Noi che per decidere se era gol, palo o traversa ci bastavano tre minuti, un “cornuto!” urlato all’unisono e due boffe (schiaffi di inizio lite) all’avversario.
noi che certe partite sotto le “picage du soleie”, ovvero il picco del sole di agosto alle due del pomeriggio le ricordiamo ancora come mitiche, estenuanti e bellissime. Noi che se ci proviamo adesso a fare una partita di calcetto, tutti vestiti con le divise da calcio griffate da fighetti, allo stesso orario degli stessi giorni, dopo un po’ cerchiamo un cono d’ombra per far riposare le panze da venditori ambulanti di anguria, pregando che questo supplizio, pantomima o che dir si voglia, finisca presto, giurando di non farlo mai più alla quarta extrasistole consecutiva. Noi che forse a quei tempi non sentivamo il caldo perché ci accompagnava la brezza della spensieratezza e la leggerezza dell’anima.
Noi che il “grattò” (sformato) di patate e a “pasta cu fuirnu”(pasta al forno), nemmeno li sentivamo in digestione se ci citofonavano per “la sfida a cu arriva per primo a cento”. Noi che le partite finivano quando gli arbitri, travestiti da mamme incazzatissime, invece dei tre fischi ci davano trecento timpuluna (schiaffoni), omologati dalla Fifa come “schiaffeggiata ufficiale”. Noi che sentivamo un brivido, quando le stesse mamme ci urlavano dalla finestra di rientrare subito, altrimenti con la perizia di ortopedici di fama internazionale “ci svitavano l’ossu rù culu” . noi che pregavamo che l’attaccante non fosse stato bocciato, altrimenti addio punta di diamante per il torneo di quartiere, altro che calciatore all’antidoping, le sanzioni erano cinghiate del padre a ripetizione.
Noi che quel gol non lo farai mai più, nemmeno se ci riprovi trenta volte e ancora adesso mi chiedo come cavolo hai fatto a farci vincere il torneo. Noi che il più piccolo del gruppo lo prendevamo sempre in giro e stava in panchina durante i tornei seri, ma un giorno fece tre gol e capimmo il perché, aveva pestato una cacca entrando in campo e il terzino lo evitava per non vomitare Noi che i portieri erano bravissimi, perché se era gol, la palla sbatteva violentemente sul cancello del pazzo che usciva col coltello con la frase originalissima da dire in coro alltoghether: “picciò ch’ama a ffari? U tagghiamu stu palluni?” (pargoli, che si fa? tagliamo l’oggetto del vostro manifestare ludico?) .
Noi che non avevamo il pericolo di perdere l’udito con le vuvuzelas, ma di sicuro a giocare su corsie e carreggiate,rischiavamo il novanta per cento del nostro apparato muscolo-scheletrico qualora non avessimo schivato le autovetture che sfrecciavano attraverso il “campo di gioco”. Noi che la carambola al muro era degli scarsi, che ogni tre calci d’angolo un rigore, che nei giorni di magra senza tanti per giocare, al massimo si faceva una “porta romana”, che ancora adesso manco sappiamo perché avesse questo nome.
Noi che gli ultimi passaggi prima di rientrare a casa erano mosci, ma servivano a confidarci e a cementare amicizie. Noi che così vi ho detto quanto litigavano i miei, che rischiavano di menarsi una sera si e una no, noi che mi avete fatto dormire a turno a casa vostra per tre giorni con le vostre famiglie per non stare a guardare la “guerra dei Roses” dei miei genitori.
Noi, che l’avvocato e l’ingegnere giocavano tranquillamente col killer di mafia e lo spacciatore di droga, tanto quel futuro così pieno di punti oscuri doveva ancora venirci a trovare. Noi che se incontravo il killer o lo spacciatore fuori dal quartiere mi davano sempre un passaggio in moto, anche quando la vita proprio quello gli faceva fare, il tempo aveva dato i suoi responsi ed eravamo grandi. Noi che tu non ci sei più perché il tuo marcatore più carogna te lo sparavi in vena già a quindici anni e io ti avevo aiutato tante volte venendoti a prendere tra i vicoli con ancora la siringa conficcata e il cucchiaino caldo, noi che tu dovevi andare al provino al Como, che eri un buon terzino e che anche l’Atalanta ti era venuta a vedere, ma andare al nord ti sembrava la luna, ti sei cacato sotto e hai preferito una vita da commesso.
Noi che a volte in quel quartiere degradato, avrei ibernato quei momenti di piccola cosciente felicita, quando sembrava che davvero sentivi il vento e avevi gli occhi aperti. Noi che adesso i sentimenti che abbiamo viaggiano in terza classe e in incognito. Io e te che non ci sentiamo mai e siamo lontani, ma a natale e pasqua ci telefoniamo come se nulla fosse e sento la tua voce che vorrebbe confidarsi e dirmi che non hai saputo tenerti tua moglie accanto e ti viene da piangere, ma eri il duro del gruppo e non puoi deludermi adesso che siamo adulti. Così quella lettera che vorrei mandarti giace ancora tra le cose da fare. Io e te che sembravamo inseparabili e abbiamo capito che la nostra amicizia resisteva a tutto tranne al diventare davvero amici.
Noi che “stasera non gioco, esco con la mia fidanzata”. Noi che tutto prima o poi doveva finire ed è finito, ma non lo sapevamo quel pomeriggio che ci siamo trovati quasi per caso in quello spiazzo. Noi che quel pomeriggio le ho squartate volentieri le mie scarpe bianche col baffo blu, che tutto erano fuorché da calcio e sull’asfalto. Noi che dopo anni lontano dal mio quartiere, dalla mia città e dalla mia vita di allora, sono tornato. Alla stessa ora di quei pomeriggi di caldo assassino, mi sono messo su quel piazzale e ho preso una palla, calciandola contro una porta (il cancello di allora). Noi che la palla “S’arruccò” , scarso ero e scarso resto. Noi che mi mancate e vi porto dentro e sarà così ovunque siate, e qualunque fantasma vi si agiti dentro spero che un po’ riconosca i miei.