Lo sai che c’è? C’è che io proprio non ne posso più di parlare d’amore, che tanto la verità è che ce ne è pochissimo e quel pochissimo che c’è non lo si vede in giro facilmente e non si fa descrivere, che se poi lo descrivi, ci riesci, è già banale e ha perso tutto.
Facile a dire Ma come? Con tutte le parole, i fiumi di parole che sono stati scritti e usati da che è nato il mondo, più che il mondo il linguaggio, neanche la scrittura, adesso tu mi dici che a descriverlo l’amore perde tutto? Ma se soltanto a leggerlo finisci per sentirtelo, dentro, che ti prende o che ti manca, o che ti fa male, non sai bene dove, ognuno ha un posto suo per questo, o ti fa bene, ma questo è già più raro perché non è per niente facile che quell’amore scritto si avvicina a quello che tu hai accanto, che respira lento (sta dormendo) mentre tu leggi ancora, che stasera non hai sonno.
Facile a dire anche Non è vero! Che se volessi io saprei trovarle le parole, è che non voglio, il che forse è anche vero, perché ci vuole un gran coraggio a dirlo, non solo quel che senti, ma come lo senti, o dove, specie se poi è una cosa solo tua, che vive nonostante te e il tempo e lui e l’assenza e la gioia e il dolore e i sorrisi e il pianto. Ci vuole un gran coraggio a regalarlo agli altri anche, che ci saranno quelli che faranno gli occhi languidi, quelli che resteranno lì a sentirselo fluire piano, sopra la pelle, sotto; quelli che poi tornati a casa lo dimenticheranno, anche se un po’ di brividi li hanno sentiti, un attimo, soltanto un attimo, magari poi succede pure che si trovano a pensarci, in un momento che non è il momento, che stanno pensando ad altro; ci saranno quelli invece che te lo giudicheranno, ti giudicheranno, che in fondo poi l’amore è un’altra cosa, è roba che si costruisce e tu che cosa hai costruito se non fiumi di parole che non sono diventati fatti mai?
Che poi anche io li giudico.
Quelli che lo raccontano.
Quelli che ti raccontano di mille voli e iperboli, e fiamme e fremiti, campane e treni in corsa, e batticuori, e sudori freddi, parole che si incagliano nei baci, baci che si incagliano nelle distanze, distanze che si infrangono nella vita, vite che finiscono nelle speranze e nelle attese.
Io non ne posso più neanche di sentirne parlare dell’amore.
Che ognuno ha il suo poi e forse la verità è che nessuno ce l’ha, perciò ne parla.
Insomma pensaci.
Conosci una persona, incontri un vecchio amico, vai ad una festa, ad una cena, a un cinema, e prima o poi qualcuno tira fuori che te la ricordi quella, o quello, adesso non importa, lo sai che ha fatto o ha detto o cosa gli hanno fatto? E poi da lì ci vuole niente, che tutti poi diventano maestri. E io l’avevo detto, e c’era da aspettarselo, e lui – o lei, è lo stesso – era uno stronzo. Che importa poi se quello o quella – stronzo o stronza si intende – in realtà è molto meno stronzo di chi sta parlando (che poi chi lo decide chi è stronzo? Eh, anche questo è un argomento), o addirittura di quello o quella che se lo doveva aspettare che così finiva? E’ che di lui o di lei chi c’è che sa davvero che cosa sentiva? In realtà neanche lo si sa di quello o quella di cui si sta parlando, che le persone che conosci dentro per davvero sono poche e di quelle non ne parli, come ci vuole un sacco di coraggio per parlar di te. E’ per parlare che si parla. Perché sembra che parlando, boh, non so che cosa sembra, anzi in realtà quello che penso è che proprio il parlare, più dell’amore, è per ognuno qualche cosa di diverso, ed è per questo che non ci capiamo. Alcuni parlano per ascoltarsi.
Il che non è poi male se ci pensi.
Specie se quando parlano riescono a non mentirsi, a dirsi la verità. Se quel parlare serve ad ascoltarsi per davvero. A riguardarsi dentro, a trasformarsi e a crescere anche. Ma è così difficile. E’ più facile che chi parla per ascoltarsi parla per convincersi che quel che dice è giusto, che ha ragione, che è la verità. E non ti ascolta in genere, ti insegna, anche se finge di non farlo, è facile, fingere intendo, un consiglio non è detto che tu debba prenderlo per un insegnamento, come anche un assunto, meglio ancora se è un assunto un po’ banale, o trascendente, inopinabile, conforme.
Soprattutto conforme.
Che poi anche la conformità dipende dai contesti. Conforme per chi?
I contesti sono la cosa peggiore.
Ogni contesto ha le sue verità assolute.
La cosa più triste è che chi di contesti ne ha vissuti tanti o si adatta ad essere un camaleonte, e in genere può farlo solo chi già nella vita ha scelto di esserlo, o, dopo poco, sempre meno, finisce per aver la nausea.
Ecco credo di avere la nausea.
Dell’amore, di chi ne parla, di chi lo racconta, di chi lo vive e in ognuno di questi modi lo fa a pezzi. Lo piega, lo stravolge, lo incanala, lo imbriglia, lo imprigiona in una delle forme in cui lo riconosce. O non lo riconosce affatto, ma se poi gli cambia forma sono gli altri, quelli che ascoltano, che non lo riconoscono, dipende dal contesto, in cui ne parla.
Di leggerlo.
Ho la nausea anche di leggerlo.
Di riconoscermi o cercarmi tra le righe, di ritrovarmi o non trovarmi mai, di domandarmi, darmi risposte, analizzarmi.
Di scriverlo.
Di usare queste stupide parole per descriverlo riempiendo fogli bianchi e minuti ed ore vuote, che non è vero affatto che ti aiutano a sentirlo, a stringertelo forte tra le dita che non lo vuoi perdere, o a esorcizzarlo, quando ti fa male, se ti fa male. Servono al limite a distrarti, anche se magari mentre scrivi piangi. Ma non è detto che sono le lacrime a descriverlo l’amore quando c’è.
Ho la nausea di tutte le parole che si usano, che anche io ho usato, per descrivere tutto l’amore che non c’è. L’amore finito, l’amore tradito, l’amore cercato, l’amore rubato, l’amore comprato, l’amore ingannato, l’amore è un gioco, l’amore è un fuoco, per sempre, per un attimo, vivi l’attimo, un battito d’ali, il volo più alto, le cadute. Di pantofole sotto un letto e sesso in un motel. Di niente sesso, niente amore, ma ci sono i figli. Di niente sesso, niente amore, ma ci sono i figli, ma è solo per dire, per portarti a letto. Di affetto. Di stima. Di gratitudine. Di è la madre, il padre dei miei figli. Di le/gli voglio bene. Di ero giovane. Di sesso senza amore. Di amore senza sesso. Di ti amo ma non posso lasciarli. Di ti amo ma non posso lasciarla. Di ti amo ma non posso. Di esistono tanti tipi di amore. Di non voglio più negarmi niente. Di è giusto non negarsi niente. Di la fedeltà è un valore. Di la fedeltà è una coercizione antropologicamente aberrante. Di basta non dirlo. Di basta non saperlo. Di parliamone. Di che?
Ho la nausea dei volta pagina, dei dimenticalo, dei morto un papa, dei chiodo scaccia chiodo, dei il tempo è un galantuomo – lui no, mai -, dei passerà, e di amore non si muore, e vedrai, vedrai, e non disperare, ma chi di speranze vive, la speranza è l’ultima a morire, chi non muore si rivede, tu come stai? Ma allora può tornare? Mai tornare indietro, quello che è fatto è fatto, domani è un altro giorno, fatti una vacanza, e l’acqua sotto i ponti, tutto cambia – gli uomini però no, quindi? – mai il carro davanti ai buoi, rosso di sera.
Lo sai che c’è? C’è che non ne sappiamo proprio niente dell’amore e quando ci succede, se ci succede, ognuno ha il suo di amore, che gli prende dove e come gli prende e lo sa lui soltanto per quanto, per un attimo o per sempre, e non ha proprio nessun modo per descriverlo, per raccontarlo, se non quando è finito e lo può chiudere dentro un’immagine, anche cento, o dentro le parole. Quelle che usava per descrivere quelli finiti, se erano amori. Che nessuna parola basta. Né a chi la dice, che sta amando, né a chi la ascolta, che ti ama. Non bastano le parole. Ed è anche brutto che usiamo quelle che abbiamo usato già. Quelle che si usano.
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La prima volta che ho visto le lucciole avevo diciassette anni.
E’ stato il giorno del mio compleanno.
Era il compleanno mio, di Laura e di Simona. Avevamo pensato che era l’ultima occasione per festeggiarlo tutte insieme, che poi per i diciotto anni ognuna avrebbe avuto la sua festa, che sarebbero stati troppi gli invitati per ognuna, che a diciotto anni non puoi tagliarli, neanche i compagni di classe che non ti fili, o gli antipatici, perché ancora non l’ho capito. Comunque taglia taglia alla fine gli invitati erano troppi lo stesso, per una casa almeno, allora ancora non c’era questa storia delle feste nei locali, insomma era abbastanza rara, così pensammo che se la facevamo più difficile la cosa un po’ si auto-eliminavano, certo a caso, non è che questo ci piacesse, ma dava anche la misura di chi ci teneva veramente, quindi. Beh magari non è proprio il massimo una delusione il giorno del tuo compleanno, ma in tre ci si fa forza no? Quindi alla fine ok, facciamolo e decidemmo di fare la festa fuori città, no peggio, a Ischia, a casa di Laura, che ci andava a villeggiare. Bella prova eh? Traghetto, pernottamento fuori casa – i più all’addiaccio – festa obbligata a scuola, all’Università, al lavoro, il giorno dopo, pranzi, colazione, bagagli, regali multipli…
Oh la festa andò bene. E vennero in così tanti che neanche ci rendemmo conto di chi non c’era. A dire il vero neanche ci rendemmo conto di chi c’era.
Ma non è la festa che conta.
Le lucciole contano.
Mentre accompagnavamo Marcello e Luca e Claudio alla pseudo-pensione ultra-economica che gli avevamo prenotato in extremis, ospiti di onore, lungo la strada buia come la pece, deserta e silenziosa, finalmente, migliaia di queste magiche lucine bianche iniziarono a ballarci intorno, a sfiorarci, a posarsi sui capelli, sulle mani tese, sulle dita.
Ecco forse non c’entra niente.
Cioè di sicuro non c’entra niente.
Ed è stato un secolo fa.
Però vorrei portarti in mezzo a mille lucciole. Per dirti quel che sento.
E lo so. Cose così non capitano spesso.
O forse sì. Quando non te l’aspetti.