loro. Mi fanno spazio, Cosimo intuisce che c’è un astante nuovo e si appresta a dare lo spettacolo migliore, stasera non si racconta ai soliti, stasera c’è qualcuno da meravigliare, un lattante delle bettole da lasciare a bocca aperta.
Gli occhi si fanno sempre più assetati, fanno a gara con le bocche guarite da vino sparato in gola. L’oste calcola i tempi teatrali, aspetta che Cosimo descriva l’emiciclo intero degli spettatori col suo sguardo liquido a metà tra Clint Eastwood ammuffito e glaucoma.
Poi i suoi occhi incrociano quelli dell’oste, che lesto acchiappa il topo dell’istante, veloce ma mai troppo.
“allora Cosimo?, stavolta?”
Cosimo sorride smaliziato, si stringe il cordino della vestaglia, si vede troppo la canottiera a costine, anch’essa memore di tempi migliori durante il boom del cinema muto.
“una bionda, giovane, giovanissima, da denuncia penale se solo dico l’età, un culo da leggenda che favola è dire poco, come maneggiare un’anguria, di quelle piccole. Anzi è stato proprio come mangiare un’anguria.”
“sì adesso mangiare un’anguria è come farsi un culo!”, rumore di gesso sulla lavagna, disco in vinile cui salta la puntina, ogni rumore sgradevole e scartavetracoglioni, possiate immaginare era lì, personalizzato alle orecchie di ognuno, ognuno si volta verso l’autore della nostra infelicità, io come gli altri ormai, uniti nel pubblico ansioso di storia, guardiamo il ragazzo per nulla spiritoso e ironico nel tentativo di esserlo.
Cosimo richiama all’ordine con lo sguardo, superiore alla battuta non risponde neanche, non commenta, ha già perdonato, graziato l’infelice che ha rischiato la morte per mano collettiva.
“come un’anguria, le mia mani sulla buccia liscia e vellutata che erano le sue natiche, l’ho percorso tutto quel frutto proibito benedetto dal signore, ho pazientemente cercato il punto dove più fragile si sbucciava, dove ho sentito l’umido delle sue richieste, delle sue preghiere sconce che mi diceva sottovoce, mentre la carezzavo lì dove ancora troppo pochi l’hanno scoperta.”
“assaggiami, mi ha detto, assaggia il succo dolce del mio frutto, ho chinato la testa e l’ho bevuta, dolce come un miele, acerbo come il sapore selvatico del bosco”, ero arrivato davanti, al suo monte peloso dei futuri peccati, non ancora nemmeno pensati, “Con me ha viaggiato, nel fiume del senso perduto e ritrovato, dell’erotismo improponibile che ogni donna desidera che gli venga proposto almeno una volta nella vita, ho usato il mio membro virile come un pennello, ho tinteggiato d’azzurro cielo le vette che la mia sessualità le ha fatto vedere e che con nessuno rivedrà, crescendo sicuramente vivrà con un uomo il cui potere erotico le dipingerà la vita di grigio”.
Una platea attenta e silenziosa, una cattedrale con dentro solo lo Spirito Santo a vagarvi, avrebbe creato più casino di quella conventicola esistenziale radunata di fronte a quell’inaspettato amatore.
Il camionista posa il bicchiere di birra, trattiene educatamente un rutto poderoso e tenorile, ma ricacciandolo in gola ottiene un curioso gorgoglio, che sa di lavandino finalmente sturato.
Alza la mano, novella matricola universitaria del sesso, Cosimo, generoso, concede che gli venga data udienza, con sguardo indulgente lo accoglie pronto a ascoltare i suoi dubbi.
L’orso si aggiusta la voce e la sedia, a molti sembra gli scappi una scoreggia, ma tutti guardano l’avvocato dietro di lui, che, mi sussurra il mio occasionale vicino, non le trattiene mai. Per questo si siede sempre accanto al camionista, così confonde le acque e rinnova la discriminazione di galateo delle classi sociali.
“descrivimi le bocce, Cosimo”, dice il camionista, ma data la solennità con cui parla, avrebbe ben potuto dire “indicami la strada per la redenzione e la verità, o maestro”.
“Due cantalupi” – il mio vicino previene la mia richiesta di chiarimento illustrata dalle mie pupille smarrite a cercare un dizionario di pronta consultazione, in breve, cosa cazzo sono due cantalupi?, Cosimo è siciliano e da dove viene lui i cantalupi sono i meloni, quelli gialli di buccia e arancioni di polpa – “ma non acerbi, non con la sorpresa che li apri e li trovi che sanno di acqua amara, sono dolci, di un sapore vivo e rinfrescante.
“ il colore non ingannava, il sapore lo seguiva a ruota, glieli ho leccati fino a consumarli, in un ondeggiamento ritmico che dettava il mio organo virile ormai senza freni. Ho scatenato un’orgia di passione. bellissima, anche da esausta, anche da struccata, anche da sfinita. Da vero gentiluomo ho lasciato che decidesse lei quando andar via, le ho lasciato un buon caffè e un cornetto sul tavolo, io sono discretamente andato via e sono venuto qui”.
“dimmi come l’hai conosciuta” chiese l’Oste. La domanda era pertinente, e avrebbe saziato ogni mia curiosità legittima. Cosimo non è ricco, non è potente non è famoso, non mi sembra brilli per fascino, nonostante la poesia da avanspettacolo del suo parlare. Eppure ha ammantato il locale di un alone di credibilità. Anche io ormai sono convinto che questa fantomatica Dea costretta in canoni di bellezza umana e un po’ ortofrutticola (tra meloni, cantalupo e frutti di passione mi sembra di stare nel più erotico dei mercati generali) è stata davvero posseduta da questo fauno di settantenne corteccia.
“al solito modo, come sai sono nel settore della pubblicità da tanto tempo, è facilissimo rimorchiare queste creature divine, basta saperci fare e soprattutto avere qualcosa che voi non riuscite ad avere” dice il donnaiolo.
A dargli una valutazione “quel qualcosa” dovrebbe essere un non so che di prostata e una abbondante e delicata cataratta.
“te la sei fatta come la nera? La modella di biancheria intima?” incalza l’oste
“no più come la svizzera, quella con quel sedere scolpito nel marmo della migliore qualità”
Lucio Battisti mi venne in soccorso: “ma non una parola chiarì i miei pensierii”
Seguì un acceso dibattito sul colore degli occhi della donna, in quanto il termine cerulei, utilizzato da Cosimo, non era accettato dalla maggioranza che preferiva il termine “azzurri”, ma a qualcuno ricordava il colore di un partito politico e una ristretta minoranza dell’opposizione riuscì a fare passare la mozione per cui si utilizzasse “blu”, l’avvocato si alzò – e stavolta in maniera chiara identificai l’autore della scoreggia precedente, visto che col movimento di levata ne riproduce una pressoché identica – dissertando che bisognava dire se erano blu oltremare o indaco, il meccanico, sopraggiunto a metà del racconto da lucido, in quanto il resto se lo è fatto sonnecchiando mezzo ubriaco, è stato capace di riallacciare le fila della vicenda come quando guardi le soap a intervalli di tre anni ma è come se non te ne fossi persa una. Grida risentito che con tutto quel ben di Dio da descrivere in quella femmina , stavano tutti a preoccuparsi del colore degli occhi, “dimmi piuttosto come era di culo”, chiese. l’Avvocato risentito si alza quasi lo volesse sfidare a singolar tenzone per la volgarità, a nostra volta ci risentiamo pure noi della levata del principe del foro. Propendiamo che sia più un “foro del principe” e anche abbastanza tossico, dato che ogni postura di seduta viene sottotitolata in maniera odorosa per i non udenti.
Peti ora rumorosissimi e quindi innocui all’olfatto, ma più spesso silenziosi e sibilanti, quelli che la scienza classica come “petus constrictor”, ti avvolgono piano come il boa omonimo e ti soffocano con una stretta letale, fumi velenosi avvertiti non solo dal camionista accanto a lui, ma di fatto è quello che rischia più di tutti e infatti lancia un’occhiata allarmata ai presenti, timoroso di una tinta bionda che sicuramente il gas sta dando alla sua capigliatura decisamente dissonante col viola che invece sta pervadendo il viso.
Cosimo mi meraviglia, è passato poco tempo da che lo conosco, ma più racconta i particolari erotici di quell’incontro, più comincio davvero a nutrire dei dubbi. Possibile che un vecchietto così malmesso, abbia davvero avuto questa avventura sensuale, possibile che addirittura non fosse nemmeno la prima, tanto che la fauna locale, gli astanti di questa bettola, che non si capisce in nome di quale principio di gravità stia in piedi, lo considerano un habituè del Monte di Venere di fanciulla origine?
Mi sento addosso la sensazione strana, come se qualcuno avesse organizzato tutto questo per me, che sono lì dentro per caso. Mi viene anche il dubbio di trovarmi in un film, se mi guardo intorno, i colori svaniscono, subentra il bianco e nero dei film italiani degli anni del dopo guerra, mi sembra perfino di cogliere molte somiglianze, tra i vari presenti con tanti protagonisti delle pellicole che in estate mi piaceva riguardare. Ritorno a quando ero un bimbo, i primi pomeriggi di ritorno dal mare, guardavo quelle pellicole rapito. Ancora adesso so a memoria le battute dell’”Oro di Napoli” di De Filippo.
Proprio questa magia mi sembra riprodotta, adesso e qui. Le pareti stingono, il luogo somiglia a tanti interni in bianco e nero, i personaggi si definiscono, Cosimo sembra Capannelle, il vecchietto dei “Soliti Ignoti”, il camionista sembra Renato Salvatori, L’avvocato ricorda un po’ Giacomo Furia, il ragazzo ladro matricolato ha il naso di Carletto Delle Piane, ma non mancano nemmeno Albertone, Nino Manfredi o Vittorio Gassmann. Ho il dubbio che mi abbiano messo un allucinogeno nella birra, ma è proprio l’atmosfera impregnata di questa essenza di vita. Ho il dubbio corroso di un gioco delle parti, non riesco a comprendere chi possa davvero credere a una sola parola, ma non mi stupisco di essere io il primo a credere.
Cosimo ha sospeso la sua narrazione, adesso ascolta interessato le opinioni degli altri, il loro vedere la vita, si odono cose che forse questi individui non direbbero nemmeno in punto di morte al loro migliore amico Ammesso che ne abbiano uno.
Nel frattempo cerco di capire i frammenti di vita di quest’uomo, lavora nella pubblicità? A dire il vero bisognerebbe domandarsi, ma lavora?
Opinioni dell’amore e delle donne che pian piano abbattono la corazza delle volgarità di cui ogni primate impropriamente chiamato uomo si fa forte parlando del genere femminile con un suo simile, pagine di diari della coscienza che sono state rimosse, angoli polverosi di romanticismo che vengono rinfrescati, per un attimo, oppure per sempre. sono allibito, sfiorano vette di poesia erotica di bassa lega ma pur sempre validi, momenti di intimismo che non avrei mai pensato di trovare dentro una taverna, si toccano punte di sensualità narrativa delle proprie esperienze che ormai hanno coinvolto tutti, anche l’avvocato, che all’inizio mi sembrava il più distaccato, ma che adesso si esalta increspando di suoni variegati il dibattito, profondità di concetti unita a imbarazzo intestinale.
La taverna sembra Chernobyl. Segno aulico del suo coinvolgimento.
“l’amore non ha bisogno di canoni estetici, viaggia per affinità d’anima” – incalza il leguleio
“ ma che affinità se una non è un poco bona, mi spieghi che te ne fai dell’anima?, un culo come si deve ce lo vuoi mettere o no?” – il postino sopraggiunto nel frattempo, posso intuire sposi la teoria del meccanico, il lato B di una donna è fondamentale per la dialettica pragmatica evolutiva del rapporto.
“il problema non è se è attraente o meno” – qui resto spiazzato pure io, il camionista si è alzato dalla sedia con tono professorale e meches appena fatte dal suo vicino, mi volto colpito da tanta competenza nell’esordio – “la bellezza è un canone puramente astratto, esso si concretizza solo ed esclusivamente nel momento in cui l’idea del bello, incontra qualcosa che ad occhio imperfetto dell’uomo ne incontri i canoni, ma sono visioni soggettive”.
Indescrivibile l’insalata di silenzio condita da bocche aperte, tutti lo guardiamo esterrefatti, come è possibile che da un pachiderma in canottiera di quella foggia siano uscite parole tanto perfette?
L’oste fino a quel momento impassibile, fintamente disinteressato, ha una piccola smorfia di condivisione. Cambia perfino postura, quindi è ancora vivo, è da quando gli ho strappato di mano la bottiglia che non lo sento interagire con noi.
Il camionista si rende conto di avere veramente innalzato la conversazione, va a mangiare un uovo sodo, emette un suono simile a una sirena di nave nella nebbia, che i meno esperti chiamerebbero solamente “aver digerito”.
“che cazzo avete da guardare?”- urla- le domeniche quando sto fermo alle piazzole di sosta e non posso circolare leggo i libri e allora?”
L’oste sa di potersi permettere la domanda, se non per amicizia di lunga data almeno per stazza simile a quella del camionista, “che cosa stai leggendo adesso?”
“La repubblica di Platone” – risponde due toni sotto all’urlo belluino di poco fa il viso è quello di chi confessa ben altri peccati. In certi ambienti ti sputtani se ammetti queste cose.
Cosimo si alza, per lui va bene così, un moto di disappunto prende gli astanti. Non vogliono che se ne vada, il ragazzo sta per chiedere un altro di vino rosso, ma il padrone lo fulmina con lo sguardo, promettendogli strali eterni se non smette di gesticolare. Sa a memoria quando è ora per Cosimo di tornare a casa, il sipario del sole a tratti della città, con gli spot sempre più frequenti dello smog sulla luce, sta calando, Cosimo ha un livello etilico limitato, poi non riesce nemmeno a riconoscere casa sua a meno di non avere un navigatore aggiornato tra le mani, il padrone della taverna ha un radar che individua quando l’acquosità degli occhi del vecchietto si trasforma in pericolo per la sua stessa deambulazione, lo prende per un braccio, sottraendolo al gruppetto di affamati delle sue storie, docile Cosimo si lascia condurre, instradare verso casa, il padrone lo abbandona appena fuori dalla locanda, ma resta in uno stato di sospensione, appeso in uno sguardo di finta incazzatura, ma di reale preoccupazione sulla certezza del suo ritorno a casa, dai suoi occhi si intuisce il punto a cui è arrivato il vecchio. Strada, marciapiede – sguardo teso-semaforo, attraversamento – allarme per macchine che non rispetta il rosso e quasi lo asfalta- individuazione del portone, facile da sobri, ma impresa da moltiplicare per quattro da ciucchi – sguardo più disteso ma ancora allerta – entrata nel portone, accensione di luci e grida dei familiari che lo rimproverano- allarme cessato.
Quasi a giustificarsi, rientrando l’oste squadra gli altri “spettatori”, principalmente me.
“manca solo che la figlia poi mi chiami e mi faccia il cazziatone perché non vuole che gli si dia da bere” biascica.
Il silenzio regna sovrano.
Dunque ha una figlia e una situazione familiare simile a quella di troppi anziani, ovvero schiavi di ciò che hanno creato e generato, confinati nelle prigioni da loro stessi edificate, la tesi del latin lover comincia a crollare come un castello dopo una performance dell’avvocato petomane
Mi preme puntualizzare che io sono un artista nel mancare clamorosamente i tempi teatrali. Se la mia vita fosse un film, mi licenzierei per totale assenza di talento nella scelta delle pause. Lo so e so anche che adesso dovrei stare zitto, ma quasi tutti sono ritornati a usare il loro sguardo per aspettare qualche cazzata che provenga dalla mia direzione.
Stavolta scelgo di non parlare, ma leggo tra le rughe dei loro volti un’ansia nuova, come di chi vuole dirmi qualcosa che dia un senso meno liquido e romantico a questo finale.
Si guardano, quasi a estrarsi a sorte, scegliere chi mi deve illustrare questa ultima pagina nera di quanto accaduto.
Parla il camionista, come un Pollicino mi semina le briciole di un discorso, perché io le raccolga andandogli incontro.
“anche oggi gli abbiamo dato un’ora di allegria”
L’Avvocato finalmente decide di fare uscire un po’ di fiato solo dalla bocca invece che da altri orifizi tutti insieme, “povero vecchio, mi fa una pena, tutto il giorno a cuocersi il cervello”.
I miei occhi evidentemente tradiscono la sete di apprendere notizie su Cosimo, i giudizi e i pareri vengono tranciati dall’oste, che decide di varare la versione ufficiale a mio uso e consumo.
“viene qui al pomeriggio, la mattina la figlia e il marito vanno al lavoro, lui vive con loro”
“la mattina gli friggono le cervella in balcone, resta tutto il giorno lì a guardare fuori”-la seconda rata della storia me la sussurra ormai uno sbronzo postino, falsamente distratto fino a quel momento.
L’oste si riappropria della vita di Cosimo e sua relativa descrizione.
“ ha ottenuto dalla figlia di non avere una badante dopo la morte della moglie, la figlia in cambio ha preteso che vendesse casa, lui non voleva, lei ha insistito”
“perché non voleva?” domando, infilandomi nella breccia comunicativa del grizzly col grembiule, ho sempre pensato che quando qualcuno di poche parole ti offre il pertugio per entrare devi sfruttarlo. Chi parla poco ha storie poco sputtanate, tenute dentro come diamanti che non ha trovato nessun avido minatore. Perle messe da parte per chi ha l’animo di saper aspettare. Quando un taciturno decide di emettere fiato, qualcosa ha trovato gli accordi giusti per fargli cantare la sua canzone. E io che sono del mestiere lo so e lo sfrutto.
“sapeva come sarebbe finita, la figlia avrebbe preso i soldi e lui sarebbe stato ostaggio della loro casa e della loro vita, lui che era capace di non farsi acchiappare nemmeno dalla sua ombra. Con la scusa di accudirlo lo hanno messo al muro. Adesso sta tutto il giorno su un balcone, a bruciarsi la pelle e a inventare storie”.
“allora sono tutte invenzioni, le sue” – non poteva essere altrimenti, troppe gesta eroiche per uno che reggerebbe a malapena l’armatura.
La risata amara del camionista arriva come il famoso passaggio di Ronaldinho. No look. ride ma non mi osserva, guarda il suo piccolo mondo vetrato a forma di bicchiere.
“le storie le tira fuori dal delirio. Guarda fuori tutto il giorno e con qualsiasi tempo, non gli permettono neanche di accendere il televisore in casa, né di leggere il giornale. Gli hanno tagliato tutti i viveri, lui sta affacciato e osserva continuamente i cartelloni pubblicitari che gli mettono alla strada di fronte”.
Sono meravigliato
“si immagina una storia a seconda della pubblicità che gli sparano in faccia, proprio così, cartelloni pieni di gnocche, bikini, culi e tette, lui non fa altro che immaginarsi degli incontri sessuali”
“non sempre” – interrompe l’avvocato – “ ricordate quando vide la pubblicità dell’agenzia immobiliare? Dove c’era una donna con un tailleur e un seno da paura, il messaggio diceva: se cerchi casa , non ti offriamo solo il balcone, ma serietà e un acquisto sicuro”. Di quella lì Cosimo si innamorò, il cartellone lo lasciarono lì parecchio e lui non raccontava più i particolari erotici, ma di inviti a lume di candela, serate passate a declamarle poesie”
“quello l’ha fatto davvero”- dice l’oste- “ non so quante volte la figlia è andato a prenderlo a mezzanotte passata dal marciapiede di fronte, se la filava di nascosto, i vicini le telefonavano e lei lo acchiappava ancora col libro di poesie in mano e il pigiama sbottonato sulla patta. Era addirittura geloso, all’inizio i commenti pesanti che facevamo gli piacevano, poi si è cominciato a infastidire, un giorno si è incazzato, dicendo che aveva intenzioni serie e che non si doveva scherzare sulla sua futura moglie. Per un po’ è sparito, poi è tornato, hanno cambiato il cartellone e si è dato una calmata, la figlia lo aveva rinchiuso in una casa di cura e aveva minacciato di non riportarlo più”
“tolto questo ehm..episodio” – riprese l’oste- “ogni volta che cambiano il cartellone, lui il giorno dopo è qui a descrivere abbordaggi, corteggiamenti e chiavate bibliche, per questo dice di lavorare nella pubblicità, in fondo è vero, lavora di testa con la pubblicità che gli mettono davanti”.
“ e noi gli diamo spago, è divertente, innocuo, un po’ scemo, fa pena, ma ci facciamo due risate” – la didascalia finale del ragazzino in fondo al bancone.
Una recita messa in piedi apposta. Il sospetto mi aveva colto, ma devo dire che il teatrino è stato all’altezza di quelle fiction di quart’ordine che danno in tv a ora di cena. Quelle che si approfittano del rincoglionimento che ci prende a livello territoriale per entrare nelle nostra case a darci idee banali e storie d’amore con un lieto fine tormentato, ma raggiunto. Le fiction sono il nuovo comunismo, danno a tutti lo stesso grado di rincoglionimento a prescindere dalla fascia di reddito dello spettatore.
Forse ubriaco di birra, forse meravigliato di quel teatrino ho lasciato credere a me stesso che ci fosse un fondo di verità. Ma devo dire che mi piace che la realtà mi sorprenda anche quando è scontata, quello che stasera ho capito è che il mondo non è mai il mondo. Il mondo è un posto eletto da ognuno, può essere una distesa infinita dove sfidi le intemperie, può essere un palco da cui fai fatica a scendere e ritornare alla normalità, ma può essere anche questa bettola, ognuno porta dentro le proprie tasche foto lettere ma anche qualcosa di più spirituale, qualcosa che brucia ma non può essere curato. Entra nel suo mondo personale, tira fuori dalla borsa il suo asse terrestre privato, sceglie l’inclinazione giusta e inizia a far girare il globo dal suo punto di vista. Scriverò qualcosa su questa fauna che non ha capito chi sono. Le mie migliori canzoni le ho scritte così, andando in giro senza farmi riconoscere, oppure dicendo di somigliare a..
Ho sempre scritto canzoni, la vita è una donna strana ma affascinante. Può farsi te, o tu puoi provare a sedurla, puoi sentirti tanto presuntuoso da credere di riuscire a comandare tu nell’amplesso con lei. Ma per farlo devi avere strumenti che ti facciano prendere strade alternative, le canzoni sono le mie mappe, per sedurre la vita, le scrivo da sempre. C’è chi fotografa gli attimi, chi li fissa in pagine e pagine cercando le parole giuste, adesso mi sento sbattuto al muro dell’obbligo di pensare una canzone per Cosimo, che parli di lui.
L’oste mi sveglia dal mio torpore, quello che mi pervade poco prima di voler creare, sono già sul “pezzo”, come direbbero i giornalisti.
Sta girando di tavolo in tavolo. Ognuno di quelli che mi ha consegnato una tessera del mosaico di questa giornata si è ipnotizzato a guardare dentro il suo acquario personale. Ognuno cerca disperato un solido indizio del suo futuro in mezzo a liquidi alcolici che fluttuano dentro e fuori il corpo. Dentro e fuori un bicchiere intorno al quale ormai sono custodite tutte le tessere dei loro futuri.
L’oste riporta tutti al mondo dei sobri, quello che aspetta fuori, non sono pronti, anche su ognuno di loro sarebbe da scrivere una canzone. Lentamente si alzano tutti, come se la metà di sotto del loro corpo non avesse mai avuto una posizione eretta. Escono da una stanza buia e malmessa eppure sicura e accogliente nel loro falso ipnotismo. Per loro la prigione non è quello spazio angusto. La prigione è tutta fuori da lì. E le condanne gli arrivano quotidianamente. Il camionista che dovrebbe smettere di bere altrimenti la moglie lo lascia, ma non ce la fa, intanto al lavoro gli danno da fare tratte sempre più brevi, forse tra un po’ non gliene daranno più, nel frattempo ha scoperto una strada strana che forse lo salverà, ha cominciato a leggere. Il primo libro glielo ha prestato l’oste, che pagherebbe di tasca sua per non averlo così spesso lì dentro, una pagina dietro l’altra e adesso non riesce a smettere.
Il ragazzo che vive di espedienti, se riesce a rubare qualcosa ha la dose assicurata, altrimenti sono urla e crisi ed è meglio comunque non pensare a come potersi procurare da mangiare. La sua fine è scritta tra un ago e la prima discarica dove si adagerà per sognare e allontanarsi, oppure verrà buttato da qualcuno, poco disposto a capire la sua voglia di essere come gli altri.
L’avvocato che ormai è stato lasciato da tutti. Aveva sfiorato la gloria quando era giovane e audace, aveva vinto molte cause, forse una di troppo contro una persona più potente di quanto lui immaginasse, contro qualcuno che ha deciso di volerlo vedere dalla sua parte o rovinato per sempre. Lui aveva rifiutato l’offerta. Da allora l’unico cliente che ha è un topo che vorrebbe far causa al gatto del cortile di casa per mobbing e vessazioni varie ma può pagarlo solo in formaggio. Lo hanno lasciato tutti, mogli, figli, segretarie, clienti, amici. Qui dentro è una merda come tante altre e le merde salutano le merde e le rispettano. Forse volontariamente ha lasciato sul tavolo l’ingiunzione di sfratto. Domani lascerà casa sua. Domani potrebbe tornare a depositare il suo corpo qui dentro. La sua anima è morta da un pezzo. La buccia forse ha poco da chiedere.
Il meccanico pieno di debiti, che aumenta i prezzi per pagare gli strozzini, ma non dice nulla al figlio che lavora fuori. Un lavoro importante e ben pagato. Ma lui non gli chiede aiuto. Il figlio è convinto che vada tutto bene. Lui invece ha bruciato tutto col vizio del gioco. Un vizio che gli ha preso dopo che era morta la moglie. Insieme al vino doveva scacciare i fantasmi che gli atterrivano le notti e si sedevano dalla parte dove dormiva la moglie. Ai fantasmi si sono aggiunte le persone che un mese dopo l’altro minacciano un spezzargli un dito per ogni cento euro che non paga. L’oste gli ha appena prestato duecento euro. Sa che non li rivedrà. Ma domani dopo cinque anni di lontananza viene il figlio con la famiglia, un giorno solo, per lavoro. Lui con quei soldi farà credere di passarsela ben, non chiederà nulla e tratterà il suo ragazzo con tutti gli onori. Sa già che vorrebbe piangere, ma non sa ancora se per il dolore dell’incontro con i suoi creditori di domani sera, a cui non saprà cosa dare, o per la gioia e il male insieme di vedere suo figlio che circumnaviga brevemente la sua vita per poi sparire all’orizzonte. Nuovamente.
Poi c’è il postino, che non ha mai conosciuto una donna e allora fantastica di storie d’amore leggendo le lettere destinate alle altre donne. Il postino che ce l’ha con la tecnologia perché le mail e gli sms gli rubano la poesia. Sempre meno gente si scrive, ma forse è meglio così, è più facile trovare spiriti simili nel deserto epistolare moderno.
Le loro storie le ascolto adesso, tutte insieme. L’oste ha mandato via tutti ma mentre anche io mi ributtavo nel mondo mi ha detto “tu no, tu resti qui”.
“non credere che non ti abbia riconosciuto, so chi sei, mio figlio è impazzito per te, come ti chiamano? Ah si, il poeta maledetto, ogni giorno studia con la tua musica in sottofondo impestando tutta la casa”.
“mi dispiace” – dico tra l’ironico e il sincero – “non deve essere un ragazzo modello, studiare con la mia musica non lo augurerei neanche a chi voglio male davvero”.
“si sta laureando in medicina, poi vuole specializzarsi nel curare malattie epidemiche e partire per l’Africa, devo ammettere che col tempo mi ha coinvolto, alcune tue canzoni piacciono anche a me. È stato lui a dirmi che giri tra la gente in incognito quando sei in cerca di ispirazione, quando ti ho visto entrare ho subito collegato, poi ho avuto la conferma”
“da cosa?, come mi sono tradito?”.
“il tatuaggio sul polso, con le iniziali del nome di tuo figlio e del tuo, che poi sono anche le iniziali del tuo nome e cognome, si è intravisto mentre bevevi”.
“ho creato un mostro, anzi tuo figlio ha creato un mostro, ma quante cose ti ha detto di me?”
“io con lui parlo, e tanto, siamo solo noi due, sua madre ha pensato di fare a meno di noi e di rincorrere occhi di qualcun altro, qualcuno che può permettersi di essere affascinante, io ho i calli alle mani e troppo vino che mi impregna le vene anche quando non bevo”
“dalle mie parti si dice che chi si innamora di occhi capelli e denti non si innamora di nulla”
“che vuol dire?”
“che non sono quelle le parti che bisognerebbe inseguire nella vita per innamorarsi, ma ciò che forse ti fa tenere dentro la persona che amavi anche quando non ci sarai più, forse avrebbe dovuto cercare meglio quello che avevi dentro te, prima di andarsene”.
“senti con queste cose ci riempirai gli stadi, ma a me non mi incanti, non è di me che volevo parlarti, io sono felice così, ho perso una donna ma ho guadagnato mio figlio. Quando c’era lei filtrava tutto di noi due, si divertiva a dare a entrambi una immagine diversa da quello che eravamo. Io pensavo che mio figlio crescesse come uno stronzo viziato, lui pensava che fossi un orco. Ci ha tenuti lontani, filtrava il nostro dialogo. Quando ci siamo trovati noi due da soli ci siamo scoperti completamente differenti”.
“è sempre così, due è il numero perfetto per parlare di sé a uno specchio. Se ti ama davvero quello specchio riflette su quello che dici e sa come sei fatto senza distorsioni, oppure se hai proprio paura di quello che può uscirti di bocca, puoi dirlo di fronte a migliaia di persone, i fantasmi ballano meglio se di loro ne canti, poi come dici tu, io con le mie cose ci riempio gli stadi, ho migliaia di specchi, ma non è detto che mi riflettano davvero come vorrei”.
“che intendi dire?”
“sono più vero adesso, a farmi bloccare dentro questa stanze dalle tue parole, sono più vero quando osservo e colgo le vite altrui, non mi crederai ma sono più felice quando sono gli altri a dire di sé stessi. Avrei voluto fare il fotografo, avrei avuto meno problemi a cogliere i momenti della vita, non farmi un culo così a cercare le parole giuste per parlare delle esistenze”
“le foto sono frammenti di qualcosa che non esiste più, ne abbiamo bisogno perché così ci illudiamo che la vita in qualche modo la fermiamo, la blocchiamo in qualcosa di eterno, le tue canzoni la gente le canta, fa il coro, tu dai alle persone qualcosa per tirare avanti e farsi coraggio per il futuro, le tue canzoni sono ancore di passato, leggere e pesanti, le tieni in mano ma ti bloccano il passo per farti retrocedere al ricordo, sperano di trovare qualcuno che gli venda del tempo vero, genuino, privo di compassione e di finto ascolto che duri solo pochi minuti, a volte aspettano che qualcuno rinneghi il loro nome e il posto e le persone che riproducono. Qualcuno guardandole vorrebbe essere convinto che quello che ha visto è frutto della sua fantasia.
Loro conoscono davvero il posto dove si nascondono le malinconie. conoscono angoli del nostro animo, soffitte del nostro io che avevamo sprangato. magari nella segreta speranza di riguardare tutto più in là, ma nel frattempo nascondiamo ciò che lui trova, quel che è peggio, sanno intrappolare le vostre paure nel palmo della sua mano, come topi fuggitivi presi per la coda. ma quel che è peggio sanno richiamare indietro gli spiriti tutti quelli che hanno qualcosa da dirvi. lui sa andare a prenderli e riportarli indietro da posti dove nessuno tranne loro possiedono la mappa.
“ma che cazzo è questa? L’osteria della sapienza?? Camionisti che leggono Platone, Osti che mi dicono cose che se le metto in musica, campo di diritti d’autore per i prossimi cinquecento anni!”
L’oste fa un sorriso, elusivo, di chiusura parentesi. “sono le cose che mi ha detto mio figlio sulle tue canzoni, sul tuo modo di cantare e di scrivere, sai una cosa? Aveva ragione, mi spiace dirlo, ma scrivi davvero così, come se fotografassi, il mestiere che vorresti fare lo fai già”. – fa una piccola pausa poi riprende a parlarmi –
“andiamo al punto, scrivi quello che hai visto, fissalo davvero come un fotografo, ma stai attento ai particolari. Che cosa credi di aver visto stasera?
“che dovrei dire? Ho assistito a una pantomima fatta a favore di un povero vecchio, da parte di persone non meglio collocate a questa vita”
“no, come vedi hai già sbagliato, questo è quello che credi di aver visto. In realtà Cosimo è la boccata d’ossigeno per questi asfittici.
È l’oasi di questi poveracci. Cosimo ha davvero avuto molte donne, ha vissuto una vita in cui ha messo alla moglie più corna di un cesto di lumache infedeli, ha avuto storie di una clandestinità tale che forse nemmeno le donne che si scopava avevano coscienza di stare a letto con lui, ma la leggenda si è esaurita, liquefatta alla quotidianità, al lutto, alla famiglia che lo ha messo all’angolo come un cane che ha pisciato sul pavimento tirato a cera. I particolari erotici che racconta, le sue passioni fisiche sono integre e vere. È la custodia che ormai è improbabile. Confonde le donne dei cartelloni con quelle del suo passato.
Lascia che queste fighe cartonate invadano la sua memoria con le loro bocce ingombranti che si siedano tra i suoi ricordi con i loro culi marmorei, ma l’evento fisico, l’amplesso che racconta, è vero. Questi altri miseri esseri che hai visto ascoltarlo e prenderlo in giro non avranno mai avuto un quarto della classe di Cosimo. Vengono qui a bere da bicchieri che sembrano urne cinerarie in cui muoiono tutti i loro ricordi. Ci mettono poco a morire perché poca e insignificante è la loro vita. Incapaci di reagire. Io provo a salvarne qualcuno ogni tanto, andando anche contro i miei interessi. Ma non sono loro a prendersi gioco di Cosimo, è Cosimo che li allevia dalla vita che li prende per il culo ogni giorno. Adesso, se devi scrivere una canzone, per favore non sbagliare, non raccontare il tuo punto di vista, racconta il punto di vita a cui sono giunte le persone qui dentro”.
Quando sono andato via da quella città, non ho nemmeno salutato l’uomo che pensavo essere un oste, invece era uno scrittore mancato con doti di fotografo. O forse era solo un buon padre che faceva il mestiere che gli riusciva meglio per mantenere un figlio con idee oneste per la testa e per questo, strane. Un uomo che è stato capace di vedere la vita nel verso che nemmeno io riesco più a intravedere, forse perché essere famosi scava una fossa al mondo vero che vorresti cantare.
Da quella sera è venuto fuori un album intero. Fatto tutto di gente vera, fatto con suoni puri e senza troppi tecnicismi. Ho chiesto alla band di suonare come se fossimo dal vivo, senza appello, come veniva veniva. I brani sarebbero stati inseriti nell’album nella prima e unica versione incisa.
Non ha venduto tanto, col tempo è diventato una chicca per collezionisti, si è rifatto negli anni, quando è diventato un must per chi aveva tutta la collezione del sottoscritto. Se trovi queste pagine nel tuo cd sappi una cosa, sono proprio le pagine originali che ho scritto “di contorno” all’album. Ma che non ho mai voluto pubblicare per tanto tempo. Non ho nemmeno inserito nell’album quando è uscito, tanto, ormai troppo tempo fa.
Non ci sono altre pagine uguali in giro, dopo averle stampate ho cancellato ogni traccia di quello che avevo scritto al computer. Caro amico che hai acquistato il cofanetto, hai tra le mani qualcosa che esiste solo per te. Non so quanto te ne freghi di ascoltarmi, non so se mi segui da tempo o mi odi.
Magari mi odi adesso, perché questo cd dovevi regalarlo alla tua fidanzata e vi siete lasciati, io non ti sono mai piaciuto ma a lei piacevo, quindi avere tra le mani qualcosa di mio ti fa girare le palle in maniera astronomica.
Chiunque tu sia e qualsiasi cosa tu voglia fare di queste pagine sappi che sono una fotografia mancata. Come tale più rara di quelle che vengono scattate.
Volevo davvero farla quella foto. Anni dopo sono andato nuovamente in quella città, per ritrovare quella taverna, ma non in incognito, così com’ero, non mi importava di farmi riconoscere, avevo con le copie dell’album che apparteneva a quella gente che aveva popolato la mia giornata e la mia birra, diciamo che ero venuto a restituire quello che loro mi avevano dato.
Non ho trovato più nulla, tutto chiuso, ma anche tutto in rovina. La saracinesca arrugginita che chissà da quanto tempo non si apriva.
Ho guardato in direzione del balcone dove l’oste mi aveva detto che Cosimo cuoceva a fuoco lento attendendo la figlia di ritorno da lavoro. I cartelloni erano tutti lì, le sue fonti di ispirazione, ma lui non si vedeva.
Non ho voluto unire tutti i punti interrogativi che avevo in testa per risolvere l’enigma, non ho chiesto informazioni. Meglio lasciare tutto così. La memoria non va solleticata se non hai voglia di andare avanti.
Come diceva un mio amico: “le foto sono frammenti di qualcosa che non esiste più” non fai in tempo a scattarle che il soggetto è già qualcos’altro. È il tempo, non ci dà possibilità di vederlo, ma lui ci vede e ci conosce. Eccome.
Se vuoi puoi ascoltare le storie di quel giorno. Altrimenti non fermarti a guardare, non scattare foto. Se vuoi, buon ascolto.
